Le Sezioni Unite risolvono i contrastanti orientamenti giurisprudenziali registrati in tema di configurabilità di un litisconsorzio necessario tra gli eredi del creditore nell’azione per il pagamento di somme dovute al loro dante causa.
In proposito, la Sentenza 28 novembre 2007 n. 24657 stabilisce che trova applicazione il principio generale secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza (cfr. Cass. 22 ottobre 1998 n. 10478, 17 novembre 1999 n. 12767, 28 giugno 2001 n. 8842, 6 ottobre 2005 n. 19460).
In questa prospettiva ogni coerede può agire per ottenere la riscossione dell’intero credito, non ponendosi la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli eredi del creditore, atteso che la pronuncia sul diritto comune fatto valere dallo stesso spiega i propri effetti nei riguardi di tutte le parti interessate, restando peraltro estranei all’ambito della tutela del diritto azionato i rapporti patrimoniali interni tra coeredi, destinati ad essere definiti con la divisione.
L’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi può essere richiesta dal convenuto debitore, se ed in quanto egli abbia interesse ad una pronuncia che faccia stato anche nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione.
Se il singolo coerede può agire per la riscossione dell’intero credito, a maggior ragione tale legittimazione gli va riconosciuta in relazione alla riscossione della parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, fermo restando che il pagamento effettuato dal debitore non ha effetti nei rapporti interni con gli altri coeredi.
In conclusione, si deve affermare il principio secondo cui i crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi. La partecipazione al giudizio di costoro può essere richiesta dal convenuto debitore in relazione ad un concreto interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.
Emiliana Matrone
Cassazione civile, sez. unite, Sent. 28 novembre 2007, n. 24657
Svolgimento del processo
F A , in qualità di erede del defunto marito A B, ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Chiavari la condanna della s.n.c. Mnv al pagamento di differenze retributive spettanti al dante causa in relazione al pregresso rapporto di lavoro intercorso tra il medesimo e la società. La Corte di Appello di Genova con la sentenza oggi denunciata ha riformato la decisione del primo giudice, dichiarando la nullità della statuizione di condanna in favore della minore R B e l’inammissibilità dell’intervento della stessa in grado di appello; ha liquidato le somme dovute alla sig. F A nella misura della quota ad essa spettante. Il giudice dell’appello ha escluso l’esistenza di un litisconsorzio necessario tra eredi per i crediti del de cuius.
Avverso questa sentenza la soc. Mnv ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi, illustrato da memoria. F A resiste con controricorso.
La causa è stata rimessa all’esame delle Sezioni Unite per l’esame della questione, sollevata con il primo motivo, della integrità del contraddittorio per la mancata partecipazione al giudizio di uno dei coeredi; questione su cui si è registrato un contrasto di giurisprudenza in ordine alla configurabilità di un litisconsorzio necessario tra eredi del creditore nell’azione per il recupero delle somme dovute al loro dante causa.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 727, 757 e 760 cod. proc. civ. in relazione all’art. 354 cod. proc. civ. e ai principi processuali generali in tema di economia di giudizio e contrasto di giudicati.
La parte censura la sentenza impugnata che ha negato la sussistenza di un vizio di integrità del contraddittorio per la mancata partecipazione al giudizio di R B, coerede di A B, escludendo l’esistenza di un litisconsorzio necessario tra i coeredi nell’azione promossa per l’accertamento del credito del de cuius, ed ha quindi pronunciato sulla domanda riconoscendo la sussistenza del credito azionato nei limiti della quota spettante alla sig. F A .
La società ricorrente afferma invece che la sussistenza del diritto in questione doveva essere accertata nel contraddittorio di tutti gli eredi. D’altro canto, nel caso di specie non poteva ritenersi neppure accertata la quota della successione.
Il motivo non merita accoglimento per le seguenti considerazioni.
La questione sottoposta all’esame di questa Corte riguarda la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra gli eredi del creditore nell’azione per il pagamento di somme dovute al loro dante causa. In materia, si sono registrati orientamenti contrastanti della giurisprudenza, perché secondo un primo, tradizionale indirizzo i debiti e i crediti del de cuius si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, operando nel nostro ordinamento il principio del diritto romano in base al quale nomina et debita ipso iure dividuntur. In questa linea, Cass. 5 gennaio 1979 n. 31 ha affermato che i prossimi congiunti di persona deceduta a causa di fatto illecito altrui, ove agiscano iure ereditario, possono chiedere il ristoro del danno ciascuno nei limiti della propria quota, per far valere il diritto al risarcimento già entrato nel patrimonio del defunto; Cass. 28 febbraio 1984 n. 1421 ha escluso, con riguardo alla domanda di risarcimento del danno proposta da un coerede nei confronti di altri coeredi o di un terzo, la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i coeredi.
Cass. 5 maggio 1999 n. 4501 ha affermato che la prestazione assistenziale o previdenziale può essere richiesta, dopo la morte dell’avente diritto, da ciascun coerede nei limiti della propria quota ereditaria; nello stesso senso si esprimono Cass. 9 agosto 2002 n. 12128, 29 marzo 2004 n. 6237, 5 aprile 2004 n. 6659.
Nello stesso ordine di idee Cass. 9 marzo 2006 n. 5100 ha ritenuto che in caso di successione mortis causa di più eredi nel lato passivo del rapporto obbligatorio si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, con la conseguenza che il rapporto che ne deriva non è unico ed inscindibile, e non si determina, nell’ipotesi di giudizio instaurato per il pagamento, alcun litisconsorzio necessario tra gli eredi del debitore defunto, né in primo grado, né nella fase di gravame, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause.
Da tale orientamento si discosta Cass. 13 ottobre 1992 n. 11128, con cui si è affermato, sulla base di una approfondita analisi dei dati normativi (non riscontrabile negli altri precedenti finora citati) che i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria. In senso conforme si sono espresse anche Cass. 21 gennaio 2000 n. 640, 5 settembre 2006 n. 19062, le quali però, sul presupposto che il mantenimento della comunione ereditaria dei crediti sino alla divisione soddisfa l’esigenza di conservare l’integrità della massa e di evitare qualsiasi iniziativa individuale idonea a compromettere l’esito della divisione stessa, hanno affermato che i compartecipi assumono le vesti di litisconsorti necessari nei giudizi diretti all’accertamento dei crediti ereditari ed al loro soddisfacimento, mentre Cass. 11128/1992, cit., aveva confermato il rigetto della domanda di un coerede diretta al pagamento della propria quota del credito ereditario.
Il collegio condivide l’indirizzo da ultimo richiamato per quanto attiene al regime di comunione dei crediti ereditari; ritiene peraltro che questa soluzione non comporti la necessaria partecipazione di tutti i coeredi all’azione promossa contro il debitore.
Come osservato da Cass. n. 11128/92 cit., il principio tradizionale della ripartizione automatica tra i coeredi è stabilito solo per i debiti dall’art. 752 cod. civ. (secondo cui i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e dei pesi ereditari in proporzione delle rispettive quote ereditarie); ma una diversa disciplina deve ritenersi dettata per i crediti dagli artt. 727 e 757 cod. civ. La prima disposizione, stabilendo che le porzioni debbono essere formate comprendendo nelle stesse, oltre ai beni immobili e mobili anche i crediti, presuppone evidentemente che gli stessi facciano parte della comunione. La seconda, prevedendo che il coerede al quale siano assegnati tutti i crediti o l’unico credito del de cuius è reputato il solo successore nei crediti dal momento dell’apertura della successione, rivela inequivocabilmente che i crediti non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico, ma ricadono nella comunione ereditaria.
Una conferma si trae anche dalla disposizione dell’art. 760 cod. civ., che, escludendo la garanzia per l’insolvenza del debitore di un credito assegnato a uno dei coeredi, presuppone necessariamente che questi siano inclusi nella comunione.
L’opinione di chi, per circoscrivere la portata del principio di cui all’art. 727 cod. civ., limita l’operatività della comunione dei crediti a quelli indivisibili, non trova alcun riscontro nel dato normativo, dovendosi del resto escludere, come ha osservato attenta dottrina, che vi sia incompatibilità tra distinzione strutturale dei diritti di credito degli eredi e permanenza degli stessi in comunione.
Argomenti in senso contrario alla tesi della comunione non possono essere tratti dall’art. 1295 cod. civ., secondo cui l’obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote. La norma, che non riguarda il credito del solo de cuius, ma concerne la diversa ipotesi del credito solidale tra lo stesso ed altri soggetti, si limita a sancire in generale, salvo patto contrario, l’inoperatività del principio della solidarietà tra gli eredi di un concreditore in solido, senza definire l’appartenenza o meno dei crediti alla comunione ereditaria.
D’altro canto, l’art. 1314 cod. civ., che riguarda la divisibilità del credito in generale, non risulta formulato per l’ipotesi del credito degli eredi, che l’art. 1204 del codice civile abrogato regolava invece stabilendo che gli eredi del creditore non potevano domandare il credito se non per la porzione loro spettante.
In definitiva, in tema di crediti facenti parte di una comunione ereditaria, i singoli coeredi non possono pretendere il pagamento di quella che assumono essere la loro quota, con la conseguenza che la stessa cessa di far parte di tale comunione, per la decisiva considerazione che non sono titolari del relativo diritto, non trovando applicazione il principio nomina et debita ipso iure dividuntur, su questo esatto presupposto quindi Cass. 11128/1992 cit. ha ritenuto corretto il rigetto della domanda.
Ciò premesso, ritiene tuttavia il collegio che trova applicazione anche in questa ipotesi il principio generale, affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza (cfr. Cass. 22 ottobre 1998 n. 10478, 17 novembre 1999 n. 12767, 28 giugno 2001 n. 8842, 6 ottobre 2005 n. 19460).
In questa prospettiva ogni coerede può agire per ottenere la riscossione dell’intero credito, non ponendosi la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli eredi del creditore, atteso che la pronuncia sul diritto comune fatto valere dallo stesso spiega i propri effetti nei riguardi di tutte le parti interessate, restando peraltro estranei all’ambito della tutela del diritto azionato i rapporti patrimoniali interni tra coeredi, destinati ad essere definiti con la divisione.
L’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi può essere richiesta dal convenuto debitore, se ed in quanto egli abbia interesse ad una pronuncia che faccia stato anche nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione.
Se il singolo coerede può agire per la riscossione dell’intero credito, a maggior ragione tale legittimazione gli va riconosciuta in relazione alla riscossione della parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, fermo restando che il pagamento effettuato dal debitore non ha effetti nei rapporti interni con gli altri coeredi.
In conclusione, si deve affermare il principio secondo cui i crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi. La partecipazione al giudizio di costoro può essere richiesta dal convenuto debitore in relazione ad un concreto interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.
Ne consegue che la decisione impugnata appare conforme a diritto, pur dovendo essere corretta la motivazione ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ.; infatti, la necessità di integrazione del contraddittorio con gli altri coeredi è stata esclusa esattamente, ma sull’erroneo presupposto che ogni erede possa agire soltanto nei limiti della propria quota. La statuizione relativa all’ammontare del credito spettante alla sig. F A non costituisce d’altro canto oggetto di impugnazione.
2.1. Con il secondo motivo, mediante la denuncia dei vizi di violazione e falsa applicazione dell’art. 414 n. 3 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 416 e 429 secondo comma cod. proc. civ., nonché difetto di motivazione, si ripropone l’assunto (disatteso dalla Corte territoriale) della nullità del ricorso introduttivo di primo grado – quanto alla domanda subordinata relativa a differenze retributive connesse alla quantità delle prestazioni lavorative fornite dalA B – per la impossibilità di identificare il petium e la causa petendi. In particolare, non risultano indicate le ore mensili, lavorate o pretese: e, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, tali indicazioni non sono desumibili dal conteggio prodotti dalla controparte.
2.2. Il motivo è infondato. Nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per omessa determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui essa si fonda, ravvisabile solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto risulti impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente ed il resistente non possa apprestare una compiuta difesa, implica un’interpretazione dell’atto introduttivo della controversia riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione, il che comporta l’esame non del ricorso introduttivo ma delle ragioni esposte nella sentenza impugnata per affermare che il ricorso stesso sia o meno affetto dal vizio denunciato (giurisprudenza costante: v. per tutte Cass. 27 agosto 2004 n. 17076, 16 gennaio 2007 n. 820).
Nella specie, il giudice dell’appello ha rilevato che l’interpretazione della domanda consentiva di riferire i conteggi relativi alla retribuzione spettante per un orario di 40 ore settimanali (e di durata rispettivamente inferiore e superiore nel primo e nell’ultimo mese di servizio) anche per il calcolo delle spettanze richieste con la domanda subordinata, secondo criteri specificamente indicati.
La motivazione, immune da vizi logici, resiste alle critiche mosse.
3. Con il terzo motivo si denunciano i vizi di violazione degli artt. 36 Cost, 2099 c.c. e «dei principi generali in tema di natura sinallagmatica del rapporto di lavoro», nonché difetto di motivazione. Si osserva che la Corte territoriale, seguendo la consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado, ha da un lato utilizzato la contrattazione collettiva del settore Lapidei come parametro di determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost.; dall’altro ha «confermato l’obbligo di retribuzione delle ore non lavorate fino alla concorrenza dell’orario contrattuale», mentre risulta che l’azienda ha ricevuto una prestazione di fatto inferiore a quella pattuita.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e seguenti legge 19 dicembre 1984 n 863, in relazione agli artt. 1206, 2126 e 2967 cod. civ. In relazione alla applicazione, enunciata nella sentenza impugnata, del principio secondo cui la retribuzione matura mensilmente, salvo i casi di interruzione o sospensione del rapporto senza diritto alla retribuzione nelle ipotesi tassativamente contemplate dalla legge o dal contratto di lavoro, la parte osserva che di fatto si è verificata una prestazione oraria inferiore quella contrattuale per le frequenti assenze del dipendente: sul presupposto di fatto di una prestazione inferiore a quella contrattuale sarebbe stato onere del dipendente provare di aver messo a disposizione della azienda le energie lavorative per l’orario non prestato, e che l’azienda per sua scelta non aveva accettato la prestazione offerta. Si richiamano in proposito le prove testimoniali raccolte e una dichiarazione del procuratore della controparte, relativa alla non contestazione delle ore effettivamente lavorate.
5. Con il quinto motivo di ricorso, denunciandosi la violazione dell’art. 1362 cod. civ., si rileva che la Corte territoriale ha erroneamente stabilito che la retribuzione del tempo pieno spettava in base al Ccnl Lapidei Industria. Tale affermazione si pone in contrasto con l’utilizzazione di questa disciplina collettiva, non applicabile direttamente al rapporto di lavoro in questione, solo come parametro di determinazione della retribuzione corrispondente ai criteri dell’art. 36 Cost.; si fonda poi su un’errata interpretazione di tale disciplina negoziale, che non riconosce il diritto alla retribuzione per le ore non lavorate.
6. Con l’ultimo motivo, denunciandosi un vizio di motivazione, si sostiene che la causa non può essere risolta in termini di mancata prova dell’inadempimento parziale del lavoratore, perché, anche a considerare assolto l’onere probatorio a carico del medesimo, il datore di lavoro ha fornito la prova circa la parziale prestazione ricevuta. Si richiamano in proposito le stesse deduzioni già riportate sub 4., e si rileva che la Corte territoriale avrebbe dovuto ricondurre alle cause che non comportano il diritto alla retribuzione le ore non prestate nell’ambito dell’orario normale.
7. La Corte giudica infondati questi quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione logica.
Secondo la sentenza impugnata, risulta pacifico in causa che fra le parti era stato stipulato un contratto di lavoro «a tempo pieno» (cioè per la durata normale dell’orario lavorativo stabilito dalla contrattazione collettiva del settore). Sulla base di questo presupposto, non contestato, la Corte territoriale ha richiamato il principio generale secondo cui la retribuzione matura mensilmente, salvo i casi di interruzione o sospensione del rapporto senza diritto alla retribuzione nelle ipotesi tassativamente contemplate dalla legge o dal contratto di lavoro.
Seguendo questa impostazione, il giudice di appello ha richiamato le disposizioni della contrattazione collettiva invocata da controparte solo per confutare la tesi secondo cui questa disciplina conterrebbe una regola autonoma di commisurazione della retribuzioni alle sole ore effettivamente lavorate, affermando che questa regolamentazione applica invece il principio generale sopra ricordato, precisando i criteri di riduzione dell’ammontare del corrispettivo in caso di prestazione di lavoro per un orario inferiore a quello pattuito per cause che non comportino il diritto alla retribuzione.
In relazione a questa ricostruzione – che come si è detto presuppone la pattuizione di una prestazione lavorativa «a tempo pieno» – sono irrilevanti i riferimenti della società ricorrente alle fattispecie del lavoro a tempo parziale e in particolare al problema di commisurazione della retribuzione alla prestazione lavorativa ridotta in caso di pattuizione priva dei requisiti di cui all’art. 5 della legge n. 863/1984.
La sentenza impugnata contiene poi questa enunciazione: «la circostanza che il dipendente, contravvenendo ai suoi doveri (ipotesi, peraltro, mai esplicitamente dedotta dalla Mnv) presti l’attività lavorativa per un tempo inferiore all’orario contrattuale non legittima la unilaterale diminuzione della retribuzione da parte del datore in mancanza di una ipotesi tipica di sospensione dell’obbligo retributivo).» La motivazione sul punto deve essere corretta, dovendo essere qui precisato, in relazione al principio generale di corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, che il diritto alla retribuzione è certamente escluso in caso di mancata prestazione lavorativa per inadempimento del lavoratore.
La stessa sentenza, peraltro, considera in proposito la mancanza di specifiche allegazioni da parte della società datrice di lavoro in ordine a questo profilo, e tale rilievo non è confutato dalla parte ricorrente. L’affermazione contenuta nel ricorso, secondo cui è «pacifico che la prestazione di fatto sia stata quella corrispondente alle ore indicate in busta paga, inferiori alle 174 mensili», resta priva di qualsiasi riscontro, e non vengono neppure indicate per questo aspetto, sotto il profilo del denunciato vizio di motivazione, specifiche circostanze di fatto di carattere decisivo di cui sia stato trascurato l’esame. Tali non possono essere considerate la dichiarazione resa in udienza dal procuratore della sig. F A , secondo cui «sulla base delle ore effettivamente lavorate non vi sono differenze retributive» (dato cui non può essere assegnato l’univoco significato di riconoscimento della corrispondenza delle ore lavorate a quelle risultanti dalle buste paga), né le deposizioni testimoniali parzialmente richiamate, con riferimenti del tutto generici ad assenze dal lavoro.
8. Il ricorso deve essere quindi respinto. In considerazione della particolarità della questione trattata, oggetto di contrasti giurisprudenziali, si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizioCommette il reato di cui all’art. 494 c.p. (sostituzione di persona) chiunque, al fine di procurarsi un vantaggio e di recare un danno ad altra persona, crei un account di posta elettronica con il nome di quest’ultima e, successivamente, utilizzandolo, allacci rapporti con utenti della rete internet, i quali vengono indotti in errore, perchè ritenendo di interloquire con una determinata persona, in realtà inconsapevolmente si ritrovano ad avere a che fare con una persona diversa.
La Cassazione, nella Sentenza del 14 dicembre 2007 n. 46674, in proposito, soggiunge che «oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell’art. 494 c.p., è l’interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d’un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome.
In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa».
Emiliana Matrone
Cassazione penale, sez. V, 14 dicembre 2007, n. 46674
Presidente Fazzioli – Relatore Calabrese
Pm Mura – conforme – Ricorrente Adinolfi
Osserva
Con l’impugnata sentenza è stata confermata la dichiarazione di colpevolezza di A M A in ordine al reato p. e p. dagli artt. 81, 494 c.p., contestatogli “perchè, al fine di procurarsi un vantaggio e di recare un danno ad A T, creava un account di posta elettronica, a….i@libero.it., apparentemente intestato a costei, e successivamente, utilizzandolo, allacciava rapporti con utenti della rete internet al nome della A T, e così induceva in errore sia il gestore del sito sia gli utenti, attribuendosi il falso nome della A T”.
Ricorre per cassazione il difensore deducendo violazione di legge per l’erronea applicazione dell’art. 494 c.p. e per la mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p.
Lamenta che non siano state confutate dalla corte fiorentina le critiche rivolte al convincimento di colpevolezza espresso dal primo giudice siccome basato sulla duplice errata considerazione, inerente la prima alla tutela di stampo civilistico al nome e allo pseudonimo, l’altra, più propriamente tecnico-informatica, alla sostenuta necessità di fornire all’ente gestore del servizio telefonico l’esatta indicazione anagrafica al momento della richiesta di fornitura della prestazione telematica.
Tali doglianze non possono essere condivise.
Oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell’art. 494 c.p., è l’interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d’un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome.
In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa.
Il ricorrente disserta in ordine alla possibilità per chiunque di attivare un “account” di posta elettronica recante un nominativo diverso dal proprio, anche di fantasia. Ciò è vero, pacificamente. Ma deve ritenersi che il punto del processo che ne occupa sia tutt’altro.
Infatti il ricorso non considera adeguatamente che, consumandosi il reato “de quo” con la produzione dell’evento conseguente all’uso dei mezzi indicati nella disposizione incriminatrice, vale a dire con l’induzione di taluno in errore, nel caso in esame il soggetto indotto in errore non è tanto l’ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona (la A T), in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa.
E non vale obiettare che “il contatto non avviene sull’intuitus personae, ma con riferimento alle prospettate attitudini dell’inserzionista”, dal momento che non è affatto indifferente, per l’interlocutore, che “il rapporto descritto nel messaggio” sia offerto da un soggetto diverso da quello che appare offrirlo, per di più di sesso diverso.
È appena il caso di aggiungere, per rispondere ad altra, peraltro fugace, contestazione difensiva, che l’imputazione ex art. 494 c.p.p. debitamente menziona pure il fine di recare – con la sostituzione di persona – un danno al soggetto leso: danno poi in effetti, in tutta evidenza concretizzato, nella specie, come il capo B) della rubrica (relativo al reato di diffamazione, peraltro poi estinto per remissione della querela) nitidamente delinea nella subdola inclusione della persona offesa in una corrispondenza idonea a ledere l’immagine o la dignità (sottolinea la sentenza impugnata che la A T, a seguito dell’iniziativa assunta dall’imputato, “si ricevette telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale”).
Il ricorso va pertanto respinto, con le conseguenze di legge.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.