Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, Sentenza del 3 gennaio 2008 n. 15
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Il Comune di Palermo, a seguito di licitazione privata del 18.2.1987, aggiudicava alla S. s.p.a. (di seguito, Società) i lavori per la realizzazione di un intervento di edilizia economica e popolare nel rione castello S. Pietro, per l’importo di £ 14.608.622.500. Il contratto, stipulato il 26 marzo 1987, alla clausola n. 2, attribuiva alla committente la facoltà di limitare l’oggetto dell’appalto ad una parte dei lavori, qualora la Soprintendenza Archeologica, all’esito della campagna di scavi, avesse ritenuto non realizzabile l’opera, in tutto o in parte.
La Società consegnò, in parte, l’opera in data 25 maggio 1987 e, nel luglio dello stesso anno, il Comune corrispose £ 2.921.724.500, oltre IVA. Il committente, con ordine di servizio del 16.10.1987, dispose la sospensione dei lavori per consentire alla Soprintendenza di realizzare la campagna di scavi e, all’esito, accertata l’impossibilità di proseguire la realizzazione dell’opera, con delibera di G.M. del 18.5.1992, n. 1224, limitava l’oggetto del contratto alle sole opere realizzate.
La Società, in virtù della clausola compromissoria contenuta nel contratto, dava corso al procedimento arbitrale, chiedendo che gli arbitri, accertata la natura della clausola vessatoria dell’art. 2 del contratto, lo dichiarassero risolto per inadempimento del Comune, condannandolo al risarcimento dei danni.
Gli arbitri, con lodo del 10 giugno 1992, esclusa la natura vessatoria della clausola de qua: rigettavano le domande di risoluzione per inadempimento, di applicabilità dell’art. 345 della legge n. 2248 del 1865, di risarcimento dei danni da riprogrammazione, da chiusura e smontaggio del cantiere;
accoglievano la domanda di pagamento dei lavori eseguiti per £ 304.517.445; accoglievano, in parte, la domanda di risarcimento dei danni da illegittima sospensione dei lavori, nella misura di £ 2.896.376.000; accoglievano, in parte, la domanda del Comune di restituzione dell’anticipazione contrattuale.
2.- Il lodo era impugnato da entrambe le parti innanzi alla Corte d’appello di Roma che, con sentenza non definitiva del 4 ottobre 1999: dichiarava, per quanto di ragione, la nullità parziale del lodo; dichiarava illegittima la sospensione dei lavori per il periodo 13.10.1989/21.6.1992, condannando il Comune di Palermo al risarcimento dei danni; condannava la Società a restituire al Comune l’anticipazione ricevuta, nella misura di £ 2.974.173.000; disponeva, con separata ordinanza, per l’ulteriore prosieguo del giudizio, al fine di quantificare i danni sopra indicati.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale:
a) accoglieva la censura nella parte in cui il lodo aveva escluso la illegittimità della sospensione dei lavori.
La pronuncia riteneva applicabile il d.P.R. n. 1063 del 1962 -sia in virtù dei richiamo operato dall’art. 7 del contratto, sia perché l’opera doveva essere realizzata con il contributo dello Stato- e sussistente la denunciata violazione dell’art. 30 di detto d.P.R.. Infatti, l’art. 2 del contratto, contrariamente a quanto ritenuto dagli arbitri, che avevano interpretato la clausola convenzionale in violazione delle regole di ermeneutica, prevedeva esclusivamente la facoltà di sospendere i lavori all’esito della campagna di scavi da parte della Soprintendenza. Una volta disposta la sospensione, la disciplina applicabile era quella stabilita dell’art. 30 cit., con la conseguenza che, in relazione al periodo di sospensione legittima, la Società non aveva diritto ai danni, in quanto non si era avvalsa della facoltà di recedere dal contratto, ai sensi di quest’ultima norma.
La domanda risarcitoria era, invece, fondata a far data dal tempo in cui la sospensione era divenuta illegittima, e cioè dal momento in cui era venuta meno la causa della sospensione e il committente non si era adoperato per impedire il prodursi degli ulteriori danni.
La pronuncia riteneva che la sospensione era divenuta illegittima allorché il Comune, all’esito delle indagini archeologiche, aveva avuto contezza dell’irrealizzabilità dell’opera. Pertanto, essendo stata disposta la sospensione dei lavori in data 17.10.1987 ed avendo la Soprintendenza, dopo una nota interlocutoria del 10.5.1988, comunicato con nota del 13.10.1989 che l’importanza dei reperti rinvenuti suggeriva di istituire un parco storico-archeologico, riservandosi di valutare l’opportunità di autorizzare ulteriori lavori, previo parere, a tale ultima data la stazione appaltante aveva avuto consapevolezza dell’irrealizzabilità dell’opera, salva la possibilità di un nuovo progetto, da affidare a seguito di una nuova gara.
La Corte territoriale riteneva, quindi, che il Comune già nell’ottobre 1989 avrebbe dovuto definire il rapporto in forza dell’art. 2 del contratto, così da evitare ulteriori danni, ed invece aveva a ciò provveduto soltanto con la delibera di G.M. del 18 maggio 1992, notificata alla Società il 29.6.1992, con conseguente illegittimità della sospensione dei lavori per il periodo 13.10.1989/21.6.1992. b) Accoglieva la censura del Comune, nella parte in cui aveva lamentato che gli arbitri avevano liquidato i danni ex art. 1226 c.c., osservando che il lodo non conteneva alcuna motivazione in ordine mille ragioni del ricorso al criterio equitativo e, quindi, annullava la relativa statuizione, riservando la quantificazione dei danni all’esito della fase rescissoria e dell’espletamento di c.t.u.. c) Accoglieva la censura del Comune in ordine alla liquidazione degli interessi, con decorrenza dal fatto illecito, sulla somma rivalutata, in quanto, in virtù del principio enunciato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 1712 del 1995, per i debiti di valore gli interessi compensativi maturati sino alla pronuncia devono essere calcolati con decorrenza dalle singole scadenze annuali sulla somma rivalutata, riservando alla sentenza definitiva il relativo computo, d) Accoglieva la censura del Comune riferita alla statuizione del lodo che aveva riconosciuto il suo diritto alla restituzione della somma versata alla Società a titolo di anticipazione, omettendo tuttavia di condannarla alla restituzione anche della somma versata per IVA.
La sentenza osservava che l’IVA costituisce un accessorio del prezzo e, quindi, una volta accertato il diritto al rimborso, l’appaltante ha diritto ad ottenere la restituzione della somma versata a titolo di IVA, salvo che non possa, a sua volta, portare in detrazione l’imposta, ipotesi insussistente nella specie.
Relativamente agli interessi sulla somma ricevuta a titolo di anticipazione dalla Società e che doveva restituire, la Corte territoriale riteneva corretta la decorrenza dalla data della domanda ex art. 2033, trattandosi di somma ricevuta in buona fede e pagata dal Comune in esecuzione del contratto. e) Accoglieva la censura della Società in relazione alla statuizione del lodo che aveva riconosciuto al Comune il credito di £ 500 milioni, per il vantaggio lucrato dall’appaltatore, in conseguenza della disponibilità della somma ricevuta a titolo di anticipazione. La sentenza escludeva l’applicabilità del principio della compensatio lucri cum danno, in quanto il vantaggio ed il danno rinvenivano la loro fonte in fatti causali autonomi e distinti, e cioè, rispettivamente, nell’adempimento dell’obbligazione e nella condotta illecita del Comune. Espletata c.t.u., la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 25 novembre 2002, determinava in € 2.162.513,25 il credito della Società, a titolo di risarcimento danni, ed in e 256.906,48 la somma dovutale quale corrispettivo per le opere eseguite, fissando in € 2.395.500,00 il credito del Comune, oltre interessi legali, dichiarando compensati fino alla rispettiva concorrenza i predetti crediti, disponendo la compensazione tra le parti delle spese del giudizio. In particolare, la sentenza: a) premetteva che la sentenza non definitiva aveva dichiarato la nullità del lodo nella parte relativa alla liquidazione dei danni da sospensione illegittima operata ex art. 1226 c.c., soltanto per difetto di motivazione sul punto e, quindi, esponeva gli argomenti che inducevano a ritenere ammissibile il ricorso al criterio equitativo. b) Esponeva analiticamente le ragioni a conforto della quantificazione delle voci di danno, tenendo conto e valutando criticamente il computo operato dal c.t.u., determinando il danno da sospensione illegittima dei lavori in e 923.979,50, da rivalutare alla data del febbraio 1991, precisando «che il carattere necessariamente equitativo di tale operazione induce a prescindere dall’adozione di coefficienti di rivalutazione diversificati in relazione ai presumibili momenti dell’effettuazione delle singole spese, privilegiando una visione unitaria dell’evento dannoso, correlata ad un momento intermedio, con la conseguenza che l’importo dovuto a titolo di risarcimento del danno alla data attuale ammonta ad € 1.338.384,30», oltre interessi compensatici a decorrere dalla data dell’evento. c) Affermava il diritto della Società ad ottenere il pagamento della somma di £ 299.280.045, a titolo di corrispettivo per le opere eseguite, oltre interessi legali dal 22 luglio 1992. d) Determinava, «come accertato con l’anzidetta sentenza non definitiva», in £ 2.974.173.000 il credito del Comune per restituzione anticipazioni, oltre interessi computati secondo le modalità precisate nella pronuncia. e) compensava i reciproci crediti, condannando quindi il Comune a pagare la somma di € 23.919,73. 3.- Per la cassazione delle citate sentenze (non definitiva e definitiva) ha proposto ricorso il Comune, articolando quattro motivi, sebbene abbia omesso di specificarne, formalmente, il numero; ha resistito con controricorso la Società, che ha proposto ricorso incidentale, affidato ad un motivo. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- I ricorsi, principale ed incidentale, avendo ad oggetto la stessa pronuncia, vanno riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza (art. 335 c.p.c.).
2.- Preliminarmente rispetto alla sintesi dei motivi svolti dal ricorrente, è opportuno premettere che il Comune di Palermo ha omesso di articolarli indicando il numero e, per ciascuno di essi, di precisare formalmente, mediante apposita rubrica, il vizio denunciato. Tuttavia, siffatta carenza non comporta l’inammissibilità del ricorso ed è, quindi, infondata la relativa eccezione proposta dalla Società.
Il ricorso per Cassazione richiede, infatti, a pena di inammissibilità ed indipendentemente col tipo di errore denunziato (di attività o di giudizio), la specifica indicazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata, dedotti in forma intelligibile, affinché questa Corte possa esercitare la sua funzione istituzionale sulle questioni che formano oggetto di censura. Siffatto onere deve però ritenersi adempiuto quando dalle argomentazioni svolte sia possibile individuare l’oggetto e il contenuto delle censure (Cass. n. 1284 del 1977), dato che l’art. 366 n. 4 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma realizzata con il d.lgs. n. 40 del 2006, qui applicabile ratione temporis) non stabilisce che debbano essere adottate formule particolari; dunque, la circostanza che la censura non sia preceduta da una formale rubrica, contenente l’enunciazione del vizio denunciato, non comporta ex se l’inammissibilità del ricorso (Cass. n. 3314 del 2001; n. 165 del 1978).
Pertanto, poiché nella specie il Comune ha articolato in quattro distinti paragrafi le censure, svolgendo in ciascuno di essi argomentazioni che permettono di comprendere con sufficiente intelligibilità le ragioni ed il tipo di vizio denunciato -e che consentono, sotto il profilo formale, avendo riguardo al contenuto delle censure, di ritenere formulati quattro motivi, il ricorso deve ritenersi ammissibile, nonostante la mancata formale indicazione del numero e dei motivi e della rubrica dei medesimi, salvi i rilievi e le precisazioni svolte infra nell’esame di ciascuno dei mezzi.
2.1.- Il Comune, con il primo motivo, deduce che la sentenza è «viziata da difetto di motivazione e da errata interpretazione delle risultanze documentali» nella parte in cui ha ritenuto illegittima la sospensione dei lavori, in quanto non ha considerato «nella sua interezza l’attività spiegata dal Comune al fine di pervenire alla realizzazione dell’opera, come descritta nella deliberazione di riduzione dell’appalto (in atti). In tale provvedimento è chiaramente descritto che il Comune si adoperò per la realizzazione di un accordo di programma coinvolgente anche lo Stato, prevedendo espressamente in quella sede la soluzione dell’appalto sospeso».
2.1.1.- Il motivo è inammissibile.
Con questo mezzo, nonostante la mancata formale indicazione del vizio denunciato, il ricorrente ha chiaramente, ed esclusivamente, dedotto il vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.. Al riguardo, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione si configura soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un contrasto tra le argomentazioni adottate insanabile, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, non potendo consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quella preteso dalla parte. A questi è, infatti, riservata l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonché la scelta fra le risultanze istruttorie ed egli neppure è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo sufficiente che, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 828 del 2007; n. 13783 del 2006; n. 8718 del 2005; n. 22985 del 2004).
La denuncia di detto vizio richiede la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, ovvero l’indicazione dei punti connotati da mancanza di coerenza logica (per tutte, Cass. n. 6264 del 2006; n. 3881 del 2006; n. 1014 del 2006). Inoltre, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la parte che, denunzia l’esistenza di vizi della motivazione conseguenti dalla mancata o erronea valutazione delle risultanze processuali ha l’onere di indicarle specificamente, trascrivendole, non potendo svolgere una funzione sostitutiva il riferimento per relationem ad atti o scritti difensivi depositati nel giudizio di merito (tra le tante, Cass. n. 13619 del 2007; n. 9493 del 2007; n. 4405 del 2006). Nella specie, la trascrizione del motivo, quale sopra riportata, rende palese che non risultano osservati i surrichiamati principi, risolvendosi la censura in una mera affermazione di difetto di motivazione della pronuncia impugnata, peraltro svolta lamentando la mancata considerazione di una risultanza documentale che, in violazione del principio di autosufficienza, neppure è stata riportata in ricorso, almeno nelle parti eventualmente salienti, dato che il Comune si è limitato ad indicare che essa è «in atti».
2.2.- Il ricorrente principale, con il secondo motivo, deduce che «errata, e sotto più profili, è la determinazione della Corte di adottare il criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c., ai fini della liquidazione dei danni». Infatti, la Corte, dopo avere affermato nella sentenza non definitiva che avrebbe accertato il danno mediante c.t.u. e sulla scorta delle risultanze probatorie acquisite, ha adottato per la liquidazione il criterio equitativo, incorrendo in contraddittorietà e facendo «uso abnorme del potere decisorio ormai consumato». Inoltre, a suo avviso, «l’uso del criterio equitativo appare errato», poiché la sua adozione risulterebbe affidata alla seguente argomentazione «la sospensione dei lavori implicherebbe ineluttabilmente l’immobilizzo di attrezzature e macchinari e addirittura la forzata inattività di un intero complesso organizzativo, ma l’incidenza di questo immobilizzo sull’economia generale dell’impresa sarebbe estremamente difficile sul piano probatorio».
Questa argomentazione non considera che le parti conoscevano la possibilità della riduzione dell’oggetto del contratto, quindi il loro comportamento era improntato a non costituire un complesso organizzativo di uomini e di mezzi. Infatti, sarebbe stato documentato dal Comune, non contestato dalla Società «e, purtroppo, ignorato dalla Corte» che quest’ultima aveva svolto i lavori a mezzo di subappalti ed in un verbale redatto nel corso di un sopralluogo sarebbe stato dato atto che non esisteva un’organizzazione, sicchè il presupposto delle argomentazioni della Corte territoriale sarebbe smentito dalla risultanze degli atti. D’altronde, contraddittoriamente la pronuncia non avrebbe riconosciuto i danni per l’immobilizzo di personale e non ha fatto propria la quantificazione dei danni operata dal c.t.u.. Pertanto l’adozione del criterio equitativo sarebbe «errato e frutto del malgoverno delle regole codicistiche su menzionate [-nel ricorso non è indicata alcuna norma-] e della errata, insufficiente e contraddittoria valutazione delle risultanze istruttorie» e neppure poteva utilizzato, in quanto la Società aveva «prescelto di determinare il danno».
2.2.1.- Il motivo é infondato. La deduzione che la Corte territoriale, nel liquidare il danno ex art. 1226 c.c., avrebbe fatto un «uso abnorme del potere decisorio ormai consumato» prospetta la violazione della preclusione formatasi in relazione alla sentenza non definitiva, benché il ricorrente non abbia in detti termini espressamente configurato la censura. Secondo l’orientamento di questa Corte al quale va data continuità, nel caso di pronuncia non definitiva (art. 279, secondo e quarto comma, c.p.c.) e di prosecuzione del giudizio per l’ulteriore istruzione della controversia, il frazionamento della decisione comporta l’esaurimento dei poteri decisori per la parte definita con la sentenza interlocutoria. Il giudice che ha emesso la sentenza non definitiva -anche se non passata in giudicato- è dunque da questa vincolato agli effetti della prosecuzione del giudizio davanti a sé in ordine sia alle questioni definite sia a quelle da queste dipendenti, da esaminare e decidere sulla base dell’intervenuta pronuncia (a meno che questa sia stata riformata con sentenza passata in giudicato a seguito di impugnazione immediata) (Cass. n. 10889 del 2006; n. 18510 del 2004).
Nella specie, la sentenza non definitiva ha ritenuto il lodo viziato in quanto «il Collegio arbitrale ha omesso ogni motivazione in ordine alle ragioni del ricorso al criterio equitativo per la liquidazione del danno, asserendo, con mera petizione di principio, la necessità di dover adottare il suddetto criterio», annullandolo sul punto «anche in ordine al criterio adottato per la quantificazione del danno», rimettendo la causa in istruttoria per ««accertare il danno, mediante c.t.u., nel suo preciso ammontare sulla base delle risultanze probatorie». La lettura coordinata dei brani di interesse rende chiare che, come correttamente precisato nella sentenza definitiva, la prima delle due pronunce non ha escluso l’ammissibilità del ricorso alla regola equitativa, ma ha solo censurato la circostanza che gli arbitri non avevano motivato sul punto; è in questa ultima considerazione che va ravvisata la ratio decidendi, con conseguente inesistenza della preclusione evocata dal ricorrente, neppure desumibile dal riferimento, contenuto nella sentenza non definitiva, alla necessità di ulteriore istruttoria per la quantificazione del danno, anche mediante l’espletamento di c.t.u.. Il ricorso alla valutazione equitativa del danno da parte del giudice del merito è, infatti, consentito quando non sussistano elementi utili e sufficienti per determinare il preciso ammontare del pregiudizio (Cass. n. 6067 del 2006; n. 16992 del 2005), ovvero quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa (Cass. n. 8004 del 2005; n. 20283 del 2004), anche qualora sia stata espletata c.t.u. ritenuta dal giudice del merito inattendibile ed inidonea allo scopo (Cass. in 1885 del 2002), sicchè, anteriormente all’espletamento dell’istruttoria, neppure era logicamente e giuridicamente possibile affermare od escludere la ricorrenza dei presupposti della liquidazione equitativa.
Resta dunque esclusa sia la violazione della preclusione indicata dal ricorrente, sia la contraddittorietà intrinseca della motivazione.
La sentenza definitiva ha poi esposto che, una volta ritenuto sussistente il danno conseguente dalla «immotivata e prolungata immobilizzazione di mezzi e risorse a causa dell’inerzia addebitabile all’amministrazione», «l’entità di tale pregiudizio non può in tutta evidenza essere correlato alle sole spese affrontate per la gestione e la custodia del cantiere (riguardo alle quali si può ipotizzare un più puntuale onere probatorio della danneggiata), ma si articola in una pluralità di riflessi di carattere negativo connessi all’immobilizzo di attrezzature e macchinari e, soprattutto, alla forzata inattività di un intero complesso organizzativo; aspetti questi riguardo ai quali deve necessariamente riconoscersi l’estrema difficoltà, sul piano probatorio, di una precisa dimostrazione della loro reale incidenza sulla generale economia dell’impresa, con la conseguenza che, relativamente agli stessi, sembra pienamente fondato dare ingresso a valutazioni di carattere equitativo».
La pronuncia ha quindi analiticamente esaminato le differenti voci di danno esponendo, per ciascuna di quelle per le quali ha fatto ricorso alla regola dell’art. 1226 c.c., le ragioni della scelta e, in particolare: a) in ordine agli “oneri da immobilizzo attrezzature”, agli “oneri per manutenzione delle installazioni” ha ritenuto inattendibile la c.t.u., in quanto aveva individuato le attrezzature e le installazioni presenti sul cantiere sulla scorta soltanto della documentazione proveniente dalla Società, affermando «la illogicità della scelta di mantenere nel cantiere attrezzature facilmente reperibili in caso di riattivazione dei lavori», ed ha fatto riferimento agli «unici dati certi, risultanti dalle fatture per riparazioni e materiali per trasporto e discarica di materiale»; b) ha ritenuto «priva di adeguati riscontri logici l’asserita presenza nei cantieri di personale fisso».
Ebbene, se si considera che il ricorso al criterio equitativo è rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito (Cass. n. 13558 del 2003), al quale spetta un potere discrezionale, non suscettibile di sindacato in questa sede quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (Cass. n. 8807 del 2000; n. 409 del 2000; n. 3341 del 1996), essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. n. 19148 del 2005) e che siano svolte congrue, anche se sommarie ragioni del processo logico sul quale è fondata (Cass. n. 7896 del 2002; n. 1885 del 2002), è chiara l’osservanza di detti principi e l’incensurabilità della motivazione svolta a conforto del ricorso al criterio equitativo. In riferimento alle singole voci, l’unica specifica censura attiene alla circostanza che la sentenza non avrebbe considerato che la Società avrebbe operato mediante subappalti, risultante da un verbale redatto nel corso di un sopralluogo, nel quale sarebbe stato dato atto che non esisteva un’organizzazione. Al riguardo, indipendentemente dalla mancata trascrizione del citato verbale -in violazione del principio di autosufficienza-, va considerato, a conforto della infondatezza della censura, che, come sopra indicato, la pronuncia, con motivazione completa, ha indicato, in ordine alle -ulteriori voci di danno e relativamente agli “oneri da immobilizzo attrezzature”, agli “oneri per manutenzione delle installazioni”, che la c.t.u. era inattendibile, in quanto aveva individuato le attrezzature e le installazioni presenti sul cantiere sulla scorta soltanto della documentazione proveniente dalla Società.
La Corte territoriale ha, quindi, ritenuto «la illogicità della scelta di mantenere nel cantiere attrezzature facilmente reperibili in caso di riattivazione dei lavori», facendo riferimento agli «unici dati certi, risultanti dalle fatture per riparazioni e materiali per trasporto e discarica di materiale» e sottolineando che «appare priva di adeguati riscontri logici l’asserita presenza nel cantiere di personale fisso», dimostrando in tal modo di avere adeguatamente considerato le citate circostanze.
Pertanto, è chiara la completezza e coerenza della motivazione e la Corte territoriale, contrariamente alla deduzione del Comune, ha tenuto conto della necessità di commisurare il danno alle installazioni ed attrezzature effettivamente presenti, con la conseguenza che nessun vizio logico è riscontrabile e, in buona sostanza, il mezzo, in larga misura, si risolve nell’inammissibile richiesta di un riesame dell’apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito.
2.3.- Con il terzo motivo (svolto nei paragrafi 3 e 4 del ricorso, nei quali sono sviluppate argomentazioni riconducibili ad uno stesso mezzo), il Comune censura la sentenza nella parte concernente la quantificazione, quale voce di danno, delle «spese generali», operata dal c.t.u. mediante documentazione non versata in atti, consegnatagli dalla Società, «non ammissibile e contestata dal Comune e quindi in violazione delle norme del codice processuale sulla prova».
La sentenza ha quantificato detta voce, avendo riguardo all’importo originario dell’appalto, benché neppure esistesse un’organizzazione minima di cantiere, poiché le parti erano consapevoli dell’alea in ordine ai lavori realizzabili. Inoltre, se la Società avesse allestito e mantenuto un cantiere dimensionato su lavori per 14 miliardi avrebbe dimostrato una pessima conduzione manageriale. Nella specie rileverebbe che: le norme in materia di appalti di oo.pp. stabiliscono che il tempo utile per l’esecuzione dell’opera decorre dalla definitiva consegna dei lavori; l’intervento della Sovrintendenza fu anteriore all’apprestamento dell’organizzazione; l’impresa svolse i lavori a mezzo di subappalti, sicchè rapportare le spese generali all’importo del contratto sarebbe una forzatura logica.
Il ricorrente deduce di avere censurato il lodo esponendo che «le spese generali sono correlate all’importo del contratto solo nell’ambito della quantificazione forfetaria dei costi dell’appalto» ed «in sede progettuale contrattuale e nell’ambito dell’analisi dei prezzi unitari, il legislatore prevede l’aumento percentuale del costo delle singole categorie di opere oscillante tra il 13 ed il 15 % al fine di remunerare forfetariamente le spese sostenute nel corso dei lavori. Si tratta dunque, di una voce di costo che si produce durante l’esecuzione dei lavori, mentre costo forfettario è cosa diversa da danno effettivo e la Corte territoriale ha trasformato il primo nella seconda in difetto di elementi di prova».
Al di fuori della fisiologia del rapporto, le spese generali remunerabili sarebbero soltanto quelle effettivamente sostenute per gestire il cantiere e sul punto la motivazione sarebbe apparente e criptica, poiché non si comprenderebbe se la sentenza ha inteso negare la rilevanza che aveva nella specie la prevista riduzione dei lavori e la legittimità della sospensione per due anni, ovvero «negare ingresso, in astratto, alla rilevata impossibilità di utilizzare la peculiare struttura del corrispettivo (così come normativamente prevista dal contratto d’appalto di opere pubbliche) ai fini di una liquidazione equitativa di un danno presunto, non provato e di fatto inesistente». In entrambi i casi la sentenza sarebbe caratterizzata da vizi della motivazione sia per la «errata e falsa applicazione delle norme in tema di interpretazione del contratto e ai principi generali di buona fede e affidamento, sia sotto il profilo della errata applicazione delle norme codicistiche in tema di danno contrattuale e di valutazione equitativa del danno». Infine, la sentenza erroneamente non avrebbe considerato il lucro derivante dall’avere la Società goduto per cinque anni dell’anticipazione contrattuale, malamente ritenendo di averlo valutato computando gli interessi sulla somma.
2.3.1.- Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. Secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto si traduce in una indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice del merito, censurabile in questa sede soltanto per vizi di motivazione (ex plurimis, Cass. n. 12936 del 2007; n. 8296 del 2005; n. 22961 del 2004) -denunciabili nell’osservanza dei principi richiamati nell’esame del primo motivo-, non potendo il sindacato di legittimità investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, e non potendo la censura essere formulata mediante l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione. Pertanto, è imprescindibile l’indicazione dei canoni in concreto violati, delle norme ermeneutiche asseritamente violate, e la specificazione – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia (Cass., n. 4948 del 2003) – del modo e delle considerazioni con le quali il giudice di merito se ne sia discostato (tra le più recenti, Cass., n. 8296 del 2005; n. 4905 del 2003). Infine, nella formulazione della censura, per il principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, occorre riportare il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione (Cass., n. 3075 del 2006; n. 16132 del 2005), anche quando ad essa la sentenza abbia fatto riferimento, riportandone solo in parte il contenuto, qualora tale riproduzione parziale non consenta, di per sè, una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda in ipotesi di attribuire (Cass., n. 4063 del 2005). Alla luce di detti principi, risulta palese l’inammissibilità delle censure con le quali il ricorrente ha assertivamente eccepito l’erronea interpretazione delle norme sui contratti, senza indicare quali di queste, e quali specifici canoni ermeneutici, sarebbero stati violati, omettendo anche di riportare le parti del contratto che sarebbero state malamente interpretate. Relativamente alla censura concernente la c.t.u., va ricordato che, secondo un principio più volte affermato da questa Corte, il consulente tecnico di ufficio può tenere conto di documenti non ritualmente prodotti in causa con il consenso delle parti, in mancanza del quale la relativa attività é inficiata da nullità relativa soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione peritale (n. 12231 del 2002; n. 5422 del 2002). Pertanto, nella specie il Comune avrebbe dovuto indicare se e quando ha proposto la relativa eccezione e, in difetto, la doglianza deve ritenersi formulata inammissibilmente, in violazione del principio di autosufficienza. Relativamente alla liquidazione della voce spese generali, la sentenza ha esposto che le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio erano condivisibili, in quanto, dopo avere richiamato le risultanze dei bilanci della Società nel periodo di riferimento, ed avendo riguardo all’art. 14 della legge n. 741 del 1981, era pervenuta «ad un valore percentuale (10% del totale costo dell’appalto) che risulta pienamente condivisibile alla luce del rilievo che “l’organizzazione doveva essere quella minima di impostazione di cantiere (anche se per i lavori di contratto)”, rigettando la deduzione di «parte impugnante», che aveva richiesto di correlarle al «corrispettivo dei lavori all’esito della anticipata cessazione degli stessi», in (quanto detto criterio «finisce con il valutare il dimensionamento dell’impresa in funzione di un’evenienza di natura sostanzialmente aleatoria, e che costituisce un posterius rispetto alla definizione dell’assetto dell’impresa in relazione all’espletamento dell’incarico affidatole». Ebbene, le censure svolte dal ricorrente, in larga misura, ripropongono le doglianze già esaminate nella decisione del terzo motivo -e ritenute infondate-, consistendo nella sostanziale reiterazione della deduzione che la Società avrebbe operato mediante subappalti, esponendo testualmente al riguardo: «si vedano le delibera autorizzatine prodotte in giudizio», con prospettazione palesemente inammissibile, stante la mancata sul punto sia di ulteriori indicazioni sia della trascrizione dei documenti, nelle parti di interesse, nell’osservanza del principio di autosufficienza. Il rilievo in ordine alla decorrenza dell’appalto dalla data di definitiva consegna dei lavori -con riferimento all’art. 10 r.d. n. 350 del 1895- risulta questione nuova, non essendovene cenno nelle sentenze in esame, quindi inammissibile in difetto dell’indicazione dell’atto del giudizio nel quale sarebbe stata prospettata e della riproduzione del medesimo, onde dare modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (per tutte, Cass. n. 25546 del 2006; n. 1063 del 2005; n. 19254 del 2004; n. 5150 del 2003). La deduzione con la quale il Comune sostiene che l’affermazione secondo la quale «le spese generali dovevano dimensionarsi all’importo originario dell’appalto costituisce una evidente forzatura logica che tiene in non cale il dato contrattuale, le risultanze probatorie, le norme su indicate in tema di organizzazione del cantiere, le norme in tema di interpretazione dei contratti», risulta palesemente generica, siccome priva anche del riferimento alle risultanze probatorie, alle clausole contrattuali non considerate, alle norme in tema di interpretazione dei contratti, che sarebbero state violate (l’unica specifica indicazione riguarda il citato art. 10, ma in relazione alla prospettazione di una questione nuova). Inoltre, il mezzo in esame non considera affatto la motivazione della sentenza, quale sopra riportata, e non tiene conto della circostanza che la Corte territoriale ha ritenuto «la illogicità della scelta di mantenere nel cantiere attrezzature facilmente reperibili in caso di riattivazione dei lavori», ed ha fatto riferimento agli «unici dati certi, risultanti dalle fatture per riparazioni e materiali per trasporto e discarica di materiale», nonché all’art. 14 della legge n. 741 del 1981. Quest’ultima norma ha sostituito il terzo comma dell’art. 20 del d.m. 29 maggio 1895, il quale, nel disciplinare l’analisi dei prezzi unitari, stabilisce «si aggiunge poi generalmente una percentuale variabile dal 13 al 15% a seconda della natura della importanza dei lavori, ai prezzi unitari della manodopera, dei mezzi di trasporto, dei materiali e di quanto altro occorre alla formazione del costo delle singole categorie di opere e, se il lavoro deve essere appaltato, si aggiungerà un 10% di beneficio per l’appaltatore. Il citato art. 14 – applicabile ratione temporis, essendo stato abrogato dall’art. 231, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 – stabiliva poi che detto terzo comma «si applica a tutti i lavori pubblici».
La sentenza definitiva -una volta affermata in quella non definitiva, con motivazione incensurabile, l’illegittimità della sospensione ed il diritto del Comune ad indennizzare l’appaltatore delle spese sostenute- ha quindi provveduto correttamente ad individuare quali fossero e, con apprezzamento di fatto, immune da vizi sindacabili in questa sede, ha correttamente tenuto conto di tutte quelle che risultavano sopportate, tenuto conto che, nella specie si trattava di liquidare le spese generali in relazione ad un appalto che non aveva avuto il suo normale sviluppo. Relativamente alla doglianza relativa al lucro ottenuto della Società conseguente dal pagamento dell’anticipazione contrattuale, va osservato che la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che il mancato godimento della somma da parte del Comune era soddisfatto con il pagamento degli interessi, in aggiunta alla sorta capitale. La statuizione è evidentemente corretta, posto che -anche per quanto si precisa nell’esame del quarto motivo- non risulta che il ricorrente avesse chiesto -e provato- di avere subito un maggiore ed ulteriore danno e neppure che avesse provato che l’impresa aveva ottenuto dal godimento della somma un lucro maggiore (ed in quale misura) del quale avrebbe potuto tenersi conto nella determinazione del danno risarcibile.
2.4.- Il Comune, con il quarto motivo, denuncia difetto di motivazione nella parte in cui la sentenza ha accolto la domanda soltanto nella parte in cui aveva ad oggetto la restituzione dell’IVA, non provvedendo sull’istanza concernente il maggior danno ex art. 1224 c.c.. Quanto alla decorrenza degli interessi, fissata dalla data della domanda riconvenzionale, sarebbe «documentalmente provato e riconosciuto da parte avversa che il Comune notificò alla S.A.I.S.E.B. la delibera di riduzione ivi prevedendo la restituzione della riconvenzionale» (così testualmente nel ricorso). E, quindi, con l’atto «di impugnazione» aveva dedotto che da tale data «doveva ritenersi esistente la richiesta del Comune ed infatti la S.A.I.S.E.B. nel proprio atto di accesso arbitrale espressamente dichiarò di aver notificato l’atto di accesso arbitrale alla Compagnia d’Assicurazione che aveva prestato la relativa fideiussione». Questo dato sarebbe stato ignorato dalla Corte territoriale e, quindi, la motivazione sul punto sarebbe viziata.
2.4.1.- Il motivo è infondato. In riferimento alla restituzione delle somme versate per anticipazioni (credito di valuta), il maggior danno rispetto a quello coperto dalla misura degli interessi legali non poteva essere riconosciuto dal giudice in mancanza di una specifica domanda (Cass. n. 24858 del 2005). Pertanto, in difetto di ogni indicazione nella sentenza in ordine alla sua proposizione, il ricorrente, il quale, con questa censura, ha fatto valere appunto l’omesso esame di una domanda e non già di una circostanza di fatto -dunque un vizio ex art. 112 c.p.c. (Cass. n. 5444 del 2006), al di là dell’indicazione formale offerta- aveva l’onere di specificare in quale atto difensivo o verbale di udienza l’aveva formulata, come non è accaduto, con conseguente inammissibilità della doglianza. Siffatto adempimento è invero imprescindibile per consentire di verificarne effettività, ritualità e tempestività della domanda, in quanto, pur configurando la violazione dell’art. 112 c.p.c. un errar in procedendo, per il quale questa Corte è giudice anche del Matto processuale”, non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli, riportandole testualmente nel ricorso, nell’osservanza del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. Sez.un., n. 15781 del 2005; Cass. n. 978 del 2007; n. 1732 del 2006; n. 6055 del 2003). Relativamente alla censura concernente la decorrenza degli interessi, la sentenza non definitiva, ha affermato che «correttamente gli arbitri ne hanno fissato la decorrenza dalla data della domanda (30.6.1993) ex art. 2033 c.c., trattandosi di somma ricevuta in buona fede dall’appaltatore e spontaneamente pagata dall’ente appaltante in esecuzione del contratto», rigettando in tal modo «il motivo di gravame diretto ad ottenere la liquidazione degli interessi con decorrenza anteriore rispetto a quella sopra indicata». Il ricorrente, non censura affatto la pronuncia nella parte in cui ha affermato la riconoscibilità degli accessori dalla data della domanda, ma sostiene che detta data doveva essere diversamente fissata, occorrendo avere riguardo alla richiesta di restituzione della somma contenuta nella delibera della Giunta «di riduzione, ivi prevedendo la restituzione della riconvenzionale». La doglianza è infondata, in quanto, secondo l’orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, nell’ipotesi d’azione di ripetizione d’indebito oggettivo, ex art. 2033 cod. civ., il debito dell’accipiens, a meno che egli non sia in mala fede (circostanza esclusa dalla sentenza impugnata e non censurata dal ricorrente), produce interessi solo a seguito della proposizione di un’apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, atteso che all’indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede – in senso soggettivo – dall’art. 1148 cod. civ., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda (Cass. n. 4745 del 2005; n. 1581 del 2004).
3.- La ricorrente incidentale, con un unico motivo, denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 30 del D.P.R., 16 luglio 1962, n. 2063, nonché dell’art. 1371 cod.civ.», nella parte in cui ha ritenuto applicabile detto art. 30.
La Società condivide la sentenza nella parte in cui ha affermato che la sospensione dei lavori, alla data del 16 ottobre, 1987 era legittima, ma ciò in virtù di una specifica clausola del contratto e non ex art. 30 cit.. A suo avviso, detta clausola, che permetteva la sospensione dei lavori, deve essere interpretata alla luce della regola stabilita dall’art. 1371 c.c., che impone l’equo contemperamento degli interessi delle parti. Dunque, il Collegio arbitrale aveva bene interpretato il contratto ed affermato che la sospensione poteva essere disposta ex art. 2 del contratto, ma non avere durata indefinita ed avrebbe dovuto avere un termine correttamente individuato in quello di sei mesi dal verificarsi della sospensione dei lavori. La ricorrente incidentale chiede quindi che, in questa parte la sentenza sia cassata e, in via rescissoria, sia confermata la conclusione contenuta nel lodo arbitrale.
3.1.- Il motivo è inammissibile.
La sentenza non definitiva ha affermato che nella specie era applicabile l’art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1992, sia in virtù del rinvio contenuto nell’art. 7 del contratto, sia in quanto l’opera doveva essere realizzata con il contributo dello Stato, richiamando sul punto la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5522 del 1978 e n. 1062 del 1988). La pronuncia ha quindi esplicitato le ragioni in virtù delle quali la sospensione era originariamente legittima -punto del quale ha dato atto che non v’era stata impugnazione, concernendo la contestazione soltanto la durata della sospensione- e ritenuto che la sospensione in esame era disciplinata esclusivamente dal citato art. 30. Infine ha chiarito che «l’art. 2 del contratto non contempla alcuna regolamentazione convenzionale di eventuali sospensioni, ma prevede la facoltà dell’Amministrazione di limitare l’oggetto del contratto in relazione all’esito degli scavi e delle conseguenti determinazioni della Sovrintendenza. La clausola in parola, dunque, solo indirettamente ha attinenza con la sospensione dei lavori, nel senso cioè che, essendo contrattualmente previsto l’intervento operativo della Sovrintendenza, tale evento si considera implicitamente come causa legittima della (eventuale) sospensione dei lavori, ma, una volta che la sospensione fosse stata disposta, come nella specie, con il verbale 16.10.1987, la relativa disciplina rientra a pieno titolo in quella prevista dall’ari. 30 del capitolato generale oo.pp.».
Ebbene, la motivazione della sentenza rivela con chiara evidenza che, a fronte dell’indicazione delle ragioni dell’applicabilità dell’art. 30 cit., come sopra individuate, la doglianza di violazione e falsa applicazione del medesimo si risolve in una mera affermazione, inammissibilmente formulata in violazione del principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il vizio di cui all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c. deve essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, dato che, in mancanza, non risulta consentito a questo giudice di legittimità di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (per tutte, Cass. n. 214 del 2007; n. 20325 del 2006; n. 21659 del 2005).
La doglianza riferita all’interpretazione dell’art. 2 del contratto, in presenza della puntuale esposizione delle argomentazioni a conforto dell’esegesi che ha fondato la conclusione qui contestata, risulta del pari inammissibilmente formulata in violazione dei principi sopra richiamati in tema di contenuto e modalità della formulazione delle censure concernenti l’interpretazione dei contratti (sopra, § 2.3.1), risultando assertivamente svolta, mente, in violazione del principio di autosufficienza, neppure è stato riportato nel ricorso il contenuto della clausola convenzionale.
4.- In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati; in considerazione della reciproca soccombenza, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese di questa fase.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e dichiara compensate tra le parti le spese di questa fase.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 3 GENNAIO 2008