La Corte di Cassazione, con la Sentenza del 5 giugno 2008 n. 22602, statuisce che le videoriprese effettuate dalla polizia giudiziaria tramite camera esterna ad un edificio, del quale inquadrano l’ingresso, i balconi e il cortile, non costituiscono intrusione nella privata dimora o nel domicilio e, pertanto, non necessitano di alcuna autorizzazione da parte della autorità giudiziaria. Emiliana Matrone
Cassazione Penale – Sentenza 5 giugno 2008 , n. 22602
FATTO E DIRITTO
Il Tribunale della libertà di Reggio Calabria, con ordinanza 22.10.2007, ha confermato il provvedimento impositivo della custodia cautelare a carico di B. V., indagato con riferimento al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. per aver fatto parte della cosca P-V.
Ricorre per cassazione personalmente il B. e deduce:
1) violazione degli artt. 14 e 15 Cost. in relazione art. 273 c.p.p. e art. 13 Cost. in ipotesi di illegittima e inammissibile utilizzazione delle riprese video di comportamenti non comunicativi in luoghi di privata dimora, nonché degli artt. 266, 271, 191, 125 c.p.p. in relaz.ne art. 24 Cost. per mancanza fisica dei decreti autorizzativi delle riprese video di comportamenti comunicativi in luoghi di privata dimora.
Il Tribunale della libertà sostiene che le videoriprese eseguite nel cortile di un’abitazione sita in contrada …omissis… sono state effettuate in luogo aperto al pubblico e che dunque tale attività di indagine non abbisognava di autorizzazione; ad abundantiam aggiunge che l’autorizzazione comunque esiste.
Così non è perchè anche il cortile di privata abitazione è luogo soggetto allo jus excludendi e dunque va considerato luogo di privata dimora.
Per altro, la giurisprudenza, anche per i luoghi aperti al pubblico ha ritenuto applicabile la nozione di privata dimora se il titolare può porre limitazioni all’ingresso di terzi; si è cioè affermata un’ampia nozione di domicilio con riferimento all’art. 614 c.p., non potendo esso esser ridotto allo spazio della sola abitazione.
Per altro il Tribunale della libertà cade in contraddizione quando, dopo aver sostenuto che trattasi di luogo aperto al pubblico, sostiene che trattasi anche di spazio riservato, protetto da impianti di videosorverglianza e oggetto di vigilanza armata.
Tutto ciò premesso, è poi noto che la giurisprudenza di legittimità ha equiparato la riproduzione filmica di comportamenti comunicativi alle intercettazioni di comunicazioni, con la conseguenza che ha ritenuto applicabile, in via interpretativa, la normativa in tema di intercettazioni di comunicazioni “foniche”.
Se ne deduce che la mancanza di autorizzazione, da parte del giudice, a tale attività di indagine renda illegittima la ripresa visiva, con conseguente inutilizzabilità del materiale raccolto a seguito di tale attività di indagine (ai sensi art. 189 c.p.p. e art. 14 Cost.).
Orbene, precisato che, almeno per quanto concerne il B., i comportamenti che si assumono documentati nelle videocassette non potrebbero neanche essere qualificati comunicativi, resta il fatto che mancano i decreti autorizzativi del GIP (atteso che essi non risultano trasmessi dal Pubblico ministero né in occasione della richiesta di misura cautelare nè al Tribunale della libertà), né possono detti decreti esser surrogati da quelli emessi dal PM (probabilmente in data 16.3, e 13.4 2007).
Al proposito il Tribunale della libertà sostiene che detti decreti siano presenti in atti, senza indicarne la collocazione e senza dar conto della motivazione che essi contengono.
2) violazione ed errata applicazione degli artt. 291 e 292 c.p.p., art. 309 c.p.p., commi 5 e 10 in relazione agli artt. 273, 268, 271, 191 c.p.p. nonché artt. 125, 292, 546 c.p.p. e artt. 13 e 111 Cost.
per l’omessa trasmissione e valutazione di atti a contenuto sostanziale esposti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare e per omessa valutazione, di specifici motivi di gravame contenuti nella memoria con allegati, depositata in sede di riesame.
In ogni caso va rilevata la mancata allegazione dei supporti video relativi al materiale filmico, con le note conseguenze in tema di legittimità della disposta misura cautelare.
Tale mancata allegazione si desume innanzitutto dal fatto che le immagini furono depositate da parte della polizia giudiziaria negli Uffici della Procura della repubblica a seguito di richiesta avanzata dalla difesa e quindi dopo remissione della misura cautelare.
Ne consegue che esse non sono mai state trasmesse al GIP; in secondo luogo va rilevato che, nell’indice degli atti trasmessi al Tribunale della libertà, non vi è traccia della presenza del materiale relativo alle videoriprese.
Di esse tuttavia è menzione sia nell’ordinanza del GIP, che in quella del Tribunale della libertà. La circostanza, rappresentata al Collegio cautelare, ha ottenuto una risposta incongrua che si fonda sulla inappropriata citazione di un precedente della Suprema Corte (ASN 199701477-RV 208137), atteso che la equiparazione delle videoriprese a documenti ex art. 234 c.p.p. è corretta solo nel caso in cui tali documenti siano relativi ad attività extraprocessuale, vale a dire non attestino il compimento di atti di indagine.
Peraltro il vigente assetto normativo, vieta di porre a fondamento di provvedimenti limitativi della libertà personale l’annotazione riassuntiva da parte della polizia giudiziaria, relativa al contenuto di conversazioni intercettate, quando tale annotazione non sia accompagnata dalle relative registrazioni.
Ebbene non diversamente deve ritenersi nel caso di registrazioni audiovisive.
La intercettazione invero è utilizzabile, non solo se è stata effettuata nei casi consentiti dalla legge e con le relative modalità (decreti autorizzativi), ma anche se vi sia un verbale che documenti le operazioni e la registrazione.
Il giudice deve dunque operare un sindacato sull’an e un sindacato sul quomodo.
Altrimenti il contraddittorio sugli indizi (ex art. 273 c.p.p., comma 1) assume modalità meramente fittizie perchè si sviluppa con riferimento a un oggetto non presente in atti.
Tutto ciò premesso, si deve rilevare come risulti assolutamente illogico sostenere, come fa il Tribunale della libertà, che le riprese video possono esser valutate anche se non è stato effettuato il deposito delle cassette contenenti le registrazioni e quindi la loro messa a disposizione delle parti.
Nel caso in esame, il giudice (GIP e Tribunale della libertà) non ha mai preso visione delle immagini, ma, in presenza di una contestazione da parte della difesa, (fondata per altro sul parere del proprio Consulente tecnico), relativa alla intelligibilità delle stesse, ha espresso una valutazione; il che non può non tradursi, oltretutto, in sostanziale mancanza di motivazione.
Come se non bastasse, va rilevato che proprio dalla predetta consulenza tecnica emerge che in realtà sono state depositate (al PM) solo due tra le otto riprese effettuate (vale a dire quelle relative ai giorni 27.6 e 15.7.2007), contenenti immagini che, per la loro scarsissima qualità, permettono di distinguere solo le sagome delle persone e non i tratti somatici, di talché è anche impossibile affermare se il soggetto ripreso sia, ad es., un uomo o una donna.
3) violazione ed errata applicazione dell’art. 416 bis c.p. in relazione agli artt. 273, 125 e 546 c.p.p. per assoluta mancanza di elementi idonei a integrare la gravità indiziaria necessaria per la partecipazione a un’associazione di stampo mafioso.
Il Tribunale della libertà, dopo una lunga premessa, che dovrebbe riguardare gli antefatti della vicenda per là quale si procede, giunge alla conclusione, sulla base del solo contenuto delle ricordare immagini registrate, della intraneità del B. al sodalizio mafioso.
Ora, quale che sia il significato che voglia darsi (date le oscillazioni giurisprudenziali) alla espressione “far parte” di un’associazione, il procedimento impugnato non chiarisce quale sia la condotta sintomatica addebitata all’indagato.
Si sostiene che lo stesso avrebbe fatto da collegamento tra le persone, di fatto asserragliate nel predetto fabbricato in contrada …omissis… (che lì si sarebbero ritirate per proteggersi dall’offensiva che presumibilmente i loro avversari stavano per sferrare) e gli altri adepti al clan, ma, in mancanza di intercettazioni e di attività di appostamento-pedinamento che riguardi il B., non si comprende donde il Tribunale della libertà abbia potuto trarre tale convincimento.
Il fatto che egli entrasse e uscisse dalla palazzina per informare i rifugiati dello sviluppo della faida e per ricevere direttive sui traffici illeciti del clan una mera illazione dei giudicanti, che danno corpo ai loro sospetti.
Per altro, come anticipato, data la pessima qualità delle videoriprese, non è possibile affermare che esse riguardino (anche) il B., ma, anche se così fosse, esse nulla di rilevante documentano (neanche un colloquio visivo fra l’indagato e gli altri, mentre il preteso occultamento del B. dietro una siepe; prima di fare ingresso, nell’edificio, altro non e che il suo passare sotto un rampicante).
Di talché la motivazione appare illogica, se non addirittura assente, mentre poi il dictum del TdR è addirittura smentito dalle emergenze processuali, atteso che il giudici della cautela affermano che l’indagato non ha fornito alcun valido elemento di discolpa, laddove è emerso che il B. ha chiarito che egli aveva conoscenza e contatti con G.A., abitante nel predetto caseggiato, perchè insieme gestivano un circolo ricreativo.
4) violazione dell’art. 274 c.p.p. e carenza di motivazione in ordine alla pretesa sussistenza di esigenze cautelari, atteso che il Tribunale della libertà non spiega sulla base di quali elementi è stata ricavata la opinione della sicura pericolosità sociale di un incensurato.
In data odierna sono stati depositati (ovviamente in udienza) motivi nuovi con i quali si deduce:
1) violazione di legge in relazione all’art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 309 c.p.p., per non essere stato il B. tradotto in occasione dell’udienza del Tribunale della libertà per consentirgli di partecipare ad essa.
Lo stesso invero fu solo ammesso a rilasciare dichiarazioni al Magistrato di sorveglianza competente con riferimento alla località nella quale il ricorrente era detenuto, il che contrasta con consolidata giurisprudenza di legittimità che ha affermato il diritto dell’indagato, anche se detenuto altrove, di partecipare all’udienza camerale di riesame, 2) violazione di legge in relazione all’art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, 3) violazione di legge in relazione all’art. 273 c.p.p., comma 1 bis e all’art. 309 c.p.p., comma 5, ribadendosi quanto già dedotto col ricorso principale in ordine alla mancata disponibilità (e al conseguente mancato esame) da parte del Tribunale della libertà delle videocassette in questione.
La prima censura è infondata.
Invero la risalente giurisprudenza di questa Corte (ASN 197807279-RV 129288) ebbe a stabilire che i cortili e gli orti”, destinati al servizio ed al completamento dei locali di abitazione, rientrano nel concetto di appartenenza di cui all’art. 614 c.p., comma 1 ed è irrilevante, ai fini della sussistenza del reato previsto da tale norma, che le “appartenenze” siano di uso comune a più abitazioni, spettando il diritto di esclusione da quei luoghi a ciascuno dei titolari delle singole abitazioni.
Più recentemente (ASN 200516189-RV 233590) è stato ritenuto, in tema di fraudolenta apprensione di immagini visive e successiva catalogazione su supporto magnetico, che il reato ex art. 615 bis c.p. fosse integrato per il fatto che una telecamera era stata collocata sull’androne di accesso ai garage condominiali, considerando tali luoghi come appartenenze ai sensi art. 614 c.p..
è tuttavia, ancor più recentemente, a tale valutazione, per c.d.
astratta della natura del luogo, se ne è sostituita una concreta, vale a dire una valutazione effettuata con riferimento, non tanto alle caratteristiche strutturali del luogo stesso; quanto piuttosto alla sua concreta funzione in relazione alla vita sociale.
Così è stato ritenuto (ASN 200705591-RV 236120) che siano probatoriamente utilizzabili le videoregistrazioni effettuate dalla persona offesa di reiterati atti vandalici e di danneggiamento ai danni della porta del proprio appartamento, della porta dell’attiguo garage e della cassetta postale antistante l’ingresso dell’appartamento, dal momento che l’area interessata dalle videoregistrazioni, operate con telecamera sita all’interno dell’appartamento, ricade nella fruizione di un numero indifferenziato di persone e non attiene alla sfera di privata dimora di un singolo soggetto; e, con specifico riferimento a riprese effettuate dalla pubblica via verso l’ingresso di un privato edificio, si è opinato che vadano considerate legittime – e pertanto utilizzabili – le videoregistrazioni dell’ingresso e del piazzale di accesso a un edificio sede dell’attività di una società commerciale, eseguite dalla polizia giudiziaria dalla pubblica strada, mediante apparecchio collocato all’esterno dell’edificio stesso, non configurando esse un’indebita intrusione né nell’altrui privata dimora, né nell’altrui domicilio, nozioni che individuano una particolare relazione del soggetto con il luogo in cui egli vive la sua vita privata, in modo da sottrarla a ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza (ASN 200637530-RV 235027).
Orbene, nel caso in esame, le videoriprese si sono svolte tramite camera esterna all’edificio, del quale inquadravano l’ingresso, i balconi e il cortile.
Deve quindi escludersi una intrusione, tanto nella privata dimora, quanto nel domicilio, con riferimento a quanto appena sopra scritto.
Certamente non rientrano in simile ambito i luoghi ripresi nel caso concreto, che correttamente vanno qualificati come esposti al pubblico, in quanto caratterizzati da uno spazio soggetto alla visibilità di coloro che vi si trovino.
La percettibilità all’esterno fa venir meno le ragioni della tutela del luogo, anche se di proprietà dei privati, tanto che, nella fattispecie, come già ritenuto, potrebbe sostanzialmente equipararsi l’impiego della videocamera a una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa, che la legge delinea per la polizia giudiziaria, senza dunque necessità alcuna di autorizzazione da parte della AG (ASN 200637530 – RV 235027, in coerenza con SU sent. n. 26795 del 2006, ric. Prisco, RV 234270).
Tale spazio peraltro non potrebbe essere assimilato a quegli ambienti nei quali è garantita la intimità, cui fa riferimento la ricordata sentenza SU (es. bagni pubblici, camerini e prive di un night club, RV 234269), con riferimento ai quali, per l’effettuazione di videoriprese necessita, seconda la predetta pronunzia, l’autorizzazione motivata dell’AG (e quindi anche “semplicemente” del PM, autorizzazione che, nel caso in esame, per stessa ammissione del ricorrente, sussiste).
Orbene trattandosi di riprese filmiche relative a comportamenti certamente non comunicativi, ma tenuti al di fuori del domicilio o di luoghi ad essi assimilabili esse non ricadono, come viceversa ritiene il ricorrente, nell’ipotesi di cui alla ricordata sentenza SU – RV 234270 (n. 26795/06).
Lo seconda censura anche è infondata.
Al proposito va ribadito il principio in base al quale i verbali di polizia giudiziaria relativi alla attività svolta, effettuando riprese filmate dei movimenti degli indagati possono esser valutati, per la ricostruzione del quadro indiziario ai fini della emissione di una misura cautelare, alla stregua di un qualunque altro elemento desumibile dagli atti della polizia giudiziaria, indipendentemente dal formale deposito del supporto magnetico (videocassette et similia) contenenti le registrazioni e della loro messa a disposizione delle parti;
l’acquisizione di tale materiale, è necessaria solo per l’inserimento nel fascicolo del dibattimento, e per la conseguente utilizzazione come prova in sede di giudizio, mentre, in relazioni alla fase delle indagini preliminari, caratterizzata da esigenze di rapidità ed essenzialità delle forme e connotata da costante evoluzione del materiale probatorio, non può invocarsi una indebita compromissione del diritto di difesa, le cui modalità vanno ragionevolmente adattate ai diversi momenti e alle peculiarità del rito (per le riprese filmate, cfr. ASN 200318239-RV 225188 e, più in generale, per quanto attiene alla mancata trasmissione del supporto informatico di attività comunque riassuntivamente documentata: ASN 199903,289 – RV 213727; ASN 200539486 – RV 232672; ASN 200008778 – RV 218187).
Sotto altro aspetto è lo stesso ricorrente che sottolinea come le suddette videocassette (rectius parte di esse) non sono state trasmesse al Tribunale della libertà, ma, in realtà, nemmeno al GIP, di talchè, neanche sotto tale aspetto, l’omissione è rilevante (ASN 200113042 – RV 218583).
La terza censura viceversa è fondata, in quanto non è stato chiarito, con adeguata motivazione, “agganciata” a concreti dati fattuali, quale sia la condotta effettivamente addebitata al ricorrente.
Il provvedimento del Tribunale della libertà si diffonde per 19 pagine nel ricostruire gli antefatti storici alla vicenda che occupa; affronta quindi i problemi sulla utilizzabilità delle videoriprese e passa infine a descrivere la condotta del B. (da pag. 23 a pag. 29).
In particolare, alle pag. 26 e 27 risultano sintetizzati “gli ingressi e le uscite” dell’indagato dal fabbricato più volte sopra indicato, considerato il bunker dei P-V.
Per la precisione si tratta di otto episodi (dall’aprile al luglio), uno dei quali è addebitato solo dubitativamente al B. (18 maggio).
Dai tempi e dai ritmi delle “entrate e delle uscite” il Tribunale della libertà “evince” (pag. 28) che B. si recasse nel fabbricato per ricevere ordini e per trasferirli all’esterno, con particolare riferimento all’acquisto di armi; gli si attribuisce anche funzione di scorta di alcuni associati e dunque, conclusivamente, di soggetto cooperante nella strategia delittuosa addebitabile al clan. Orbene, il Collegio cautelare non chiarisce in base a quali elementi e/o considerazioni logiche ha desunto da alcuni dati fattuali (la frequentazione per 7 ovvero 8 volte in quattro mesi del fabbricato in questione) la fondata ipotesi che B. fosse un messaggero della associazione malavitosa che, si assume, nell’immobile si era asserragliata.
Né vale affermare che lo stesso non ha fornito adeguata spiegazione (che, per altro, sulla base di quanto si legge nel ricorso, consisterebbe nella comunanza di affari leciti con un abitante del sito: G.A.), perchè, ovviamente compete ei qui dicit ei qui negat chiarire il senso e il contenuto di un’accusa.
Invero è dato di comune esperienza (oltre che portato della logica e del buon senso) che anche (persino) un mafioso, nel corso della sua giornata, si dedica ad attività lecite o comunque neutre, di talché non può essere attribuito a chiunque abbia contatti (per altro non frequentissimi) con lo stesso, per ciò solo, il crisma della mafiosità “per contagio”.
Ciò poi a voler tacere del fatto che, con esclusione di alcuni casi, neanche è rimasto accertato con quale dei personaggi ospitati nell’immobile in via …omissis… il B., una volta entrato, si fosse incontrato.
Va infine – e per completezza – osservato che a pag. 25 del provvedimento impugnato -, si legge che nel fabbricato in questione sono stati visti entrare anche soggetti armati, ma, escluso che il B. fosse uno di questi (altrimenti, c’è da credere, il Tribunale della libertà lo avrebbe affermato), andrebbe chiarito, essendo circostanza sintomaticamente non irrilevante, se, a volte, lo stesso si sia accompagnato – nelle sue “visite” in via …omissis… – a soggetti armati.
Per tutte le ragioni spora esposte, rimanendo assorbite le ulteriori censure, si impone annullamento con rinvio perchè il Tribunale della libertà di Reggio Calabria, sciolti i nodi sopra evidenziati, decida di conseguenza.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..
P. Q. M.
la Corte annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame; manda alla Cancelleria per le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2008