Cassazione – Sezione lavoro – sentenza – 16 maggio 2008, n. 12406
Svolgimento del processo
Con ricorsi depositati in data 28 luglio 1998, poi riuniti per l’identità delle questioni trattate, Antonio De M. e gli altri litisconsorti in epigrafe esponevano che avevano goduto della indennità di mobilità, quali ex dipendenti della società S. , dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli con sentenza del 28 gennaio 1993, data a partire dalla quale erano stati poi collocati in cassa integrazione guadagni straordinaria. I suddetti lavoratori precisavano che, a seguito di contratto di affitto di azienda in data 15 luglio 1993, erano poi passati alle dipendenze della s.r.l. P. , conservando l’anzianità pregressa e continuando a svolgere le stesse mansioni negli stessi locali aziendali della S. , per poi essere licenziati nel corso del 1995 a causa della cessazione dell’attività aziendale e per essere collocati, conseguentemente, nelle liste di mobilità. Tutto ciò esposto, lamentavano che l’INPS aveva loro riconosciuto l’indennità di mobilità per un periodo inferiore a quello effettivamente spettante, in relazione alla loro rispettiva età anagrafica ed all’anzianità di servizio e, chiedevano, pertanto, la condanna dell’istituto convenuto al pagamento della residua parte dell’indennità di mobilità, da quantificarsi in corso di causa.
Il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda ed, a seguito di gravame da parte dell’INPS, la Corte d’appello di Napoli con sentenza del 16 settembre 2004, in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava tutte le domande proposte in primo grado dai lavoratori. Nel pervenire a tale conclusione i giudici d’appello – dopo avere premesso che il comma quarto dell’art. 7 della legge del 23 luglio 1991 n. 223 precisa che l’indennità di mobilità non può essere corrisposta per un periodo superiore all’anzianità maturata dal lavoratore alle dipendenze dell’impresa che ha attivato la procedura di mobilità – hanno poi statuito che nel caso di specie, essendo la procedura di mobilità seguita alla cessazione dell’attività della s.r.l. P. , alle cui dipendenze il De M. e gli altri ricorrenti avevano da ultimo lavorato, si doveva considerare corretta la decisione dell’INPS, che aveva tenuto conto – nel momento in cui aveva proceduto ad eseguire il calcolo della indennità di mobilità – della sola anzianità che i suddetti lavoratori avevano maturato presso la P.
Avverso tale sentenza Antonio De M. , Fortuna S. , Anna O. , Fortunato L. , Maria G. propongono ricorso per cassazione, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria difensiva. Resiste con controricorso l’INPS.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso Antonio De M. e gli altri litisconsorti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c., 416, 420 e 437 c.p.c., 2697 c.c. nonché vizio di motivazione, assumendo che in primo grado essi avevano dedotto una anzianità di servizio ultranovennale, circostanza di fatto non contestata nella memoria difensiva deposita in primo grado dall’INPS, sicché il giudice d’appello aveva errato nell’accogliere una eccezione sollevata solo in appello da controparte. Ed ancora il giudice d’appello aveva valutato l’eccezione sollevata sulla base di documenti esibiti tardivamente, omettendo per di più di motivare tutti i punti in questione. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113,115 e 116 c.p.c., dell’art. 7 della legge 23 luglio 1991 n. 223, dell’art. 8 del d.l. 20 maggio 1993 n. 148 e dell’art. 2112 c.c., nonché difetto di motivazione. Deducono che il suddetto art. 7 della legge n. 223 del 1991 andava interpretato ed applicato alla luce del disposto dell’art. 2112 c.c. sul trasferimento d’azienda e tenendo conto dell’art. 8 del d.l. n. 148 del 1993 che prevede un diritto di preferenza per i lavoratori, che, licenziati, hanno titolo ad essere avviati al lavoro presso aziende che localmente esercitano attività industriali sostitutive di quelle svolte dalle aziende presso le quali sono stati occupati (lavoratori per i quali l’anzianità lavorativa va considerata con riferimento anche all’attività svolta presso l’impresa di provenienza). I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perché privi di fondamento. La sentenza impugnata nel negare la fondatezza della pretesa degli attuali ricorrenti ha fatto leva sulla chiara lettera del comma 4 dell’art. 7 della legge 23 luglio 1991 n. 223, che – all’evidente fine di evitare il rischio di “programmate” precostituzioni di anzianità lavorative volte al godimento di una maggiore indennità di mobilità – statuisce testualmente che “l’indennità di mobilità non può comunque essere corrisposta per un periodo superiore all’anzianità maturata dal lavoratore alle dipendenze dell’impresa che abbia attivato la procedura di cui all’art. 4”. Formulazione questa che impedisce qualsiasi ampliamento dell’ambito operativo della disposizione in esame in ragione degli interessi sottesi alla regolamentazione della mobilità. Sul versante processuale non può poi sottacersi che, in ogni caso, la congiunzione dell’anzianità di servizio presso la S. a quella maturata successivamente presso la P. , rivendicata dai lavoratori ai sensi dell’art. 2112 c.c., non può trovare ingresso in questa sede non avendo i suddetti lavoratori indicato nel ricorso introduttivo della lite gli elementi di fatto e di diritto suscettibili di configurare un trasferimento dell’azienda (o di un suo ramo) dalla S. alla P. E nessun riferimento nel ricorso ex art. 414 c.p.c. viene effettuato alla normativa di cui alla seconda censura mossa alla decisione impugnata, e specificatamente all’art. 8 del d.l. 20 maggio 1993 n. 148, con la conseguenza che una indagine sull’applicabilità di questa norma comporterebbe un esame che, per avere ad oggetto elementi fattuali non in precedenza dedotti, non è consentita in questa sede di legittimità. Per concludere, la decisione della Corte territoriale – per avere affermato che l’INPS non aveva fatto altro che rispettare il chiaro ed inequivocabile dettato normativo di cui al comma 4 dell’art. 7 della legge n. 233 del 1991 impedendo in tal modo la corresponsione della indennità di mobilità per un periodo di anzianità superiore a quello maturato presso l’ultimo datore di lavoro – si sottrae ad ogni critica in questa sede di legittimità per risultare congruamente motivata, priva di salti logici e per avere fatto corretta applicazione dei principi regolanti la materia in oggetto. Nessuna statuizione può essere emessa in relazione alle spese del presente giudizio di cassazione stante la natura della controversia (art. 152 disp. atto c.p.c.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese del presente giudizio di Cassazione.