La Corte Costituzionale, con la Sentenza 28 marzo 2008 n. 71, dichiara l’illegittimità dell’art. 1 del d.lgs. n. 5/2003 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366) nella parte in cui estende il rito societario anche alle cause connesse. Emiliana Matrone
Corte Costituzionale, 28 marzo 2008, n. 71
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale di Padova, nel procedimento civile vertente tra F. M. e la Irix Software s.r.l. ed altra, con ordinanza del 7 luglio 2006 iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti l’atto di costituzione di F. M. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante;
udito l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un giudizio per l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il ricorrente e la società convenuta (e dell’illegittimità dell’atto di recesso dal rapporto da parte di quest’ultima), in cui era stata contestualmente proposta anche un’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2497 del codice civile (avverso altra società), il Tribunale di Padova, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 7 luglio 2006, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 76 della Costituzione, dell’art. 1 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), nella parte in cui prevede che, nel caso di connessione tra una causa compresa nell’ambito applicativo della norma richiamata e altra concernente uno dei rapporti di cui all’art. 409 cod. proc. civ., i procedimenti connessi siano sottoposti al rito di cui al decreto legislativo medesimo.
Il remittente premette che tale nuovo rito va applicato a tutte le controversie che attengano a rapporti di rilevanza societaria, tra le quali anche le azioni di responsabilità, con la conseguenza che il collegamento tra questa domanda e quelle attinenti al rapporto di lavoro si pone in termini di connessione propria, essendo la qualità di creditore sociale del ricorrente conseguente all’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e dei crediti a questo riferiti. Infatti le richieste legate al rapporto di lavoro costituiscono oggetto di domande specifiche – e ciò escluderebbe la possibilità di una pronuncia incidentale – ma anche la premessa per affermare la responsabilità (per la lesione cagionata al patrimonio della società presunta datrice di lavoro) della seconda società convenuta ai sensi dell’art. 2497 codice civile.
Da ciò consegue – osserva il Tribunale – che la connessione tra le domande avanzate nei confronti delle due società resistenti e la natura societaria di quella proposta nei confronti di una di esse impone la trattazione della causa con il rito societario.
Ciò pare al remittente in contrasto, anzitutto, con la legge delega, che non prevede specifiche norme in materia di connessione e di prevalenza del rito societario, per cui, per questo aspetto, la disciplina censurata esorbiterebbe dai limiti della delega, in violazione dell’art. 76 della Costituzione.
In secondo luogo, il superamento della regola dettata dall’art. 40, terzo comma, cod. proc. civ. (che sancisce la prevalenza del rito del lavoro su quello ordinario) sembra al giudice a quo incidere su diritti di rilevanza costituzionale, posto che le caratteristiche proprie del rito del lavoro, dirette a valorizzare l’accertamento della verità sostanziale (anche attraverso l’attribuzione al giudice di poteri istruttori particolarmente incisivi), sono strettamente connesse al rango costituzionale dei diritti in gioco e alla necessità di riequilibrare la posizione di disparità sostanziale delle parti del rapporto giuridico, in applicazione dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione.
Proprio la rilevanza di questi interessi spiegherebbe la prevalenza del rito speciale del lavoro – allorché riguardi una controversia rientrante tra quelle previste dall’art. 409 cod. proc. civ. – su quello ordinario. Sarebbe quindi in contrasto con gli evocati parametri l’alterazione di questo equilibrio introdotta dalla censurata normativa, nella parte in cui sottrae l’esame delle controversie di lavoro al giudice specializzato e le assoggetta ad una disciplina processuale dettata per la tutela specifica di altri interessi.
2.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione.
Quanto all’eccesso di delega, il fatto che la legge di delegazione abbia taciuto in ordine alla disciplina processuale della connessione, non significa, per l’Avvocatura, che la definizione dello schema processuale più adatto sia stata lasciata al mero arbitrio del legislatore delegato, quanto, piuttosto, che sia stata demandata al suo legittimo ambito di discrezionalità. Ad escludere il carattere arbitrario dell’esercizio della delega basterebbe considerare che essa ha fissato in maniera assolutamente precisa e puntuale gli obiettivi da perseguire, senza attribuire al legislatore delegato un incontrollabile potere di disegnare qualsivoglia nuovo modello processuale in materia societaria ed affidandogli, invece, il compito di individuare le regole processuali, anche speciali, maggiormente in grado di attuare nel migliore dei modi gli obiettivi indicati dalla legge delega.
Quanto, infine, alla prospettata violazione degli artt. 3, 24 e 35 Cost., non sarebbe affatto vero che la prevalenza del rito societario su quello del lavoro sia lesiva del diritto di difesa delle parti, per essere limitativa di quella finalità di accertamento della verità sostanziale (attraverso l’attribuzione di poteri officiosi al giudice) che caratterizza il rito del lavoro, come dimostrato dalla prevalenza dello stesso in caso di connessione con il rito ordinario. Infatti, il ricorso ai poteri officiosi del giudice è previsto anche dall’art. 12, comma 3, del decreto legislativo n. 5 del 2003, dove è stabilito che il decreto di fissazione dell’udienza deve contenere l’ammissione dei mezzi istruttori disponibili di ufficio.
3.— Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita la parte privata, ricorrente nel giudizio a quo, la quale, dopo aver riassunto il contenuto delle proprie domande, ha aderito alla richiesta declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
Considerato in diritto
1.— Il giudice del lavoro del Tribunale di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), «nella parte in cui prevede che nel caso di connessione tra una causa compresa dalla norma richiamata e uno dei rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. i procedimenti siano sottoposti al rito di cui al d.lgs. n. 5/2003».
Il giudice remittente espone che davanti a lui pende un giudizio avente ad oggetto le domande proposte da un lavoratore contro la società sua datrice di lavoro per accertare che con questa è intercorso un rapporto di lavoro subordinato e per far dichiarare illegittimo l’atto di risoluzione del medesimo intimatogli dalla controparte, nonché la domanda proposta dallo stesso lavoratore nei confronti di altra società, ai sensi dell’art. 2497 cod. civ., per farne accertare la corresponsabilità e ottenerne la condanna al risarcimento del danno.
Si tratta, ad avviso del remittente, di domande connesse, in quanto l’accertamento e la condanna oggetto della domanda contro la società datrice di lavoro costituiscono l’antecedente logico-giuridico della pretesa avanzata nei confronti dell’altra società. In applicazione della norma censurata entrambe le domande dovrebbero essere esaminate secondo la disciplina del cosiddetto rito societario, poiché si configura un caso di connessione per pregiudizialità, il che induce un duplice ordine di dubbi di illegittimità costituzionale della disposizione suddetta.
In primo luogo, essa sarebbe stata introdotta dal legislatore delegato al di fuori dei termini della delega che nulla stabiliva in tema di rito applicabile in caso di connessione tra procedimenti regolati da riti diversi. In secondo luogo, prevedendo che – in caso di connessione e, in particolare, di cumulo tra una causa da trattare con il rito societario ed altra rientrante tra quelle previste dall’art. 409 cod. proc. civ. – anche questa sia assoggettata al rito societario, la disposizione contrasterebbe con i parametri indicati, in quanto la disciplina del processo del lavoro, con tutte le sue peculiarità, è predisposta alla migliore tutela di quelle posizioni soggettive tipiche del rapporto di lavoro, alcune delle quali hanno diretta derivazione da norme costituzionali.
2.— La questione è fondata in riferimento all’art. 76 della Costituzione.
La disciplina della connessione, comportante modificazioni della competenza – oppure, più limitatamente e per quanto qui interessa, identificativa del rito da seguire da parte del giudice comunque competente – concerne particolari rapporti tra procedimenti e non attiene ad un solo tipo di procedimento.
Nel sistema del codice di procedura civile vigente, la disposizione fondamentale è contenuta nell’art. 40. Ai fini del presente scrutinio vengono in rilievo i commi terzo e quarto. Essi sono così rispettivamente formulati: «nei casi previsti dagli articoli 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442»; «qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore».
E’ opportuno soggiungere che l’art. 281-nonies – il quale prescrive che, in caso di connessione di cause da decidere in sede collegiale con cause da decidere dallo stesso tribunale in composizione monocratica, anche queste siano rimesse al collegio – non attiene al tipo di procedimento, di cui presuppone l’identificazione, bensì alla costituzione del giudice. La suddetta disposizione, pertanto, è estranea all’ambito del presente scrutinio di costituzionalità.
Quanto detto è funzionale alla interpretazione della norma di delegazione (art. 12 della legge n. 366 del 2001).
Di questa, per quanto ora interessa, vengono in rilievo il comma 1 ed il comma 2, lettere a) e b), così formulati:
«1. Il Governo è inoltre delegato ad emanare norme che, senza modifiche della competenza per territorio e per materia, siano dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle seguenti materie:
diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali;
materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni.
2. Per il perseguimento delle finalità e nelle materie di cui al comma 1, il Governo è delegato a dettare regole processuali, che in particolare possano prevedere:
a) la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali;
b) l’attribuzione di tutte le controversie nelle materie di cui al comma 1 al tribunale in composizione collegiale, salvo ipotesi eccezionali di giudizio monocratico in considerazione della natura degli interessi coinvolti».
Il tenore delle suddette disposizioni denota che il legislatore delegante ha limitato l’oggetto della delega alle materie indicate e cioè al diritto societario, alle materie disciplinate dal testo unico n. 58 del 1998 in tema di intermediazione finanziaria, nonché a quelle previste dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia n. 385 del 1993. L’indicazione della finalità di «assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti» non attiene alla definizione dell’oggetto della delega e l’uso del plurale “procedimenti” si riferisce ai diversi tipi da disciplinare (di merito, cautelare, cosiddetto abbreviato, etc.) nell’ambito delle materie indicate.
Sulla base di siffatta delega è stata emanata la disposizione dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2003, la quale, nel definire le controversie cui si applica il decreto, vi include quelle connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile. Essa detta, in riferimento a procedimenti connessi a controversie in materia societaria ma aventi ad oggetto materie diverse, una disciplina degli effetti della connessione, riguardo al rito da seguire, derogatoria rispetto a quella generale contenuta nel codice. La deroga riguarda la prevalenza, rispetto a tutti gli altri, del rito societario e la inclusione tra le ipotesi di connessione di quella di cui all’art. 33 del codice di procedura civile, che il successivo art. 40 non contempla.
Siffatta disposizione esorbita dalla delega nel cui dettato, per quanto rilevato, non trova fondamento. Il remittente, avendo riguardo alla specificità delle domande a lui proposte e, quindi, con stretto riferimento alla rilevanza nel giudizio a quo, censura la disposizione delegata soltanto nella parte in cui stabilisce l’applicabilità del rito societario anche in caso di connessione fra una controversia a questo soggetta ed altra rientrante nelle previsioni dell’art. 409 cod. proc. civ. Tuttavia, una volta accertato che la legge di delega non autorizzava il Governo ad intervenire in tema di connessione tra procedimenti aventi oggetti diversi, la limitazione non ha ragion d’essere e il thema decidendum non può che avere ad oggetto l’intera disposizione concernente il rito applicabile alle controversie connesse, sicché la dichiarazione di illegittimità costituzionale va pronunciata per quella parte che inizia con la parola «incluse» e termina con la parola «civile». Nei vari molteplici casi di connessione, oltre a quello di cui al giudizio a quo, il rito andrà individuato secondo il regime generale sopra descritto.
Restano assorbiti gli altri profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), limitatamente alle parole: «incluse quelle connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2008.