Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 14 aprile 2008, n. 9817
Svolgimento del processo
Il sig. Eugenio A. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano, giudice del lavoro, la società datrice di lavoro S. s.r.l., chiedendo di condannarla a pagargli, a titolo di danno differenziale, Euro 548.121,91 per invalidità permanente, danno biologico, danno morale e 12 mesi di inabilità temporanea, oltre interessi legali pari a L. 177.411.000 e interessi compensativi, in quanto responsabile, ex art. 2043 e 2087 c.c., dell’infortunio da lui subito in data 11 giugno 1996. Narrava che, mentre era intento a smontare imponenti casseformi per il getto di calcestruzzo, per la costruzione di muri di contenimento, alti 10 metri, per la linea F. viaria ad alta velocità Milano-Venezia, una cassaforma si inclinava perché male agganciata dalla squadra precedente, sicché egli si lanciava nella scarpata sottostante per evitare di essere schiacciato dalla stessa, riportando così gravissime lesioni permanenti. Chiamata in causa le società assicuratrici della S. , Sai s.p.a. e Ras s.p.a., il giudice adito ha respinto la domanda, con decisione confermata dalla Corte d’ appello di Milano, con sentenza 16 novembre 2004/31 gennaio 2005 n. 45. Il primo giudice, sentiti i testi, aveva ritenuto non provata la responsabilità della società, considerata anche l’esperienza del lavoratore e il suo ruolo di caposquadra. Il giudice d’appello ha ricapitolato la tesi dell’appellante, secondo cui l’infortunio è accaduto perché altre squadre avevano operato sulle casseformi prima di lui, omettendo l’aggancio dell’ultimo pannello, e perché egli si è trovato, al momento dell’infortunio, all’altezza di sei metri dal suolo, in mancanza di sistemi di sicurezza.
Ha ammesso che la prima circostanza è stata confermata dai testi, ma ha ritenuto che da ciò non consegua la responsabilità del datore di lavoro, perché l’A. era un caposquadra esperto nel montaggio delle casseformi, un dirigente della società lo aveva saggiato all’opera (era il primo giorno di lavoro dell’A. presso la S. ), gli aveva dato istruzioni ed effettuato controlli sulla sua competenza e sulla regolarità del lavoro già svolto, pertanto aveva avuto modo e tempo di verificare all’arrivo lo stato dei lavori e, in particolare, il regolare ancoraggio dei pannelli con sostegni telescopici.
Quanto alle modalità dell’infortunio, queste sono state accertate dagli ufficiali di p.g. i quali hanno ispezionato i luoghi e sentito l’A. ed i suoi colleghi di lavoro; hanno riferito che il lavoratore si trovava, nell’ultima fase del lavoro, con i piedi appoggiati su una putrella sporgente ad altezza non superiore a due metri, per la quale non erano richieste misure particolari di sicurezza. L’A. , a fronte di questa puntuale ricostruzione dei fatti, non ha fornito alcun elemento utile a provare che lavorasse ad un’altezza superiore rispetto a quella indicata negli accertamenti; nulla egli ha precisato circa le modalità di aggancio del pannello alla gru, la visibilità dei tiranti, l’esigenza di operare dall’altezza massima del pannello, l’altezza di eventuali putrelle o passerelle esistenti. Anche il teste F. indica l’altezza in relazione alla fase del lavoro, precisando che i pannelli hanno dei camminamenti o passerelle che non vengono mai smontati e si trovano circa a metà o più esattamente a circa 1,80 dalla parte dove non c’è il puntello e dalla parte, dove c’è il puntello, nella parte superiore. Il teste Sessa, quanto all’altezza dal suolo, ha riferito al giudice in modo estremamente evasivo, che l’operazione di imbracatura andava fatta intorno ai due-tre metri di altezza, o persino in cima; nelle dichiarazioni allegate, al ricorso del gennaio 2001 ha dato una nuova versione dei fatti riferendo che A. lavorava a sei metri, sempre contraddicendo la prima (h.m. 1,60) fatta all’ufficiale di polizia giudiziaria, l’unica attendibile, confermata dallo stesso A. e da G. appena dopo l’infortunio.
Quanto alla regola juris da applicare all’infortunio sul lavoro così ricostruito, il giudice d’appello ha rilevato che l’art. 2087 cod.civ. non prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma occorre sempre che l’evento sia riferibile a colpa del datore di lavoro, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, concretamente individuati.
Sulla base di tali elementi di fatto e di diritto ha confermato la sentenza impugnata.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’A. , con due motivi. Si è costituita con controricorso, resistendo, la s.r.l. S. . Le due compagnie assicuratrici sono rimaste intimate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2043, 2087 cod. civ.; 115 e 116 c.p.c.; 4 e 150 D.p.r. 27 aprile 1955 n. 547; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c). Censura la ricostruzione dei fatti, limitatamente alla circostanza relativa all’altezza dal suolo alla quale l’A. operava, la valutazione della relativa prova testimoniale, e le conseguenze giuridiche tratte dalla sentenza impugnata.
Il motivo non è fondato nella parte in cui censura la valutazione della prova testimoniale, e la conseguente ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito, ad esso devoluta, e congruamente motivata quanto alla attendibilità delle varie versioni fornite dai colleghi di lavoro e dallo stesso A. nell’imminenza dei fatti agli ufficiali di P.g. ed in sede giudiziaria.
Il motivo è fondato per quanto attiene ai principi giuridici applicati dal giudice d’appello ai fatti, come dallo stesso ricostruiti, ed agli effetti di tale mancata applicazione sulla valutazione giuridica complessiva dei medesimi fatti.
Come accertato dal giudice d’appello, vi sono stati in sequenza temporale due fattori: la negligenza della squadra precedente, che ha omesso di agganciare l’ultimo pannello, come era tenuta a fare; il comportamento dell’A. , che ha omesso di rilevare tale negligenza. L’infortunio non è dunque conseguenza esclusiva dell’operato dell’A. , come ritenuto dal giudice d’appello, ma, quantomeno, del concorso di questa con quello di altro dipendente, del cui operato il datore di lavoro è tenuto a rispondere, ai sensi dell’art. 2049 cod.civ.. Alla fattispecie in questione il giudice d’appello ha applicato esclusivamente il principio di diritto secondo cui l’art. 2087 cod. civ. non prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma occorre sempre che l’evento sia riferibile a colpa del datore di lavoro, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, concretamente individuati.
Tale principio, in sé esatto, non esaurisce la regola juris che questa Corte ha individuato nella norma in esame. Essa deve perciò essere riassunta nelle sue varie implicazioni. l. la responsabilità conseguente alla violazione dell’art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) (Cass. 25 maggio 2006 n. 12445), che entra così a far parte del sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda. di danno differenziale da infortunio sul lavoro proposta dal lavoratore si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 cod. civ. sull’inadempimento delle obbligazioni (Cass. 8 maggio 2007 n. 10441, Cass. 24 febbraio 2006 n. 4184).
La regola sovrana in tale materia, desumibile dall’art. 1218 cod. civ., è che il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve provare tre elementi: la fonte (negoziale o legale) del suo diritto,
il danno, e la sua riconducibilità al titolo dell’obbligazione; a tale scopo egli può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dell’onere di provare il proprio adempimento, o che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile (Cass. Sez. un. 3 0 ottobre 2001 n. 13533, cui si è conformata tutta la giurisprudenza di legittimità successiva: ex plurimis Cass. 25 ottobre 2007 n. 22361, Cass. 19 aprile 2007 n. 9351, Cass. 26 gennaio 2007 n. 1743).. Nell’applicare tali fondamentali civilistici alle complesse obbligazioni scaturenti dal contratto di lavoro, in particolare alla distribuzione degli oneri probatori per la responsabilità del danno da infortunio sul lavoro, questa Corte ha ritenuto, ad es., in caso di infortunio provocato dall’uso di un macchinario, che il lavoratore deve provare il nesso causale tra uso del macchinario ed evento dannoso, restando gravato il datore di lavoro dell’onere, di dimostrare di avere osservato le norme stabilite in relazione all’attività svolta, nonché di avere adottato, ex art. 2087, tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore (Cass. 1 ottobre 2003 n. 14645, Cass. 28 luglio 2004 n. 14270); analoga soluzione in caso, ad es., di caduta accidentale di operaio edile da palazzo in costruzione, dove nessuno sostiene che tocchi al lavoratore provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di sicurezza nell’apprestamento delle opere provvisionali.
La formulazione che si rinviene in alcune pronunce di questa Corte, secondo cui il lavoratore infortunato ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di sicurezza (Cass. 24 febbraio 2006 n. 4184, Cass. 11 aprile 2006 n. 8386, Cass. 25 maggio 2006 n. 12445, Cass. 8 maggio 2007 n. 10441, 19 luglio 2007 n. 16003) non appare conforme al principio enunciato dalle Sezioni Unite (e con l’applicazione coerente che ne ha fatto questa Sezione Lavoro nei casi sopra citati), e non può pertanto essere seguita. Il principio sopra esposto non comporta l’affermazione di una responsabilità oggettiva ex art. 2087 cod. civ., nella stessa misura in cui li allegazione del mancato pagamento di una somma di denaro non comporta una responsabilità oggettiva del debitore, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ..
La colpa del danneggiante è essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile. Vi è però una diversità di regime probatorio: nella responsabilità extracontrattuale, il danneggiato deve provare quattro elementi, e la loro connessione: il fatto, il danno, il nesso causale, e la colpa del danneggiante, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ.; nella responsabilità contrattuale l’art. 1218 (e l’art. 2087) cod. civ. pone una presunzione legale di colpa del debitore, ed opera una inversione dell’onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l’assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale anche della sua responsabilità contrattuale.
Si deve conclusivamente formulare sul punto il seguente principio di diritto: “La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 codice civile è di carattere contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 cod. civ. sull’inadempimento delle obbligazioni; da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno”.
2. Alla responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore per danni da infortunio sul lavoro per inadempimento all’obbligo contrattuale di sicurezza si applicano, oltre l’art. 1218 cod. civ. le altre regole civilistiche sull’inadempimento dell’obbligazione, ed in particolare l’art. 1227, 1^ comma, cod. civ. sul concorso di colpa del creditore, e ciò diversamente dal regime di tutela previdenziale degli infortuni sul lavoro, nei quali l’istituto assicuratore è tenuto a pagare la rendita nella sua interezza anche in caso di concorso del lavoratore nella causazione della lesione della integrità psico fisica.
La giurisprudenza di questa Corte individua la responsabilità del debitore dell’obbligo di sicurezza in termini molto severi, e può essere così riassunta: “Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedirle l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell’infortunio, e in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta” (Cass. 17 aprile 2004 n. 7328).
3. Le qualità professionali di un lavoratore (nella specie caposquadra), tenuto ad una particolare diligenza e sorveglianza sull’operato degli altri lavoratori della squadra, possono indurre il giudice del merito ad una particolare valutazione del suo concorso causale ad un infortunio a proprio danno, ma non ad escludere l’incidenza causale su tale infortunio dell’operato di altri lavoratori non dipendenti dal medesimo caposquadra, del cui operato il datore di lavoro è tenuto a rispondere, ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.. Come conseguenza della omessa applicazione dei principi sopra ricordati, il giudice d’appello ha omesso di valutare: il possibile concorso causale della negligenza della squadra precedente; l’eventuale responsabilità del dirigente che ha collaudato l’A. , lo ha introdotto sul teatro lavorativo ed ha presidiato all’inizio dei lavori della sua squadra; se, attesa la dinamica dell’infortunio – inclinazione di una cassaforma male agganciata delle dimensioni di metri 6 per 1,50, con pericolo di schiacciamento del lavoratore sotto di essa – l’altezza alla quale operava l’A. potesse avere incidenza determinante.
La sentenza impugnata, che non si è attenuta ai principi di diritto sopra riassunti o enunciati, ed è insufficiente nella valutazione dei fattori sopra cennati, va cassata, e gli atti trasmessi alla Corte d’appello di Torino, la quale deciderà la causa sulla base delle circostanze di fatto acquisite al processo, che provvedere a valutare autonomamente, applicando ad esse i principi di diritto sopra enunciati; essa provvedere altresì alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino.