Cassazione civile, sez. I, 22 febbraio 2008, n. 4539
FATTO
Con citazione del 6 ottobre 1993 M. R., premesso che con sentenza 8 maggio 1986 il Tribunale amministrativo dell’Abruzzo gli aveva riconosciuto il diritto ad avere assegnato in locazione semplice uno dei dodici alloggi popolari realizzati in Atessa dall’Istituto autonomo case popolari di Chieti, annullando la relativa graduatoria degli aspiranti assegnatari; che con delibera del successivo 5 maggio 1988 il comune di Atessa, preso atto con ritardo del provvedimento del giudice amministrativo, in data 4 novembre 1988 gli aveva assegnato un alloggio già occupato da tale Menna Tommaso, senza tuttavia riuscire a consegnarglielo per l’opposizione del precedente assegnatario; che ingenti erano i danni patiti per il comportamento del Comune, convenne quest’ultimo in giudizio davanti al tribunale di Lanciano, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni indicati in L. 100.000.000, oltre L. 1.000.000 per ogni ulteriore mese di ritardo fino all’effettiva consegna dell’alloggio.
L’amministrazione convenuta resistette alla domanda deducendo, tra l’altro, che l’attore non aveva posto in esecuzione il titolo giudiziale a lui favorevole e che nessuna negligenza le era imputabile, avendo tentato di ottenere la riconsegna dell’alloggio dapprima in via bonaria e in seguito mediante procedura di decadenza avverso la quale era stata proposta opposizione dall’assegnatario, sfociata in un giudizio ancora pendente.
L’adito tribunale respinse la domanda che, provvedendo con sentenza non definitiva esclusivamente sull’an debeatur, fu invece accolta in sede di gravame dalla Corte d’appello de L’Aquila. Rilevò, anzitutto, detto giudice la indubbia configurabilità dell’evento dannoso e ingiusto, dacché l’appellante, assegnatario di un alloggio popolare in virtù di delibera di giunta del 5 maggio 1988, non era stato ancora immesso nel possesso dell’immobile dal comune di Atessa. Soggiunse che l’evento predetto era causalmente riconducibile a colpa grave dell’ente locale rimasto inerte per lungo tempo, dilungandosi in procedure inutili e defatigatorie e non attivatosi nei modi di legge per ottenere la restituzione degli alloggi assegnati in base alla graduatoria annullata dal T.a.r. e consentire al R. di prendere possesso dell’alloggio assegnatogli. Provato era il danno materiale consistito nei canoni pagati fino all’assegnazione provvisoria e il danno non patrimoniale correlato a violazioni, da parte del Comune, di diritti costituzionalmente garantiti (artt. 2, 3 e 97), per la cui quantificazione era necessaria ulteriore istruttoria.
Di tale sentenza, il comune di Atessa ha chiesto la cassazione con ricorso sostenuto da cinque motivi, in seguito illustrati con memoria.
Non resista l’intimato.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 16 d.P.R. 30 dicembre 1972 n. 1035, 37 legge ragionale 11 settembre 1986, 15 disp. sulla legge in generale, 117 Cost. e 93 d.P.R. 27 luglio 1977 n. 616. Diversamente da quanto opinato dalla corte territoriale, il Comune non poteva ricorrere all’art. 16 del d.P.R. n. 1035/1972 tramite una diffida costituente titolo esecutivo per l’immediato rilascio dell’immobile detenuto da precedente assegnatario ovvero emettendo un ulteriore decreto di annullamento dell’assegnazione. Ciò in quanto, a seguito dell’attribuzione della materia alle regioni disposta dalla legge n. 616/1977, le disposizioni del d.P.R. citato sono state implicitamente abrogate e sostituite. In ogni caso, il Comune non poteva emettere un atto che avrebbe comportato l’estinzione del rapporto privatistico tra lo I.a.c.p. e il Menna. D’altronde, era risultato che quest’ultimo non occupava stabilmente l’immobile da un anno e la circostanza non poteva non incidere sulla scelta della procedura e la relativa competenza, appartenente al presidente dell’Istituto assegnante.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 37, 38 e 40 della legge regionale 11 settembre 1986 n. 55. Essendo quella del Menna una occupazione divenuta senza titolo a seguito dell’annullamento con efficacia ex tunc del titolo di assegnazione, trovava applicazione unicamente l’art. 40 della legge regionale citata, a tenore del quale solo l’I.a.c.p. è competente a disporre con proprio atto il rilascio dell’alloggio occupato. Di fronte alla inottemperanza dello I.a.c.p., che non pose in essere il procedimento di sua competenza, non poteva parlarsi di acquiescenza del Comune, del tutto privo interesse ad agire di fronte al giudice amministrativo per l’inadempimento dell’istituto.
In quanto connessi, i due sopra compendiati motivi vanno esaminati congiuntamente. Essi si rivelano totalmente destituiti di giuridico fondamento.
La materia, com’è noto, è regolata dal d.P.R. 30 dicembre 1972, n. 1035, contenente “norme per l’assegnazione e la revoca, nonché per la determinazione o la revisione dei canoni di locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, il quale prevede quattro casi in cui il presidente dell’Istituto autonomo per le case popolari può, con decreto esecutivo, intimare al detentore il rilascio dell’alloggio: la decadenza dell’assegnazione (art. 11), l’annullamento (art. 16), la revoca (art. 17) e l’occupazione senza titolo (art. 18). Successivamente, tale competenza è stata trasferita ai comuni, ai quali l’art. 95 del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 e l’art. 54 della legge 5 agosto 1978 n. 457 hanno attribuito le funzioni amministrative in materia di assegnazioni di edilizia residenziale pubblica.
La norma dell’art. 95 del citato d.P.R., emesso per l’attuazione della legge 22 giugno 1975 n. 382 che trasferisce le funzioni amministrative dello Stato, nel disporre che “le funzioni amministrative concernenti l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica sono attribuite ai comuni, salva la competenza dello Stato per l’assegnazione di alloggi da destinarsi a dipendenti civili e militari dello Stato per esigenze di servizio”, recepisce, invero, una nozione tecnico-giuridica di “funzione amministrativa concernente l’assegnazione di alloggio” che, come ha esattamente rilevato il giudice d’appello, trascende i limiti della mera formazione della graduatoria degli aspiranti, per includere le connesse funzioni di vigilanza e di rimozione della assegnazione in presenza di cause ostative o dirimenti, quali sono previste dagli artt. 16 e seguenti del citato d.P.R. n. 1035 del 1972.
Il potere amministrativo di assegnazione dell’alloggio è, cioè, inscindibilmente connesso con quello che rimuove il provvedimento; né può dirsi che il legislatore abbia inteso derogare da questo principio attribuendo all’organo comunale la competenza esclusiva in materia di assegnazioni e riservando al presidente dell’Istituto il potere di porre nel nulla il provvedimento di assegnazione emesso da altro organo ad esso gerarchicamente non sottordinato. La norma pone un limite alla estensione delle funzioni già del presidente dell’I.a.c.p. e trasferite all’organo comunale, escludendone solo quel provvedimenti che non siano connessi con una precedente assegnazione o che non siano da questa dipendenti e nei cui riguardi più non soccorra, pertanto, la ratio del trasferimento delle funzioni, da Individuarsi nella duplice esigenza di una maggiore sensibilità verso le particolari situazioni abitative locali e, al tempo stesso, di una maggiore Idoneità a un più Incisivo controllo delle condizioni di legge, quali si sono voluti riconoscere all’organo consiliare. Al di là di questo specifico trasferimento di competenze, non v’ha dubbio, quindi, che restino ferme le Istituzionali attribuzioni proprie dell’I.a.e.p. In materia di amministrazione e conservazione del patrimonio, nel cui ambito è da ricomprendersi l’atto tipico di autotutela costituito dall’ordine di rilascio ex art. 18 citato d.P.R. 1035 del 1972, che sia finalizzato al recupero della disponibilità di un alloggio occupato senza titolo, cioè, non In forza di un previo provvedimento di assegnazione, al contrario emanato nel caso di specie, ma nell’assenza dell’Inderogabile presupposto della competenza del Comune ad emettere Il provvedimento ablativo. La contraria interpretazione estensiva, proposta dal ricorrente, non trova, dunque, alcun positivo riscontro nella norma né nel sistema in cui essa si colloca e deve, pertanto, essere disattesa.
In altre parole, la norma citata ha attribuito ai comuni i soli compiti inerenti le funzioni amministrative di assegnazione degli alloggi e, correlativamente, di annullamento di tali assegnazioni. Conseguentemente, tutte le facoltà di mera gestione del patrimonio immobiliare restano attribuite agli I.a.c.p. Sul punto da tempo la giurisprudenza della Corte di cassazione ha stabilito un orientamento univoco, in base al quale si ritiene che i comuni, per effetto della citata norma dell’art. 95 del d.P.R. 616/1977, siano divenuti titolari di tutte le funzioni pubbliche inerenti l’assegnazione degli alloggi, e dunque la decadenza e la revoca della assegnazione. Invece, tutti i provvedimenti estranei a tale titolo pubblicistico, ed attinenti alla gestione degli immobili, restano attribuiti agli I.a.c.p. (Cass. nn. 8319/1993, 9447/1993).
Quindi, alla luce dell’art. 16 del citato d.P.R., nei confronti di chi abbia conseguito l’assegnazione dell’alloggio in contrasto con le norme vigenti al tempo dell’assegnazione, il sindaco (divenuto competente al posto del presidente dell’Istituto autonomo per le case popolari con l’entrata in vigore del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616) dispone, con proprio decreto, l’annullamento dell’assegnazione. A tal fine – dopo aver comunicato all’assegnatario, con lettera raccomandata, i fatti che potrebbero giustificare il provvedimento, assegnandogli un termine non inferiore a dieci e non superiore a quindici giorni per la presentazione di deduzioni scritte e di documenti – richiede il parere (obbligatorio e vincolante) della commissione di cui all’art. 6. L’annullamento dell’assegnazione, che è provvedimento adottato in via di autotutela, comporta la risoluzione di diritto del contratto. In applicazione del dodicesimo comma dell’art. 11, il decreto di rilascio emanato dal sindaco ha natura di titolo esecutivo.
Le conclusioni raggiunte non vengono minimamente infirmate anche a ipotizzare l’applicabilità (ratione temporis) alla fattispecie della legge della regione Abruzzo dell’11 settembre 1986 n. 55, i cui articoli 37 e 40 altro non sono che la letterale riproduzione, rispettivamente, degli artt. 16 e 18 del d.P.R. n. 1035 del 1972. Ed invero, l’art. 40 prevede la competenza in capo dell’ente gestore di disporre con proprio atto il rilascio dell’immobile allorquando questo sia stato occupato originariamente senza valido titolo; al contrario, l’art. 37 viene In rilievo quando – come nella specie – l’alloggio è stato assegnato dal comune che, In un secondo momento, annulla il provvedimento amministrativo di assegnazione per vizi originari di legittimità; e l’ultimo comma della disposizione da ultimo citata recita che il provvedimento del sindaco di annullamento dell’assegnazione deve contenere il termine di rilascio non superiore a sessanta giorni e “costituisce, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 16 del d.P.R. 30 dicembre 1972, n. 1035, titolo esecutivo nei confronti dell’assegnatario e di chiunque occupi l’alloggio”.
Del tutto fuorvianti e non pertinenti sono i richiami operati dal Comune ricorrente ai precedenti di questa Corte, concernenti la ben diversa fattispecie della risoluzione del rapporto locativo. Le sentenze citate hanno, infatti, chiarito che i rapporti intercorrenti tra gli istituti autonomi case popolari ed i loro assegnatari ricadono nella sfera privatistica per tutto ciò che riguarda il godimento dell’alloggio assegnato in locazione (semplice o con patto di futura vendita); operano perciò in materia le normali cause di risoluzione, cessazione ed estinzione e le relative controversie sono devolute al giudizio ordinario (vedi, oltre alle sentenze nn. 8319 e 10377 del 1993 citate dal Comune, sentt. nn. 4058/1986, 685/1986, 5249/1984). In altri termini, la natura privatistica del rapporto di locazione, con o senza patto di futura vendita, a mezzo del quale viene attuato il provvedimento di assegnazione dell’alloggio, comporta che il rapporto stesso resta soggetto alla normale disciplina della risoluzione, per le cause previste dal codice civile o espressamente contemplate dai contraenti, con la conseguenza che, verificatasi una di dette cause, ancorché rilevanti pure nell’ambito del rapporto pubblicistico di assegnazione come ragione di revoca del relativo provvedimento, deve riconoscersi la facoltà dell’ente concedente di agire davanti al giudice ordinario al fine di conseguire la risoluzione della locazione.
Nella specie, ripetesi, non si trattava di far valere un inadempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto locativo, ma di annullare la precedente assegnazione attuata, ai sensi degli artt. 55 della legge n. 457/1978 e 6 d.P.R. 1035/1972, in base a graduatoria tra aspiranti assegnatari, annullata dal giudice amministrativo che collocò il R. in posizione utile. Corretta, quindi, è la sentenza laddove addebita al Comune di non avere immediatamente attivato nei confronti dell’occupante (Menna) la veloce procedura di cui al cennato art. 16 e di avere invece dapprima tergiversato poi (erroneamente) chiesto allo I.a.c.p. di promuovere la procedura di cui all’art. 40 della (sopravvenuta) legge regionale n. 55/1986 (prevista per il diverso caso dell’occupazione originariamente sine titulo), impelagandosi in seguito in procedure defatigatorie e inutili come quella intesa a ottenere la decadenza dell’assegnatario-locatario (il Menna) del quale era stata segnalata anche la violazione dell’obbligo di occupare l’alloggio.
La doglianza di violazione di legge pertanto è totalmente fondata, attesa la suindicata distinzione (non chiara al ricorrente) tra gli atti e gli organi competenti ad emetterli, alla luce della quale è stata invece correttamente valutata legittimità del comportamento.
Con il terzo motivo, il comune di Atessa denunzia la violazione e la falsa applicazione del principio della cd. pregiudiziale amministrativa.
L’inottemperanza agli obblighi di cui all’art. 40 della legge regionale n. 55/1986 da parte dello I.a.c.p. ha indotto lesione di interessi legittimi. La pretesa risarcitoria azionata in giudizio si ricollegava in realtà a diffide non seguite da tempestive impugnazioni del silenzio rifiuto; il giudice d’appello ha ravvisato la violazione di un interesse legittimo e ritenuto di potere pronunciare condanna risarcitoria senza la previa caducazione degli atti, espressi o taciti, pretesamente illegittimi.
Il mezzo è, innanzi tutto, inammissibile per la sua estrema genericità.
Il ricorrente non specifica quali atti amministrativi il R. avrebbe dovuto impugnare prima di attivare la tutela risarcitoria.
In ogni caso, è privo di fondamento sotto due profili.
Sotto un primo profilo perché fa carico al R. di non avere impugnato illegittimi silenzi dello I.a.c.p. che, invece, come si è visto esaminando i primi due mezzi, non aveva “competenza” nel caso di specie.
Sotto altro più generale profilo va ricordato che, con la sentenza n. 500/99, le Sezioni Unite hanno affermato che, in relazione ai giudizi pendenti alla data del 30 giugno 1998, e perciò con riferimento al regime (applicabile ratione temporis, essendo stata la domanda proposta con atto del 6 ottobre 1993) previgente alle Innovazioni del sistema di riporto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo apportate con il d.lgs n. 80 del 1998 e dalla successiva legge n. 205 del 2000, nel caso In cui venga Introdotta dinanzi al giudice ordinario una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per Illegittimo esercizio di una funzione pubblica, anche la lesione di un Interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro Interesse giuridicamente rilevante, puo’ esser fonte di responsabilità aquiliana e, quindi, dar luogo al risarcimento del danno Ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della P.A., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo; in questi casi, il giudice adito potrà procedere direttamente ad accertare l’illegittimità del provvedimento amministrativo nell’ambito della verifica della riconducibilità della fattispecie sottoposta al suo esame alla nozione di fatto illecito delineata dall’art. 2043 c.c, non essendo più ravvisabile la pregiudizialità del giudizio di annullamento dell’atto dinanzi al giudice amministrativo, In passato costantemente affermata In quanto solo In tal modo si perveniva all’emersione del diritto soggettivo, unica situazione giuridica soggettiva la cui lesione si riteneva tutelabile dinanzi al giudice ordinario (vedi, negli stessi termini, Cass. un. 7193/2002, 13619/2004).
Con il quarto motivo (erroneamente indicato come terzo in ricorso), viene denunziata la violazione dell’art. 2043 cc e “dei principi che riguardano la colpa” e “difetto” di motivazione. Si contesta l’affermata responsabilità per colpa del Comune, che viceversa aveva cercato una soluzione favorevole al R. in una materia complessa, caratterizzata da notevole incertezza, ovviando alla situazione di stallo determinata dallo I.a.c.p. Erroneamente la corte territoriale ha addebitato al Comune di non avere annullato atti già annullati dal T.a.r. e per di più in via di esercizio di un potere di annullamento esulante dalla sua competenza. Peraltro, in base ai principi dettati dalla sentenza n. 500/1999, l’imputazione alla P.A. ex art. 2043 c.c. può avvenire unicamente in base al dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, laddove nella specie nessun atto del Comune era stato dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo o dal magistrato penale. Inconferente era il richiamo alla posizione di altro assegnatario (D’Aurizio), il cui alloggio non era stato assegnato all’attore. Non è chiarito in sentenza in che modo l’ente locale ha violato i principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Al contrario, corretto era stato l’operato dell’amministrazione comunale che, attesi i margini di notevole incertezza caratterizzanti la vicenda, aveva ritenuto di acquisire il parere di un legale, da cui era stato proposto un ventaglio di soluzioni delle varie problematiche, a partire dalla competenza. La corte non ha neanche considerato che, una volta in possesso del giudicato favorevole del T.a.r., e ottenuto il provvedimento di assegnazione, il R. ben poteva attivarsi sin dal 1988 per conseguire in tempi rapidi la disponibilità dell’alloggio.
Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile per una duplice ragione. Anzitutto, per quanto il motivo prospetti anche una violazione dell’art. 2043 c.c, con esso, in effetti, si richiede una valutazione dei fatti nuova e diversa rispetto a quella effettuata dal giudice del merito, che ha ravvisato l’esistenza di un comportamento attivo (l’esclusione del R. dal novero degli aventi diritto all’assegnazione di alloggio) e di un altro omissivo (la mancata ottemperanza, di fatto, al giudicato amministrativo di annullamento della predetta esclusione) del Comune convenuto improntati a colpa grave.
La conclusione cui è pervenuta la corte d’appello, secondo cui la fattispecie concreta sottoposta al suo esame era riconducibile nello schema normativo delineato dall’art. 2043 c.c, segue a corrette indagini e risulta supportata da congrua e stringente motivazione.
Come noto, in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della P.A., al fine di stabilire se la fattispecie concreta integra un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), dall’interesse legittimo (funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, la cui lesione rileva ai fini in esame) o dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela In quanto dall’ordinamento preso In considerazione a fini diversi da quelli risarcitori (e quindi comunque non qualificabile come Interesse di mero fatto); c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione del noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva od omissiva) della P.A.; d) stabilire se l’evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A., non trovando al riguardo applicazione il principio secondo cui la colpa della struttura pubblica dovrebbe considerarsi sussistente in re ipsa in caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo (così Cass. nn. 61992/2004, 13164/2005).
Nella fattispecie, il giudice del merito ha ritenuto, con motivazione Immune da vizi rilevabili in questa sede di legittimità, che sussistesse la prova della colpa del comune di Atessa. Al riguardo ha osservato che: il R. fu illegittimamente escluso dalla graduatoria degli assegnatari dei dodici alloggi popolari per cui è causa, annullata dal T.a.r. con sentenza n. 396 del maggio 1986; benché la commissione provvide tempestivamente fin dal successivo 29 dicembre a formare nuovamente la graduatoria per l’assegnazione delle case popolari secondo i criteri dettati dal decisum del giudice amministrativo, il Comune, solo con delibera giuntale n. 499 del 5 maggio 1988, prese atto della nuova graduatoria con relativo Incarico al sindaco di annullare le precedenti assegnazioni e di procedere alle nuove In favore del soggetti utilmente collocatisi In graduatoria, fra cui il R.; tuttavia, dopo quasi quindici anni dalla delibera in parola, il comune di Atessa non aveva ancora provveduto a immettere il R. nel possesso dell’immobile spettantegli. Ciò per la corte d’appello era dovuto a macroscopiche negligenze dell’ente locale. Invero, poiché i nuovi assegnatari erano tenuti, a pena di decadenza, a prendere possesso degli alloggi entro trenta giorni dall’assegnazione, il Comune avrebbe dovuto pretendere la restituzione degli alloggi di cui alla graduatoria annullata e in particolare la restituzione da parte del Menna dell’alloggio toccato all’attore; viceversa l’ente locale non esercitò i poteri autoritativi di competenza (art. 16 d.P.R. n. 1051/1972) onde stabilire la legalità delle assegnazioni nei termini predetti; dopo un’ennesima diffida e un esposto alla locale Procura della Repubblica da parte del R., si limitò a chiedere un parere legale e, nonostante il professionista compulsato avesse indicato nel suo responso due opzioni, di cui una di stretta pertinenza del comune, optò per una richiesta all’I.a.c.p. di procedere con i mezzi offerti dall’art. 40 della legge regione Abruzzo n. 55 del 1986 al fine di consentire all’attore di prendere possesso dell’alloggio assegnatogli; detta soluzione era errata, attagliandosi solo al casi di occupazione ab origine abusiva, mentre nella specie si verteva In tema di annullamento di una precedente assegnazione In relazione al quale l’art. 16 d.P.R. 1035/1972 consentiva direttamente al Comune l’adozione di un decreto costituente titolo esecutivo per l’Immediato rilascio dell’Immobile; poiché venne segnalato (anche) un motivo di decadenza dell’originario assegnatario, l’I.a.c.p. sospese Immediatamente la procedura di rilascio ex art. 40 della citata legge regionale, rimettendo il 10 novembre 1989 tutta la pratica al Comune che, nulla obiettando. Intraprese, tra l’altro con oltre un anno di ritardo, un nuovo quanto Inutile giudizio di decadenza nei confronti del Menna, il quale si era addirittura dichiarato disponibile al rilascio dell’alloggio per il cui immediato recupero e contestuale consegna al R. non residuava problema alcuno.
La colpa dell’ente pubblico è dunque affermata in presenza di indubbie anomalie nel contegno tenuto dal Comune il quale, da un lato, lasciò Inalterata la posizione di soggetti non aventi più diritto a occupare gli alloggi, dall’altro, si pose per sua scelta nella condizione di non poter procedere alla consegna dell’alloggio al R., che ne reclamava da anni 11 possesso. Sottolineando la Insolita, lunghissima, inazione del Comune, emergente da Inoppugnabili dati della compiuta Istruttoria, la corte d’appello ha esaustivamente assolto l’obbligo di motivare le rese statuizioni, facendo retta applicazione delle norme applicate (art. 2043 c.c.).
La motivazione relativa alla prova della colpa del Comune e, Infatti, completa, priva di errori giuridici o vizi logici e, quindi, Insindacabile In questa sede di legittimità. Per principio comunemente acquisito alla giurisprudenza di legittimità, affermare che, nel caso concreto, l’azione della P.A. sia stata Inficiata da colpa spetta al giudice di merito e la valutazione delle prove da questi compiuta non e sindacabile se, come nella fattispecie, essa non presenta vizi di violazione di norme di diritto o di motivazione (vedi Cass. nn. 8723/2004, 2424/2004, 17914/2003). D’altra parte, nella parte In cui denuncia un vizio (“difetto”) di motivazione, il motivo è, in realtà, inammissibilmente Inteso a far accreditare una valutazione del fatti diversa da quella operata dal giudice del merito e maggiormente rispondente all’opposto convincimento soggettivo della parte.
Con il quinto (quarto In ricorso) motivo, il ricorrente denunzia violazione degli artt. 345, 112 e 113 c.p.c. e 2697 c.c. La corte ha riconosciuto al R. danni non patrimoniali chiesti per la prima volta in sede di appello e ricondotti a inesistenti violazioni di interessi costituzionalmente protetti. Di detti danni, non ricollegabile neanche a una figura astratta di reato penale, l’appellante non ha peraltro allegato un solo elemento di riscontro; né la corte ha spiegato in quale modo dalla mancata consegna dell’alloggio sia derivato un danno morale, affidandone la prova a un accertamento presuntivo e su basi vaghe.
Il motivo è privo di pregio.
L’indirizzo un tempo consolidato nella giurisprudenza di legittimità riteneva che per il combinato disposto degli articoli 2059 cc. e 185 c.p., il risarcimento dei danni morali implicasse l’accertamento di un reato e che il riferimento al reato, contenuto nella seconda delle disposizioni citate, dovesse essere inteso nel senso della ricorrenza in concreto di una fattispecie criminosa In tutti i suoi elementi costitutivi, anche di carattere soggettivo, con la conseguente inoperatività, in tale ambito, della presunzione di legge destinata a supplire la prova, in ipotesi mancante, della colpa dell’autore della fattispecie criminosa (in tal senso, tra le molte, Cass. nn. 12741/1999, 9794/1998, 6632/1997, 9045/1995).
In seguito, la Suprema Corte, con tre sentenze (nn. 7281, 7282, 7283) del 2003 (di identico tenore) enunciò il principio di diritto secondo cui: “Alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nel caso di cui all’art. 2051 cc. o all’art. 2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”.
Altre sentenze di poco successive (nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003) hanno eroso ulteriormente i confini imposti dalla lettura tradizionale dell’art. 2059 c.c., che richiedeva, per la risarcibilità del danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, la ricorrenza di una fattispecie delittuosa, affermando il principio per cui “il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”. Il nuovo indirizzo ha superato l’identificazione del danno non patrimoniale con il danno morale soggettivo, ossia con la sofferenza contingente e il turbamento dell’animo transeunte. Il danno non patrimoniale deve essere inteso in senso ampio, non solo, dunque, come pretium doloris, ma come categoria idonea a comprendere ogni ipotesi di lesione di valori inerenti alla persona privi di una connotazione economica. Nel quadro del sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc., fatta propria dalle sentenze espressione di tale nuovo filone, è tale da ricomprendere, nell’astratta previsione di quest’ultima norma, (a) il danno morale soggettivo, il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d’animo; (b) il danno biologico in senso stretto, configurabile solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medicai e (c) il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. La svolta all’interno della giurisprudenza di legittimità – cui ha dato impulso anche il legislatore degli anni più recenti (riconoscendo espressamente, in relazione alla lesione dei diritti della persona, la risarcibilità del danno non patrimoniale al di là della relatio con una fattispecie di reato: così nella legge sul trattamento dei dati personali, nella legge in tema di ragionevole durata del processo, nel decreto legislativo in materia di azione civile contro la discriminazione, nella legge sui danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie per il caso dell’ingiusta privazione della libertà personale) – ha ricevuto un avallo dalla Corte costituzionale (vedi sentenza n. 233 dell’11 luglio 2003) e un suggello da numerosi arresti di questa Corte (cfr. sentt. nn. 16716/2003, 15097/2003, 15179/2004, 20323/2005, 3181/2006, 17144/2006, 13953/2007). »
Nel caso di specie è stata addotta e comunque correttamente ravvisata la violazione di interessi costituzionalmente protetti, sicché nessuna violazione di legge è configurabile. Nel contempo, la corte territoriale ha sufficientemente motivato la statuizione resa sul punto, sottolineando i disagi psichici patiti dal R. negli oltre dieci anni di attesa per ottenere l’alloggio assegnatogli.
Quanto alla lamentata ultrapetizione, è appena il caso di ricordare il principio ripetute volte affermato da questa Corte secondo cui l’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione (scaturente dal rispetto dei canoni della concentrazione e della correttezza processuale) comportano che quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento di tutti i danni allo stesso cagionati da un comportamento illecito del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta. Tale principio, non trova applicazione solo quando cui sia esclusa a priori la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, la qual cosa può accadere quando tale esclusione sia adeguatamente e nei modi opportuni manifestata dall’attore, o ab initio, o nel corso del giudizio (vedi Cass. nn. 17873/2007, 15823/2005, 22987/2004, 2673/1998).
Non incorre, quindi, nel vizio di ultrapetizione il giudice che, anche senza una specifica domanda della parte, le attribuisca il risarcimento del danni non patrimoniali di cui essa risulti aver sofferto In conseguenza del fatto Illecito posto a fondamento della sua domanda di risarcimento, la quale – salva espressa specificazione – deve ritenersi comprensiva di tutti i danni e, quindi, anche di quelli non patrimoniali.
Con riferimento al caso di specie, il Comune non ha dedotto, né tampoco provato (con opportuna trascrizione In ricorso del relativo testo), che nell’atto introduttivo del giudizio il R. abbia espressamente limitato la richiesta di risarcimento al danni patrimoniali.
Infondato In tutte le sue articolazioni, il ricorso va, in definitiva, rigettato senz’uopo di provvedere sulle spese, non avendo l’intimato svolto difese in questa sede.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.