Dal mutuo nasceva l’obbligo del mutuatario di restituire il tantundem nei limiti della datio operatagli. In caso di inadempimento il mutuante poteva usufruire dell’actio certae creditae pecuniae se si trattava di mutuo di denaro o della condictio certae rei (detta dai giustinanei triticaria) se si trattava di mutuo di altre cose fungibili.
Nella prima ipotesi il convenuto veniva condannato nella medesima somma che avrebbe dovuto pagare; nella seconda la condanna pecuniaria si realizzava attraverso la valutazione del dovuto, salvo ad assolvere il debitore se nelle more del giudizio avesse consegnato ciò che doveva . Nella formula figurava perciò l’espressione: “Quanti ea res est, tantae pecuniae iudex . . . condemnato” .
Dalla struttura di queste formule derivava una ‘conseguenza apparentemente aberrante’ – come la definiva l’Arangio-Ruiz – ovvero l’essenziale gratuità del mutuo romano .
Infatti nel diritto romano il mutuo era essenzialmente grazioso, cioè non produttivo di interessi. Ciò proprio perché non si poteva giudizialmente richiedere qualcosa di più di quello che era stato oggetto della datio. Quasi che vi dovesse essere una perfetta corrispondenza tra la datio e la condictio .
Ad esempio, se Tizio aveva dato a Caio dieci pezzi di denaro, pattuendo la restituzione di undici, egli non poteva chiedere con la condictio la restituzione di più di dieci e Caio era obbligato ex mutuo a restituire dieci. Però, ben poteva convenirsi che il mutuante restituisse meno di quanto ricevuto, trattenendo il residuo a titolo di donazione .
La gratuità del mutuo era da intendere solo in senso formalistico e processuale e non dobbiamo cadere nell’errore di credere che il diritto romano avesse in ogni tempo vietato il prestito ad interesse (anzi, le usurae erano pattuite novantanove volte su cento, esse dovevano essere versate anticipatamente ogni mesi ad un tasso elevatissimo e se è vero che in qualche periodo vi fu un divieto, la sua durata fu assai breve) .
Nella gratuità del mutuo non c’era da scorgere, dunque, nessun aspetto di eticità, come invece credeva il Maschi, secondo cui “il mondo precristiano aveva raggiunto parzialmente quella concezione etico-religiosa che sarebbe stata propria del Cristianesimo” .
Decisamente contrario alla presunta gratuità del mutuo è il pensiero del Giuffré, che considera inesatta la, pur tradizionale, contrapposizione del mutuo romano a quello conoscito dal diritto greco, per il quale l’usura era l’elemento dominante e il motore della vita economica; nonché al prestito del mondo ebraico arcaico, che conosceva la gratuità solo nei riguardi degli appartenenti al popolo d’Israele (Esod. 21.24, Lev. 25.35-36. Deut. 23.20) .
In verità il prestito feneratizio era una realtà costante del mondo romano, soprattutto nel periodo della Repubblica e nel primo Principato.
Dal momento che il patto di prestare interessi era incompatibile con la causa fissa del mutuo, per raggiungere il risultato economico del prestito ad interesse occorreva o concludere a parte una stipulatio usurarum, oppure novare il rapporto con una stipulatio comprensiva sia del capitale che degli interessi (stipulatio sortis et usurarum) .
Molteplici esempi di stipulazioni di questo genere si hanno nelle fonti giuridiche e nei documenti: in proposito sono interessanti le tavolette di Transilvania e le Tabulae pompeianae di Murécine . Al tramonto della Repubblica il credito fu sempre più spesso, secondo il modello ellenistico, trasfuso in nuove forme giuridiche: l’expensilatio, il chirographum e la singrapha. Tali atti finirono per agevolare l’esercizio di elevate usurae, consentendo l’aggiramento delle leggi, numerose mai veramente efficaci, limitative delle stesse .