Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 26 novembre 2008, n. 28170
MOTIVI DELLA DECISIONE
Dalla lettura della sentenza impugnata e del ricorso contro di essa proposto emerge in fatto che in data 16 ottobre 2006, P. Sergio ha presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo domanda d’iscrizione nel Registro Speciale dei praticanti avvocati.
Considerato che il richiedente prestava servizio come carabiniere, il Consiglio dell’Ordine l’ha dapprima iscritto con riserva di verifica dell’eventuale esistenza di una causa d’incompatibilità e poi, decorso il primo semestre di pratica, l’ha cancellato in applicazione dell’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933.
Il P. ha impugnato la relativa delibera davanti al Consiglio Nazionale Forense deducendo, per quanto ancora interessa in questa sede, la mancata concessione di un termine a difesa non inferiore a dieci giorni, l’inestensibilità delle ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933 ai praticanti non ammessi al patrocinio e, in ogni caso, l’avvenuta rimozione di qualunque occasione di sospetto mediante la richiesta di esonero dalla pratica professionale in conseguenza della partecipazione alla Scuola di specializzazione delle professioni forensi di Brescia.
Con la sentenza in epigrafe indicata, il Consiglio Nazionale Forense ha disatteso la prima doglianza sottolineando in proposito che pur non essendogli stato assegnato il termine di legge, il P. era ugualmente comparso davanti al Consiglio locale senza chiedere alcun rinvio ed, anzi, difendendosi compiutamente nel merito.
Ciò posto, il Consiglio Nazionale ha poi ricordato che in base all’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933, l’iscrizione all’albo era incompatibile con qualsiasi impiego pubblico e comportava dei doveri che riguardavano tutti gli avvocati e i praticanti, a proposito dei quali l’art. 1 del d.P.R. n. 101/1990 aveva puntualizzato che il tirocinio doveva essere svolto con assiduità, diligenza, lealtà e riservatezza ed implicava il compimento delle attività proprie della professione indipendentemente dall’ammissione o meno alla difesa.
Tenuto conto di quanto sopra e non dimenticato che l’obbligo di denuncia che il P. aveva come carabiniere contrastava con i doveri di segretezza e fedeltà cui era, invece, sottoposto l’avvocato, il Consiglio Nazionale ha rigettato il gravame, aggiungendo che “l’iscrizione alla Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali del dottor P. non può costituire espediente utile ad aggirare una situazione di incompatibilità che, nei fatti, sussiste per le ragioni sopra esposte, fino a quando il ricorrente è dipendente dell’Arma dei Carabinieri”.
Il P. ha proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi, con il primo dei quali ha dedotto la “violazione dell’art. 24 della Costituzione e dell’art. 45 r.d. 22/1/1934, n. 37” in quanto la mancata concessione di un adeguato termine a difesa costituiva causa di nullità della deliberazione di cancellazione indipendentemente dal comportamento tenuto dall’iscritto.
Con il secondo motivo, il P. ha invece dedotto la “violazione e falsa applicazione degli artt. 13 e 14 del RD 22/1/1934, n. 37 nonché eccesso di potere; violazione e falsa applicazione dell’art. 3 RDL n. 1578/1933, violazione degli artt. 2, 3, 4 e 41 della Costituzione”, in quanto le incompatibilità previste dall’art. 3 sopraindicato riguardavano unicamente l'”esercizio della professione” di avvocato, tant’era che per estenderle ai soli praticanti ammessi al patrocinio, il Legislatore aveva sentito la necessità di emanare una disposizione espressa che dimostrava, a contrariis, la loro inapplicabilità agli altri praticanti.
Con il terzo motivo, il P. ha inoltre dedotto “la violazione e falsa applicazione dell’art. 14 comma 3 del R.D. 22/1/1934, n. 37 nonché dell’art. 17 comma 114 della Legge n. 127/1997 e dell’art. 1 del D. M. 475/2001. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, perché il Consiglio Nazionale non avrebbe potuto liquidare come un mero espediente la sua richiesta di avvalersi dell’esonero dall’attività di studio e dalle udienze, in quanto con essa era stata comunque fugata qualsiasi perplessità e, quindi, anche quella specificamente legata al suo lavoro di carabiniere.
Con il quarto motivo, il P. ha infine dedotto “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto il Consiglio Nazionale non si era minimamente pronunciato sull’ulteriore obiezione di assoluta disparità di trattamento che il Consiglio locale aveva posto in essere decidendo il suo caso in maniera totalmente difforme da quanto aveva fatto in una vicenda simile, in cui un agente di P. S. era stato regolarmente ammesso allo svolgimento della pratica ed al successivo esame di abilitazione.
Così riassunte le doglianze del P., osserva il Collegio che il problema posto con il primo motivo è già venuto all’esame delle Sezioni Unite, che con sentenza n. 831/1971 l’hanno risolto nel senso di attribuire efficacia sanante al comportamento del professionista, che pur avendo ricevuto un termine inferiore a dieci giorni, si astenga dall’eccepirlo davanti al Consiglio dell’Ordine.
Trattandosi di affermazione che il Collegio condivide e ribadisce, il primo motivo del ricorso va rigettato con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “mirando a consentire la preparazione di un’adeguata difesa, la concessione di un termine inferiore a quello previsto dall’art. 45 R. D. 22/1/1934, n. 37 integra una nullità sanabile dal comportamento dell’interessato che comparendo davanti al Consiglio dell’Ordine, non se ne dolga ma si limiti ad esporre le proprie ragioni nel merito”.
Passando adesso all’esame del secondo motivo, giova premettere che al pari del Consiglio locale, anche quello nazionale non si è spinto affatto a sostenere che la qualità di carabiniere costituiva una causa d’incompatibilità ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1993 [recte: 1933 – n.d.r.], ma si è limitato ad osservare che il lavoro svolto dal P. (ed i doveri da esso derivanti) rappresentavano la riprova evidente della sua inconciliabilità con lo svolgimento della pratica professionale.
L’attività di agente di P.G. del P. non ha costituito, cioè, un distinto motivo di rigetto del gravame, ma un semplice argomento di supporto dell’unica ratio decidendi che, come già detto, è consistita unicamente nel fatto che l’interessato era un dipendente pubblico e, come tale, insuscettibile d’iscrizione ai sensi dell’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1993 [recte: 1933 – n.d.r.].
Questo, e non altro, essendo stato il contenuto della decisione del C.N.F., occorre accertare se la normativa di settore estende davvero le cause d’incompatibilità pure ai praticanti non ammessi al patrocinio.
A questo proposito, non va dimenticato devesi rilevare che dovendo contribuire a dare concreta attuazione al diritto di difesa, l’avvocato ha bisogno di poter espletare il proprio mandato in piena indipendenza di giudizio e d’iniziativa e, cioè, al riparo da condizionamenti giuridici o di fatto che potrebbero influenzarlo in senso difforme dall’interesse del cliente (v., in tal senso, anche Corte cost. 2001/189).
A tal fine, e salvo alcune eccezioni che qui non rilevano, l’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933 stabilisce, fra l’altro, che l’esercizio della professione di avvocato è “incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d’Italia, del gran magistero degli ordini cavallereschi, del Senato, della Camera dei deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione od istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle provincie e dei Comuni.
È infine incompatibile con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”.
Sia il tenore letterale delle parole usate che lo scopo da esse perseguito dimostrano che trattasi di norma collegata all’esercizio concreto della professione, di cui vuole garantire l’autonomia, come del resto ultimamente riaffermato da queste stesse Sezioni Unite con sentenza n. 19496/2008 e, soprattutto confermato dagli artt. 1 e 13 del r.d. n. 37/1934, i quali riconoscono l’applicabilità dell’art. 3 r.d.l. n. 1578/1933 solo con riferimento ai praticanti ammessi al patrocinio.
Tenuto allora conto delle surricordate finalità della norma nonché del fatto che, secondo i principi, l’esplicita previsione della incompatibilità soltanto per i praticanti ammessi al patrocinio equivale ad indiretta, ma indubbia esclusione della sua applicabilità nei confronti dei praticanti che non svolgono attività difensiva, può senz’altro concludersi nel senso che nel sistema inizialmente tracciato dal Legislatore quest’ultimi potevano svolgere la pratica pure nella ipotesi in cui si fossero trovati in una delle condizioni previste dall’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933.
Ciò posto, rimane da chiedersi se tale sistema non sia stato per caso innovato dall’ art. 1 del d.P.R. n. 101/1990, che come ricordato dal Consiglio nazionale ha tenuto a puntualizzare che la pratica legale “comporta il compimento delle attività proprie della professione”.
La risposta al quesito, però, non può essere che negativa ove si consideri che il d.P.R. n. 101/1990 non ha parificato affatto le due categorie di praticanti, ma le ha mantenute distinte preoccupandosi, per di più, di chiarire che i cambiamenti da esso apportati comportavano unicamente la sostituzione degli artt. 5, 6, 7, 9 e 71 del r.d. n. 37/1934, ma non degli artt. 1 e 13 che, come si è visto, estendono le incompatibilità previste per gli avvocati ai soli praticanti ammessi al patrocinio.
Dovendo essere perciò apprezzata alla luce della perdurante vigenza delle predette disposizioni, con le quali va necessariamente armonizzata, la precisazione contenuta nell’art. 1 del d.P.R. n. 101/1990 finisce col perdere ogni capacità espansiva dell’art. 3 r.d.l. n. 1578/1933 che, peraltro, data pure la difficoltà di derivare da generiche disposizioni l’introduzione (implicita) di limitazioni o doveri prima inesistenti, non avrebbe potuto esserle riconosciuta nemmeno in caso di sua lettura separata dal contesto che, giova ribadirlo, non ricollega l’incompatibilità al mero compimento di atti tipici della professione, bensì all’assunzione ed allo svolgimento del mandato difensivo, che i praticanti non ammessi al patrocinio non ricevono.
Il Consiglio Nazionale ha tuttavia dubitato della logicità dell’anzidetta interpretazione, sottolineando che il riconoscimento del diritto del P. all’iscrizione condurrebbe al paradosso di un praticante che in tale qualità potrebbe venire a conoscenza di fatti che sempre come praticante dovrebbe tenere riservati, mentre come carabiniere avrebbe l’obbligo di denunciare.
Il rilievo è certamente suggestivo, ma non insuperabile perché anche a prescindere da quanto già osservato dalla succitata Corte cost. 2001/189 in ordine al “conflitto di appartenenze” introdotto dall’art. 1, commi 56 e 56-bis, della l. n. 662/1996, si tratterebbe pur sempre di una mera eventualità comunque scongiurabile mediante l’adozione di opportuni accorgimenti di fatto fra cui, per esempio, quello di circoscrivere la pratica a determinati settori o a casi preventivamente valutati dall’affidatario.
Il pericolo prospettato dal Consiglio Nazionale sembra, cioè, idoneo a dimostrare soltanto la possibilità di (seppur non trascurabili) problemi pratici, ma non l’esistenza di una vera e propria preclusione di carattere generale ed astratto che, oltretutto, non riguarderebbe tutti i dipendenti pubblici e privati, ma soltanto una ristretta cerchia di persone, per cui non potrebbe essere valorizzata né per inferirne l’incompatibilità dei soli agenti ed ufficiali di P.G. (dato che l’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933 contiene una previsione di carattere generale, non limitata ad una ristretta categoria di soggetti) né, meno che mai alla totalità dei lavoratori, dato che così facendo si arriverebbe alla conseguenza (questa sì sproporzionata ed illogica) di “colpire” un’intera classe per rimediare ad un inconveniente proprio di una minima parte di essa.
Anche per tali motivi, dunque, la soluzione del Consiglio nazionale suscita forti perplessità che aumentano ancora di più ove si consideri che precludendo, a chi ne avrebbe i mezzi, la possibilità di migliorare soltanto perché si è trovato nella condizione di aver dovuto accettare un lavoro insoddisfacente o non più adeguato, introduce uno sbarramento non esattamente in linea con i valori fondamentali dell’ordinamento.
Né varrebbe in contrario replicare che, pertanto, l’estensione della incompatibilità ai praticanti non comporterebbe alcun sostanziale sbarramento, ma una semplice anticipazione di quanto sarebbe, dopo, inevitabile, visto che per iscriversi all’albo ed esercitare la professione, il praticante che abbia superato l’esame deve necessariamente dimettersi dal lavoro pubblico o privato eventualmente svolto.
L’obiezione non potrebbe essere infatti condivisa non soltanto per la gravità del rischio che si chiederebbe di correre all’interessato (chiamato a rinunciare ad un lavoro certo e remunerato per svolgere un lungo apprendistato, non sempre adeguatamente retribuito, e sostenere infine una prova che potrebbe anche non superare), ma anche per la non infrequente possibilità che taluno decida di affrontare la pratica e l’esame di avvocato non in vista di un immediato cambio di attività, ma per precostituirsi il titolo necessario al suo futuro esercizio, magari dopo il raggiungimento di una sufficiente anzianità contributiva (e ciò senza tenere conto delle possibilità offerte dal surricordato art. 1, commi 56 e 56-bis, della l. n. 662/1996, che ha rimosso le incompatibilità fra impiego pubblico part-time e professioni intellettuali).
Il secondo motivo del ricorso dev’essere pertanto accolto, con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “trattandosi di preclusioni volte a garantire l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale, le incompatibilità di cui all’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933 non si applicano ai praticanti non ammessi al patrocinio, che possono di conseguenza essere iscritti nell’apposito Registro Speciale anche se legati da un rapporto di lavoro con soggetti pubblici o privati”.
Ne deriva l’assorbimento del terzo e del quarto motivo e la cassazione della decisione impugnata senza rinvio degli atti al giudice a quo, perché non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito mediante l’annullamento della delibera del Consiglio dell’Ordine di Bergamo di cancellazione del P. dal Registro Speciale dei praticanti avvocati.
Avuto riguardo alla novità della questione, stimasi equo compensare fra le parti le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo, dichiara assorbiti il terzo e il quarto, cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, annulla la delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo di cancellazione del P. dal Registro Speciale dei praticanti avvocati, compensando le spese dell’intero giudizio fra le parti.