Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 24 ottobre 2007 – 17 gennaio 2008, n. 864
Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.
“Con atto di citazione in data 13/07/1995 C. M. P., M. G., M. S. e M. S., genitori e sorelle di M. S., convenivano davanti al Tribunale di Milano T. D. ed il Ministero della Difesa per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per la morte del proprio congiunto, carabiniere ausiliario, morte causata da un colpo di arma da fuoco sparato imprudentemente dal T., pure carabiniere ausiliario.
I convenuti si costituivano eccependo la incompetenza per territorio del Giudice adito, essendo territorialmente competente il Tribunale di Reggio Calabria atteso che il fatto dannoso era avvenuto a Roccella Ionica; nel merito, contestavano la loro responsabilità in ordine a quanto accaduto; il Ministero svolgeva in subordine domanda di manleva nei confronti del T. In esito alla prova orale assunta ed alla consulenza medico – legale espletata sulla persona della C., il Tribunale, con sentenza in data 01/12/1999 – 21/02/2000, condannava i convenuti al pagamento della somma complessiva di L. 325.903.414 oltre accessori e respingeva la domanda di manleva avanzata dal Ministero della Difesa. C. M. P., M. G., M. S. e M. S. presentavano tempestivo gravame avverso tale pronuncia per sentirla parzialmente riformare; si costituiva soltanto il Ministero della Difesa, che svolgeva appello incidentale.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza 22.1 – 14.2.2003, definitivamente pronunciando, decideva come segue: “1) in parziale riforma della sentenza emessa in data 02/12/1999- 21/02/2000 dal Tribunale di Milano, condanna gli appellati in solido a versare a C. M. P., M. G., M. S. e M. S. le somme di L. 100.000.000, pari ad Euro 51.645,68, in favore di ciascun genitore e di L. 50.000.000, pari ad Euro 25.822,84, in favore di ciascuna sorella, con gli interessi legali dal fatto; 2) conferma nel resto la sentenza appellata; 3) condanna gli appellati in solido a rimborsare agli appellanti principali le spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 11.078,00”. Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della Difesa. G. M. e M. P. C. hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
I motivi di ricorso vanno esaminati insieme in quanto connessi.
Con il primo motivo il ricorrente Ministero denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 28 della Costituzione e dell’art. 2049 c.c. (art. 360 n. 3) c.p.c.” esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue. La sentenza impugnata ha fatto cattiva applicazione dei principi e delle norme applicabili in materia di responsabilità dello Stato per il fatto dei propri dipendenti. La Corte di Cassazione ha affermato che l’attività del dipendente costituisce fonte di responsabilità diretta per la P.A, quando tale attività sia volta a conseguire fini istituzionali e si svolga nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio al quale il dipendente è addetto. Pertanto deve escludersi che l’uso improprio di un’arma costituisca attività svolta nell’ambito del servizio affidato o per il raggiungimento di finalità istituzionali dell’Amministrazione. Se, infatti, il dipendente è lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione si muove, quel dipendente deve agire secondo gli scopi che essa si propone; in mancanza di tale circostanza il comportamento di tale agente non può in alcun modo essere riferito alla P.A.. Nella specie, è chiaro che il T. agì per uno scopo, quello di “giocare” col collega per indurlo a partecipare alla partita di pallavolo, assolutamente personale ed estranea ai fini istituzionali dell’Arma cui apparteneva. È quindi sicuramente reciso il nesso organico che consentirebbe di estendere la sua responsabilità civile allo Stato, e delle conseguenze del suo gesto deve rispondere soltanto lui.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5) c.p.c.) – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 c.c. (art. 360 n. 3) c.p.c.” esponendo censura che vanno riassunte nel modo seguente. Nella sentenza si legge, come unica giustificazione della declaratoria di responsabilità dello Stato, la considerazione che l’Amministrazione non avrebbe dimostrato di avere impartito adeguate disposizioni in materia di custodia ed uso delle armi e di necessità di scaricarle a fine servizio, e soprattutto che “non era previsto nemmeno l’obbligo di deposito della pistola in armeria una volta terminati i turni di servizio”. Tale osservazione, tratta dalla testimonianza di uno dei carabinieri presenti al fatto, appare invero inconferente ai fini del decidere. Non può, innanzi tutto, il Giudice stabilire, sostituendosi all’Amministrazione, che l’Arma dei Carabinieri deve disporre che i suoi appartenenti depongano le armi al termine dell’orario di servizio e che non debbano, invece, tenerle con sé anche dopo. Si tratta di valutazioni e regolamenti che soltanto l’Amministrazione può fare, in ragione del suo incontestabile diritto di autodeterminarsi e darsi l’organizzazione che ritiene migliore. La Corte di merito sembra voler attribuire la responsabilità alla P.A. a titolo di culpa in vigilando ex art. 2049 c.c; ma la P.A. risponde a titolo di responsabilità diretta per i comportamenti illeciti dei propri dipendenti ex art. 2043 c.c, essendovi identità e non diversità di soggetti, e pertanto, per definizione, deve ritenersi escluso ogni riferimento alla responsabilità indiretta ex art. 2049 e segg. c.c. La Corte d’Appello ha in realtà trascurato di esaminare con approfondimento anche l’ipotesi di responsabilità indiretta; e non ha tenuto presente che, in questa come in qualsiasi fattispecie di causalità omissiva, la responsabilità per culpa in vigilando dei superiori gerarchici del carabiniere potrebbe essere affermata solo se ed in quanto vengano individuate determinate specifiche attività funzionali per essi possibili e doverose, e venga accertato che l’omissione di tali interventi abbia costituito condizione eziologicamente rilevante dell’evento, nel senso che ove l’intervento fosse stato compiuto l’evento non si sarebbe verificato; pertanto non si può parlare genericamente di culpa in vigilando dei superiori gerarchici senza specificare cosa essi potessero e dovessero fare – e non abbiano fatto – che fosse idoneo a prevenire l’illecita condotta del T.
I due motivi sopra riassunti non possono essere accolti.
La Corte d’Appello di Milano ha esposto sul punto la seguente motivazione. “…Come correttamente sottolineato in prime cure, risulta pure provata la responsabilità del Ministero della Difesa, individuata nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado nel fatto di “non aver vigilato sull’uso delle armi e sulla disciplina dei militi”: nel caso in oggetto non solo l’Amministrazione non ha dimostrato di avere dato adeguate direttive ed istruzioni in ordine agli adempimenti riguardanti la custodia e l’uso delle armi alla fine del servizio, particolarmente in ordine alla necessità di scaricare l’arma, ma risulta anzi che non era previsto nemmeno l’obbligo di deposito della pistola in armeria una volta terminati i turni di servizio (c.f.r. dichiarazione del Maino al Pubblico Ministero). Ne consegue la infondatezza della domanda di manleva formulata dall’Amministrazione…”.
È dunque palese che il Giudice di secondo grado ha affermato la responsabilità diretta della P.A. per il comportamento illecito dei superiori gerarchici del carabiniere consistito nel non aver dato le opportune direttive ed istruzioni (indicate nel brano ora riportato) vigilando poi (il punto non è espresso palesemente ma è chiaramente implicito) sulla loro applicazione. Conseguentemente la responsabilità in questione è (nell’assunto del Giudice di secondo grado) responsabilità diretta della P.A. per una condotta di detti dipendenti (superiori gerarchici del carabiniere) che indubbiamente rientrava in pieno nelle attribuzioni loro proprie, essendo essi certamente chiamati ad organizzare al meglio le attività dei militari subordinati nell’ambito dei fini istituzionali dell’Arma.
È appena il caso di aggiungere che il rilievo secondo cui si trattava “…di valutazioni e regolamenti che soltanto l’Amministrazione può fare, in ragione del suo incontestabile diritto di autodeterminarsi e darsi l’organizzazione che ritiene migliore…” non solo non vale ad escludere la responsabilità in questione, ma afferma una situazione di discrezionalità della P.A. che costituisce invece proprio il fondamento della responsabilità medesima, per violazione delle regole di comune prudenza.
Infatti (premesso in linea generale che i superiori gerarchici di soggetti che debbono usare armi nel normale esercizio del loro lavoro, violano le regole stesse se non emanano direttive volte a scongiurare incidenti o se tali direttive non sono adeguate) nella fattispecie, se detti superiori si fossero trovati vincolati da norme di legge sul punto e se avessero a queste obbedito non sarebbe stata configurabile una loro colpa. Invece proprio la circostanza che avevano tra l’altro il compito di disciplinare l’attività della truppa con le opportune direttive (anche in tema di cautela, e prevenzione di sinistri, nell’uso delle armi da fuoco), vigilando poi sulla loro applicazione, costituisce il fondamento essenziale della responsabilità in questione.
Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: Nel caso che un dipendente della Pubblica Amministrazione abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto (vigilando poi sull’applicazione delle direttive medesime), vi è responsabilità diretta della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori, sussistendo sia la riferibilità di tale atto alla stessa P.A. (una volta assodato che nella fattispecie concreta la predetta emanazione rientrava tra i compiti di chi aveva funzioni dirigenziali nella struttura amministrativa in questione), sia l’esistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso (una volta assodato che nella fattispecie concreta senza l’omissione in questione non vi sarebbe stato l’atto illecito del dipendente subordinato direttamente produttivo del danno) in base al principio secondo cui causa causae est causa causati.
Sulla base di quanto sopra esposto si deve concludere che la motivazione contenuta nell’impugnata sentenza (che nella sostanza ha applicato detto principio) è del tutto immune dai vizi denunciati.
Il ricorso va quindi respinto. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in favore di G M. e M. P. C. come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 4.000,00 (quattromila euro) per onorario oltre Euro 100,00 (cento euro) per spese vive ed oltre spese generali ed accessori come per legge.