La Cassazione, con la sentenza del 7 gennaio 2008 n. 175, afferma che il reato di maltrattamento di animali, sia nella formulazione dell’art. 727 CP anteriore alla Legge n. 189/2004, sia in quella ad essa successiva, si configura ogniqualvolta la detenzione di animali avvenga in condizioni incompatibili con la loro natura.
La Suprema Corte, sul punto, soggiunge che è sempre punibile la detenzione degli animali “in condizioni incompatibili per la loro natura”.
Sulla scorta di tanto, la Corte conferma l’ammenda di 1.200,00 euro inflitta dal Tribunale di Udine ai danni di un soggetto che, in una torrida giornata estiva, lasciava il suo cane chiuso in una autovettura, limitata, parcheggiata al sole, con una temperatura di oltre 30 gradi, per circa un’ora.
Emiliana Matrone
Cassazione Penale, Sez. III, 7 gennaio 2008, n. 175
FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Udine, in composizione monocratica, M. C. è stato ritenuto responsabile del reale cui all’art. 727, comma 2, c.p. per avere detenuto il proprio cane meticcio, di colore nero focato e di taglia medio piccola, in condizioni incompatibili con la natura dello stesso e produttive di gravi sofferenze, lasciandolo chiuso all’interno della propria autovettura, posteggiata al sole per oltre un’ora ad una temperatura superiore ai 30 gradi e, pertanto, condannato alla pena di Euro 1200,00 di ammenda.
2. Ricorrono per cassazione congiuntamente l’imputato e il difensore deducendo la violazione dell’art. 606, lett. b c.p.p., per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e/o dell’articolo 606 lett. e c.p.p. per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo de provvedimento o da altri atti del processo
3. Con il ricorso vengono anche sollevate due questioni di legittimità costituzionale.
3.1 La prima questione è relativa all’art. 593, 3 comma, c.p.p. in relazione agli artt. 24, 3 e 111 della Cost..
3.2 La seconda concerne l’art. 727 c.p. in relazione agli artt. 3 e 25, 2 comma, della Cost.
DIRITTO
Per motivi di ordine logico vanno anzitutto esaminate le due questioni di legittimità costituzionale.
Quella relativa all’art. 593, 3 comma, c.p.p., nella parte in cui esclude l’appellabilità alle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda, è manifestamente infondata.
Il giudice delle leggi ha già avuto modo di affermare che il doppio grado di giurisdizione non è stato elevato al rango costituzionale (Corte Cost. n. 280 del 1995). Anche questa Corte, poi, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione sollevata ha confermato e precisato che l’appello non può ritenersi indirettamente imposto dall’art. 24 Cost.. (Cass, 23 maggio 2001, n. 27366, Cass., 6 aprile 1994, Rozzisi Scarola, Cass., 30 settembre 1993, Reposi, in Giur.it. 1995, 11, 266, Cass., 11 febbraio 1993, Mosca) né che l’esclusione di esso, per le sentenze di condanna per le quali è stata applicata soltanto la pena dell’ammenda, contrasta con l’art. 3 della Cost., essendo rimesso al legislatore l’apprestamento di una diversa tutela a seconda della gravità del reato.
Le stesse considerazioni vanno fatte alla luce della nuova formulazione dell’art. 111 Cost., che dispone soltanto che contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, ma non prevede l’obbligatorietà dell’appello.
Dall’indirizzo sopra richiamato non vi è motivo di discostarsi, anche a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 26/2007, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., nella formulazione che è stata data dall’art. 11 legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui esclude che il p.m. possa appellare le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi cui all’art. 603, comma 2, c.p.p., perché la contrarietà alla Costituzione è stata rilevata in quanto il principio di parità tra tutte le parti, accusa e difesa, ex l’art. 111 Cost., come novellato, pur non comportando identità di poteri processuali, tuttavia richiede che la dissimmetria sia ispirata a criteri di ragionevolezza e adeguata giustificazione che, nella norma esaminata, sono state ritenute mancanti.
Nella specie, non vi è disparità di trattamento perché le parti hanno la stessa posizione processuale, in quanto la norma contenuta nell’art 593 c.p.p. prevede l’inappellabilità per tutte le parti quando è stata applicata la sola pena dell’ammenda. E la scelta del legislatore manifestamente appare improntata a ragionevolezza, come detto, tenuto conto della non gravità dei reati relativi.
Del pari è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 727 c.p. in relazione agli artt. 3 e 25, comma 2, Cost..
Deducono i ricorrenti che la disposizione indicata ha un contenuto precettivo ampio e indeterminato oltre ad essere carente di tipicità, ponendosi così in contrasto con la riserva di legge in materia penale prevista dall’art. 25, 2 comma, Cost.
Però, è stato sancito che il principio di tipicità non è violato quando il legislatore, per l’individuazione del fatto reato, ricorrere a concetti diffusi e generalmente compresi nella collettività in cui il giudice opera (Corte Cost. 14 aprile ‘88 n. 453).
Nella specie, i concetti indicati nell’articolo 727 c.p. di “condizioni incompatibili con la loro (degli animali) natura” e di “produttive di gravi sofferenze” sono ormai di percezione comune, essendo entrati a far parte della sensibilità della comunità. Per cui il fatto non appare indeterminato della sua tipicità.
E’, poi, infondato il motivo riguardante le dedotte violazioni dell’art. 606, n. 1, lett. b), per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, e lett. e) per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, per omesso esame o travisamento di una prova.
L’interpretazione maggioritaria, cui questa sezione aderisce, dell’art. 606, lett. e c.p.p., nella formulazione operata dall’art. 8 della legge n. 46 del 2006 (“mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame”) che estende il vizio deducibile in sede di legittimità, anche alla contraddizione ad un atto esterno al testo, costituito da un atto del processo e, quindi, anche da un atto probatorio (tra le tante Cass., sez. VI, 24 maggio 2007, n. 24680, Cass., sez. VI, 28 settembre 2006 n. 35964, Cass., sez. I, 14 luglio 2006, n. 25117, Cass., sez. V, 24 maggio 2006,36764; contro ad es. Cass., sez. V, 10 ottobre 2006, n. 36773), esclude comunque che tale vizio possa concretizzarsi in una rilettura ed in una nuova valutazione de fatto, anche se dotate di una maggiore capacità argomentativa.
Il sindacato del giudice di legittimità sulla giustificazione del provvedimento impugnato, cioè, è sempre circoscritto alla verifica se il vizio della decisione, costituito da errori delle regole della logica – principio di non contraddizione, di causalità, univocità, completezza – o dalla inconciliabilità con gli atti del processo specificatamente indicati abbia una forza giustificativa tale da disarticolare tutto il ragionamento operato del giudice del merito.
Le deduzioni dei ricorrenti sostanzialmente consistono in una valutazione diversa ed alternativa delle prove, non consentita.
Le dichiarazioni della teste Co, che avrebbe riferito che l’auto, al momento in cui era stata lasciata, era fresca, e la documentazione fotografica, che evidenziava il cane in buone condizioni, stante la vivacità espressiva degli occhi e la postura eretta, che il ricorrente deduce non essere state prese in considerazione dal giudice del merito, non sono tali da disarticolare il processo argomentativo.
Il giudice del merito ha fondato la giustificazione sul dato probatorio, rilevante, costituto dalla dichiarazione del milite appartenente alla Stazione dei Carabinieri di Martignacco, che ha riferito che, presso il centro commerciale “Città Fiera di Torreano” di Martignacco, un cane meticcio di taglia medio piccola era rimasto chiuso all’interno di una autovettura, parcheggiata in pieno sole e con una temperatura esterna di circa 30 gradi e per circa un’ora e che detto cane dava segni visibili di disagio, ansimando e cercando l’ombra, nello spazio tra i sedili anteriori e posteriori.
Lo stesso giudice ha evidenziato che dalla stessa testimonianza risultava che, riusciti ad aprire la portiera e a fare discendere l’animale, questo appariva assetato e si rendeva necessario somministrare subito dell’acqua.
Fattamente, quindi, è stato riconosciuto che tale fatto integra il reato di cui all’art. 727 c.p.
Questa Corte, nell’interpretare la norma contenuta nell’art. 727 c.p. nella formulazione anteriore all’art. 1 legge 20 luglio 2004 n. 189, ha sempre ritenuto che integra il reato previsto il tenere un cane in un luogo angusto per un lasso di tempo apprezzabile, senza che fosse necessaria la volontà di infierire sull’animale o che questo riportasse una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti (tra le altre Cass., sez. III, 21 dicembre 2005, n. 2774).
La nuova formulazione della disposizione codicistica non modifica il contenuto della norma perché è sempre punibile la detenzione degli animali “in condizioni incompatibili per le loro natura”.
Alla luce di ciò l’argomentazione del giudice del merito appare logica e rispondente ai canoni interpretativi della norma, avendo evidenziato sia che l’animale era stato tenuto chiuso in una autovettura, limitata, parcheggiata al sole, con una temperatura di oltre 30 gradi per circa un’ora, incompatibile con la natura dello stesso, tanto che cercava l’ombra tra i sedili, sia che lo stesso aveva riportato gravi patimenti, tenuto conto che ansimava (dimostrando, cioè, difficoltà di respirazione) e che necessitava la somministrazione di acqua, manifestando un inizio di disidratazione, tanto che si rese necessaria l’apertura delle portiere, la liberazione dell’animale e la immediata somministrazione di acqua.
Le deduzioni del ricorrente tendono a prospettare una valutazione diversa e opposta a quella operata dal giudice del merito, insindacabile in questa sede perché sorretta da argomentazione logica in relazione anche al dato processuale.
Il rigetto del ricorso importa la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PQM
La Corte dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.