L’anatocismo (il termine deriva dal greco α ν α τ ο κ ι σ μ ό ς, composto da ανα, sopra + τοkισμός, usura), ossia la trasformazione degli interessi scaduti in capitale, che come tale è produttivo a sua volta di interessi, è stato valutato con sfavore nelle legislazioni di tutti i tempi e, anche quando qualche ordinamento giuridico, nostro o di altro stato, antico o mederno, l’ha consentito, non sono mancate le cautele atte a temperarne e a restringerne la portata e gli effetti.
L’istituto economico, conosciuto dall’antico diritto egiziano dell’VIII secolo a.C., ebbe larga diffusione nel mondo ellenistico .
Per tutto il corso del diritto romano l’anatocismo dovette essere costantemente praticato, nonostante i numerosi divieti legislativi .
La dottrina prevalente , viceversa, ha tradizionalmente sostenuto che sin dalla fine della repubblica, in Roma e nei territori italici, vigesse il divieto generale e assoluto di anatocismo.
In realtà questa teoria non appare condivisibile se rapportata alla nozione stessa dell’anatocismo e soprattutto alla storia economica di Roma antica. Dal punto di vista della stretta logica giuridica, infatti, l’anatocismo non era altro che una forma di prestito ad interessi, che sappiamo che veniva abitualmente praticato in Roma, specie nel periodo tardo repubblicano . Abbiamo notizie di grossi operazioni finanziarie da parte di uomini influenti come Seneca, Attico o Egnazio Rufo (entrambi amici di Cicerone), Vestorio di Pozzuoli o Cecilio Giocondo di Pompei. I ‘banchieri’ di Roma antica solevano reimpiegare nel credito quanto ottenuto periodicamente a titolo di interessi. Qualora non avessero percepito detto profitto periodico, pretendevano un quid per il sacrificio: le usurae usurarum.