Secondo la giurisprudenza la satira, notoriamente, è quella manifestazione del pensiero – talora di altissimo livello – che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.
Nella sentenza del 24 febbraio 2006 n. 9246, la Suprema Corte soggiunge che l’esercizio del diritto di satira, espressione della libertà di manifestazione del pensiero, è pur sempre soggetto al limite della continenza verbale e della funzionalità delle espressioni adottate rispetto allo scopo di denuncia sociale che l’autore della satira intende perseguire.
Ne consegue che non può ritenersi legittima espressione del diritto di satira la ridicolizzazione dell’aspetto fisico di una persona, compiuta in termini aggressivi e senza alcuna connessione con la finalità dello scritto.
Emiliana Matrone
Cassazione penale, sez. I, 24 febbraio 2006, n. 9246
Fatto – Diritto
A seguito di querela sporta dall’avv. L.G., fu promossa azione penale per diffamazione aggravata nei confronti della S. – tre articoli redatti dalla quale erano stati pubblicati sul quotidiano “(OMISSIS) – e per omesso controllo nei confronti del M., direttore del detto giornale.
Con sentenza del 28.3.2002, il Tribunale di Roma dichiarava gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.
Su gravame dei medesimi, la Corte d’appello di Roma il 4.11.2003 riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, condannando la S. e il M. al pagamento di Euro 2.000,00 ciascuno, a titolo di riparazione pecuniaria, ma confermandola nel resto.
Tale decisione veniva annullata con rinvio, per vizio procedurale, da questa Corte, con sentenza del 3.6.2004.
Il giudice di rinvio, individuato in altra sezione della corte d’appello di Roma, assolveva – colla sentenza oggi esaminata – da ogni addebito la S. perchè il fatto non costituisce reato e il M. perchè il fatto non sussiste.
Pur rilevando la ormai intervenuta prescrizione dei reati, riteneva tale giudice di dover emettere pronuncia assolutoria, notando anzitutto che la persona del L. era, all’epoca, salita agli onori della cronaca in virtù della notoria amicizia coll’allora magistrato D.P.A. e del coinvolgimento in delicate indagini processuali; dal che derivava l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti che la riguardassero.
Ciò premesso, osservava il giudice a quo che i riferimenti alla persona fisica del querelante assumevano carattere o di irrilevanza per difetto di offensività, o di satira pittoresca, non venendone comunque deformata l’immagine del soggetto. Il primo articolo non affermava che i clienti dell’avvocato L. avessero ricevuto un trattamento di favore in forza della suddetta amicizia, della quale si limitava a dare atto dell’esistenza, citando anche il veridico episodio di una compravendita di auto e della partecipazione (ancorchè non in qualità di fondatore) del medesimo ad una società, che peraltro aveva scopi perfettamente leciti e che quindi non provocava alcun disonore per il soggetto citato. Quanto a dichiarazioni rese da tale R.M. a proposito di detta amicizia, il tribunale aveva frainteso il senso della smentita da costui resa, che altro non era se non il desiderio di tenersi lontano dalla vicenda, senza peraltro negare le voci che collegavano il L. al D.P.. E del resto, la notizia era riportata dalla S. con estrema cautela. Il secondo articolo, a parte le notazioni descrittive della persona fisica del querelante, conteneva notizie veritiere sulla carriera dell’avv. L., collocato anche nell’ambito di una società denominata Promosud, rispetto alla quale era stata svolta una indagine giudiziaria, che rendeva la notizia di pubblico interesse. Del resto, una smentita di costui circa la posizione assunta in seno alla detta associazione (e non società) era stata pubblicata dalla giornalista. Quanto, poi, alla affermazione della S., per cui il L. faceva, più che l’avvocato, l’intermediario di affari, si trattava di una evidente distorsione del patrimonio professionale del soggetto, che però non aveva rilevanza penale, potendo se mai comportare titolo di risarcimento civilistico, per il mancato uso di termini intrinsecamente offensivi. In relazione ai successi professionali dell’avvocato, era mera deduzione di quest’ultimo che la S. intendesse attribuirli alla più volte ricordata amicizia; e l’unico caso citato a sproposito non incideva sulla complessiva veridicità dell’assunto. Nel terzo articolo veniva citata una perquisizione nello studio del L., a proposito del quale si rammentava che rivestiva la toga ma fondava società – il che non era attributivo di attività disdicevole. E quanto alla menzione di una contabile bancaria oggetto di procedimento penale che si sarebbe concluso un anno dopo, l’articolista esercitava il diritto di cronaca e, citando e non condividendo una intervista del già ricordato R., quello di critica, contenuto in termini non diffamatori.
Avverso tale pronuncia ricorreva per Cassazione, a mezzo del suo difensore, la parte civile L., che denunciava violazione di legge e vizio della motivazione.
La sentenza impugnata aveva erroneamente ricondotto nell’esercizio della satira i molteplici richiami alla fisicità del ricorrente; la satira deve essere chiaramente percepita come una voluta deformazione del soggetto cui si riferisce, mentre nel caso di specie gli argomenti svolti dal giudice (che negavano tale effetto) apparivano palesemente contraddittorii ed ignoravano i limiti della continenza, qui superati per la reiterata virulenza delle singole descrizioni, oltre tutto in un contesto non rispondente al vero, in riferimento ad un inesistente procedimento disciplinare a carico del L..
Quanto all’amicizia coll’ex magistrato, non era corretto limitarsi all’esame oggettivo delle espressioni usate, dovendosi tener conto del significato finale e complessivo degli apprezzamenti ed apparendo evidente l’insinuazione che essa avesse agevolato l’ascesa professionale del soggetto, con accostamenti suggestivi tra la vita privata e quella forense. La notizia dell’acquisto di una Mercedes era collegata alla persona del D.P. falsamente, essendo l’auto intestata a compagnia assicuratrice e rivenduta poi ad un prezzo documentato come molto inferiore a quello riferito dalla giornalista.
Qualsiasi esimente ne era allora esclusa.
La notizia relativa alla fondazione della soc. Isi Informatica era non veridica, come riconosciuto dalla sentenza, che contraddittoriamente poi la considerava non diffamatoria, distaccandola dal contesto dell’articolo, che aveva il chiaro scopo di porre in cattiva luce il ricorrente. Altrettanto doveva dirsi per la Promosud (associazione e non società) posta in collegamento colla qualità allora di ministro del D.P., di nuovo accostato al L. con intento denigratorio, derivante dalla qualificazione di avvocato del malaffare; solo una lettura parziale dell’articolo poteva giustificare l’affermata irrilevanza penale del suo contenuto.
L’intervista del R. era riportata in modo esasperato; il giudice di rinvio l’aveva valutata come vera, scorrettamente interpretando altre note giornalistiche e però ignorando che il suo contenuto, ancorchè cautamente riferito, integrava la lamentata diffamazione, stante anche la risalenza nel tempo delle dichiarazioni, frattanto ampiamente screditate. In particolare, il richiamo alla contabile bancaria – che di nuovo avrebbe collegato il L. al D.P. – veniva indicata come riscontro della intervista del R., che peraltro non ne parlava. Era quindi carente ogni interesse legittimante la pubblicazione.
Sostanzialmente falsa – e illogicamente ritenuta sostanzialmente vera – la notizia delle mancate carcerazioni che l’avv. L. avrebbe ottenuto (sempre nei modi illeciti insinuati, definendosi il querelante come “avvocato dei miracoli”) per i propri clienti; ancora una volta evocando le amicizie del ricorrente e dimenticando le carcerazioni e le condanne subite da numerosi altri patrocinati dal medesimo avvocato. La falsità della notizia escludeva l’applicazione di qualsivoglia scriminante. Si insisteva, quindi, per l’annullamento della sentenza impugnata.
Il ricorso è fondato.
Il giudice del rinvio ha ritenuto, in presenza di una causa estintiva del reato per il quale vi era stata condanna in primo grado, che fosse evidente la prova della irrilevanza penale della condotta tenuta dalla S. e della insussistenza dell’omesso controllo addebitato al suo direttore, M.E., applicando quindi la formula liberatoria dell’art.129 c.p.p., comma 2. A tale conclusione è pervenuto, ritenendo che la giornalista avesse correttamente esercitato il diritto di cronaca e che le notazioni soggettive, mediante le quali aveva “colorato” il personaggio oggetto dei tre articoli, fossero esercizio di satira; nessuna di tali argomentazioni è correttamente sostenibile.
La satira, notoriamente, è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene. E dunque, simili indicazioni sono strettamente funzionali allo scopo, che, senza la loro evocazione, rimarrebbe irraggiungibile; ora, tutto si può dire, tranne che quelli che la corte territoriale ha valutato essere commenti satirici (la forfora, lo sguardo del bottegaio) abbiano svolto, nella fattispecie, tale compito. Se la giornalista intendeva informare la pubblica opinione sulle vicende che vedevano (oggettivamente) coinvolto il L., simili notazioni erano del tutto superflue; e, pur non avendo intrinsecamente valenza diffamatoria, nella loro sgradevolezza inutile assumevano tale carattere. E simile conclusione pare adeguarsi al “tono” di tutti gli articoli, dai quali traspare un evidente (e oggettivamente inutile) malanimo verso l’attuale ricorrente.
A proposito del quale, poi, neppure può dirsi che il diritto di cronaca sia stato esercitato nel rispetto – indispensabile – della veridicità dei fatti riportati; la stessa sentenza impugnata deve dare atto (o inaccettabilmente trascura) della oggettiva falsità di circostanze accreditate come reali negli articoli: la vicenda della Mercedes, l’attribuzione della fondazione di una società, il complesso della intervista R., le sorti processuali (generalmente evocate) dei clienti del L., ai quali (contrariamente al vero) sarebbero stati riservati trattamenti processuali privilegiati. Il tutto sullo sfondo, più o meno palesemente evocato, di una amicizia colìallora notissimo magistrato, la quale aveva rivalutato la persona del parvenu, quale il L. sostanzialmente è indicato essere stimato dai suoi colleghi. E non a caso, la giornalista lo definiva più un affarista che un legale; giudizio che colpisce direttamente la persona, nella specifica attività professionalmente svolta, ancora una volta senza un giustificato collegamento colle vicende del soggetto, esaminate negli articoli. È sufficiente questo rapsodico esame dei medesimi, per concludere che la responsabilità penale era stata correttamente affermata in primo grado, dovendosi peraltro prendere atto della estinzione dei reati per l’ormai intervenuta prescrizione.
Per tale ragione deve essere annullata senza rinvio l’impugnata sentenza, ferme restando le statuizioni civili a suo tempo adottate.
P.Q.M
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i reati sono estinti per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2006