La Cassazione, con la Sentenza n. 19024/2005, affronta il tema della “nullità virtuale” in relazione alla disciplina dei contratti su strumenti finanziari.
A seguito delle perdite causate da alcuni contratti di compravendita a termine di valuta, un investitore conveniva in giudizio la banca con cui aveva stipulato tali contratti, sostenendo la nullità per diversi ordini di motivi:
1) perché «si configuravano, per le modalità in cui erano stati effettuati, quali atti di negoziazione di valori mobiliari, la cui stipulazione era riservata alle società d’intermediazione mobiliare»;
2) perché «la banca non si era attenuta alle prescrizioni poste a carico degli operatori nel settore della commercializzazione di valori mobiliari dagli artt. 5, 6 e 11», della legge 2 gennaio 1991, n. 1; e ciò al fine di ottenere la restituzione degli importi versati in dipendenza di tali operazioni.
La banca convenuta sosteneva la totale infondatezza della domanda attrice, argomentando nel modo che segue:
3) che i contratti «non avevano dato luogo a negoziazione di valori mobiliari»;
4) che, in ogni caso, «era stata autorizzata, a suo tempo, all’esercizio di attività di intermediazione mobiliare»;
5) che «l’asserita violazione dei precetti dettati dagli artt. 5, 6 e 11, l. 1/91, oltretutto affermata in termini assolutamente generici, non trovava alcuna rispondenza nella realtà».
Il Tribunale di Torino respingeva la domanda attorea, per i seguenti motivi:
a) «la banca era stata autorizzata all’esercizio dell’attività di intermediazione mobiliare» e, quindi, era legittimata alla stipulazione di contratti su strumenti finanziari;
b) l’attore non aveva fornito nessuna prova delle violazioni denunziate;
c) «tali violazioni, se sussistenti, avrebbero comportato, per la banca, conseguenze solo sul piano risarcitorio e sanzionatorio, senza incidere sulla validità dei contratti posti in essere».
Nei medesimi termini, si esprimeva anche il Giudice di secondo grado, il quale rigettava l’appello.
La Suprema Corte di Cassazione finisce per confermare la sentenza della Corte d’appello, stabilendo quanto segue:
· La violazione di norme imperative, considerata dall’art. 1418, comma 1, c.c. quale causa di nullità del contratto, postula che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, comma 2, c.c.)
· Va esclusa la nullità del contratto quando contrari a norme imperative siano comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione dello stesso, salvo che il legislatore la preveda espressamente.
· Non determina nullità del contratto per difetto di accordo, in forza del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2 e 1325, n. 1, c.c., la mancanza di informazioni che non riguardino direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma solo elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione.
· La responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative, o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio informativi) riconducibili a quel dovere, non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido o inefficace; bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto.