Cassazione – Sezione lavoro – sentenza – 20 maggio 2008, n. 12736
Svolgimento del processo
La S.p.A. Gruppo D. , acquirente del ramo produttivo della s.r.l. Linea, concessionaria Fiat, disponeva il trasferimento delle attività amministrative dalla sede di Savigliano a quella di Rosta, distante dalla prima 70 km. La dipendente S. Maria, impiegata di primo livello, non si presentava nel nuovo posto di lavoro e la società l’ha licenziata per assenza ingiustificata.
L’impugnazione del licenziamento, accolta dal primo giudice, è stata respinta dalla Corte d’appello di Torino con sentenza 20 ottobre/22 novembre 2004 n. 1388. Il giudice di appello, nella prima parte della motivazione, ha negato validità agli argomenti di carattere formale (tardività del licenziamento rispetto alla contestazione, inosservanza del termine di preavviso del trasferimento) sui quali il primo giudice aveva basato la declaratoria di illegittimità del licenziamento; nella seconda parte ha valutato le prove assunte in grado di appello e ha ritenuto legittimo il provvedimento di trasferimento per concentrazione nella sede di Rosta delle attività di direzione commerciale affidate alla S. e conseguentemente legittimo il licenziamento per rifiuto di prendervi servizio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la S. , con cinque motivi.
La società intimata si è costituita con controricorso, resistendo.
Motivi della decisione
Si devono esaminare per primi, in ordinato iter logico, il quarto e quinto motivo di ricorso, in quanto attinenti a violazioni di carattere formale suscettibili di definire il giudizio.
Con il quarto motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod.civ.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della controversia, contesta alla sentenza impugnata di avere pretermesso il criterio della interpretazione letterale per quanto attiene ai termini per l’adozione del provvedimento disciplinare. Sul punto la sentenza impugnata ha così motivato: Se è vero che la S. ha manifestato fin dalla lettera 27 dicembre 2001 la propria volontà di non ottemperare alle disposizioni della datrice di lavoro, è anche vero che nel periodo successivo si sono succeduti vari tentativi da parte datoriale di far recedere la lavoratrice dal suo proposito, in quanto, come confermato da parte appellata ancora nel corso della presente fase di giudizio, la s.p.a. Gruppo D. aveva interesse a mantenere la S. , di cui apprezzava le capacità, alle sue dipendenze: più precisamente, alla lettera della lavoratrice del 27 dicembre 2001, ha fatto seguito la disposizione datoriale del 4 gennaio per la fruizione da parte della lavoratrice di ferie arretrate e ciò proprio per darle tempo di valutare la situazione e ritornare sulla sua decisione. L’appellante rispondeva poi alla lettera del 27 dicembre con comunicazione in data 11.1.2002 con la quale l’appellante ancora cercava una composizione amichevole della vicenda auspicando il ritorno sulle sue decisioni da parte della dipendente la quale, terminato il periodo di ferie, in data 21.1.2002 avrebbe dovuto presentarsi al lavoro nella sua nuova sede di Rosta, cosa che, pacificamente, non avvenne. Dopo una consistente assenza, la s.p.a. Gruppo D. , con lettera 30 gennaio 2002 contestava alla lavoratrice l’assenza ingiustificata: la risposta difensiva della S. è datata 6 febbraio e veniva ricevuta in data 10 febbraio 2002: è errato pretendere di far decorrere, in modo meramente formale, da tale ultima data il termine di 15 giorni oltre il quale il licenziamento sarebbe da considerarsi tardivo, in quanto la datrice di lavoro replicava a tale lettera con comunicazione del 12 febbraio con la quale tentava, per l’ultima volta, di indurre la lavoratrice a recedere dalla sua posizione pena il completamento dell’iter del procedimento disciplinare ed, all’uopo, la società comunicava l’intenzione di concedere ancora cinque giorni di tempo prima di adottare provvedimenti irrevocabili. L’appellata riscontrava tale lettera, mediante il proprio legale, con ulteriore scritto successivo al 12 febbraio .. . con il quale ribadiva di non intendere trasferirsi a Rosta ed, a quel punto, con successiva comunicazione, in data 27 febbraio 2002, l’appellante procedeva alla irrogazione del licenziamento, dunque a distanza di 13 giorni dall’esame dell’ultimo scritto “difensivo” della lavoratrice. I termini appaiono dunque pienamente rispettati ed, anzi, la durata dell’iter è dovuta proprio ai ripetuti tentativi della s.p.a. Gruppo D. di indurre la lavoratrice a recedere dalle proprie posizioni ed accettare la prosecuzione del rapporto nella nuova sede: “non si può ritenere affatto tardivo un licenziamento siffatto”. La ricorrente contesta che con tale motivazione la sentenza impugnata ha violato il criterio di interpretazione letterale del contratti) collettivo. Riporta l’art. 153 commi I e II del CCNL, a norma del quale : “1. L’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni. 2. Per esigenze dovute a difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito, il termine di cui sopra può essere prorogato di 30 giorni, purché l’azienda ne dia preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato”. Rileva che la lettera della spa Gruppo D. del 12.12.2002 non proroga il termine contrattualmente previsto per l’irrogazione del licenziamento, ma si limita, come riconosciuto dalla stessa Corte, a diffidare ulteriormente la lavoratrice intimandole di ottemperare al trasferimento. Ricorda la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 9910/2004) secondo cui l’interpretazione contrattuale operata nel giudizio di merito, può essere sindacata in sede di legittimità quando il giudice, senza adeguata motivazione, abbia trascurato la lettera del contratto in violazione del principio del gradualismo, secondo il quale “deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari…quando il significato letterale delle espressioni adoperate dai contraenti sia insufficiente all’identificazione della loro comune intenzione, ed il giudice fornisca compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale”. Il motivo non è fondato. Sulla vexata questio dei canoni di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune, in relazione alla loro funzione normativa, l’orientamento più accreditato è che non esiste un principio di gerarchia tra i canoni ermeneutici, né tantomeno un preteso principio dell’autosufficienza del criterio letterale in ragione di una affermata chiarezza delle espressioni adottate nel testo contrattuale. La lettera, infatti, costituisce solo una preliminare presa di cognizione (di cui l’art. 1362 segnala l’insufficienza con la precisazione che l’interprete non deve “limitarsi al senso letterale delle parole”), che deve essere integrata attraverso gli ulteriori strumenti previsti dall’art. 1363, quali la connessione delle singole clausole ed il senso che risulta dal complesso dell’atto, atteso che la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) sono strumenti legati da un rapporto di necessità e sono tutti necessari all’esperimento del procedimento interpretativo della norma contrattuale (Cass. 8 marzo 2007 n. 5287). Nel caso di specie, tuttavia, la sentenza impugnata non ha affatto negato la valenza del criterio di interpretazione letterale, ma al contrario lo ha applicato alla fattispecie di causa, adattandolo, con interpretazione di buona fede, alla particolare fattispecie sottopostagli, in cui le parti, interessate entrambe alla continuazione del rapporto, hanno avuto un fitto scambio di corrispondenza. La norma contrattuale prevede una sequenza temporale di atti unici costituita dalla contestazione dell’ addebito, controdeduzioni del lavoratore, adozione del provvedimento disciplinare. Non è contrario ad alcun canone di ermeneutica contrattuale, ed è anzi conforme al canone di gradualismo ricordato dalla ricorrente, ed a quello di interpretazione secondo buona fede (art. 1366 cod.civ.), una interpretazione del giudice del merito, ad esso riservata, che nella fattispecie siffatta di pluralità di deduzioni hinc et inde delle proprie ragioni, di concessione di spatium deliberandi sub specie di ferie, ritenga che il termine per l’adozione del provvedimento disciplinare decorra, nel numero di giorni indicati dal contratto collettivo, dall’ultima, definitiva lettera del lavoratore. Con il quinto motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1367 cod.civ.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della controversia, contesta la violazione del canone di interpretazione letterale sotto un ulteriore profilo, in relazione all’applicazione dell’art. 88 comma III del CCNL, il quale dispone: “Il trasferimento dei lavoratori con responsabilità di direzione verrà di norma comunicato per iscritto agli interessati con un preavviso di 45 giorni ovvero di 70 giorni per coloro che abbiano famigliari a carico”. La sentenza impugnata ha ritenuto sul punto che detto termine non è perentorio, in quanto la disposizione contrattuale prevede che il trasferimento “che determini il cambiamento di residenza verrà di norma comunicato per iscritto agli interessati con un preavviso di 45 giorni ovvero di 7 0 giorni per coloro che abbiano familiari a carico”. L’espressione “di norma” sta ad indicare una possibilità, non certo un obbligo cogente, né la disposizione citata prevede sanzione alcuna nell’ipotesi del mancato preavviso a carico del datore ovvero — e di contro- particolari diritti in capo al lavoratore, al di là (e pare questa l’ipotesi massima desumibile dall’esame delle disposizioni contrattuali alla luce dei normali e generali principi di diritto) dell’ipotesi di ulteriore prolungamento del termine entro cui prendere servizio presso la sede di nuova destinazione, in caso di richiesta in tal senso del lavoratore: il dipendente, cioè, avrebbe diritto a vedersi prorogare il temine finale di trasferimento fino al 45° ovvero al 70° giorno dalla comunicazione, pena, in difetto, l’eventuale azione risarcitoria, sempre, beninteso, in ipotesi affatto differente dalla presente fattispecie nella quale lavoratrice non ha chiesto alcun differimento di detto termine né ha avanzato azioni risarcitorie di sorta, essendosi limitata a rifiutare il trasferimento ed a non presentarsi mai presso la nuova sede. Nella motivazione riportata la Corte non rinviene alcuna violazione del criterio di interpretazione letterale del contratto collettivo. Si possono ora esaminare il primo motivo, con cui la ricorrente, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della controversia, contesta la valutazione delle prove operata dal giudice d’appello, in relazione a due circostanze: la effettività della crisi aziendale presso la sede di Savigliano, il trasferimento delle funzioni cui era addetta la S. a Rosta; nonché il secondo motivo, con cui la ricorrente, deducendo nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 134 e 156, 2° comma, c.p.c, e comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della controversia, si duole della riduzione della lista testimoniale e della mancata ammissione di numerosi capitoli del ricorso introduttivo del giudizio. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, vanno rigettati. La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 9 febbraio 2004 n. 2399; Cass. Sez. Un. 27 dicembre 1997 n. 13045; Cass. Sez.Un. 11 giugno 1998 n. 5802; Cass. 22 ottobre 1993 n. 10503). Quanto alla pretesa contraddittorietà insita nel periodo “neppure è stato provato” di cui a pag. 12 della sentenza impugnata, trattasi di periodo che nulla sottrae alla compiuta valutazione di fatto che precede. Con il terzo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112 c.p.c, 7 legge 20 maggio 1970, n. 300, 3 Legge 15 luglio 1966, n. 604; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della, contesta il processo motivazionale del giudice d’appello, che ha valutato la legittimità del trasferimento, anziché quella del licenziamento. Anche questo motivo non è fondato, perché la legittimità del trasferimento costituisce il prius logico che condiziona la legittimità del licenziamento. Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente soccombente condannata alle spese processuali del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate in Euro oltre 2000 Euro per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.