Cassazione civile, sez. V tributaria, 8 settembre 2008, n. 22572
Fatto
In data 19.10.1998, veniva notificata allo Studio Pellegrini e Associati la cartella esattoriale n. (OMISSIS) mediante la quale la società I.C.A. S.r.l., concessionaria del Comune di Trento per l’imposta pubblicità ed affissioni, provvedeva ad accertare un’imposta per pubblicità (targa professionale) per un onere tributario complessivo di L. 202.000.
Avverso tale atto esattoriale veniva proposto tempestivo ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria di I grado di Trento, notificando il ricorso, oltrechè alla I.C.A. S.r.l., anche al Comune di Trento, ente titolare del rapporto controverso, giudicato litisconsorte necessario.
La Commissione adita accoglieva il ricorso, condividendo l’assunto del contribuente in forza del quale vi sarebbe una sostanziale e determinante diversità fra la normativa vigente, nella fattispecie il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, ed il previgente D.P.R. n. 639 del 1972, consistente nel fatto che la nuova disciplina normativa individuerebbe, quale presupposto impositivo non la mera materiale esposizione della targa, ma la diffusione di un messaggio pubblicitario; e la targa professionale, oggetto della controversia, non potrebbe ritenersi, per natura e struttura, in grado di diffondere alcun messaggio pubblicitario.
Avverso tale decisione, la I.C.A. S.r.l. proponeva appello dinanzi alla Commissione Tributaria di 2^ grado di Trento, omettendo la notifica del medesimo al Comune di Trento ed eccependo l’errata applicazione ed interpretazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, operata dal giudice di prime cure.
La Commissione appellata, con la sentenza n. 64/01/01 pronunciata il 21 novembre 2001 e depositata il 28 dicembre 2001, accoglieva l’appello, sul rilievo che la targa professionale assolve il compito di rendere pubblico l’esercizio dell’attività svolta nel luogo in cui essa è affissa. Inoltre la fattispecie non era sussumibile all’interno del dispositivo normativo di cui al citato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17 e art. 7, comma 2.
L’appellato veniva, altresì, condannato al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, calcolate in L. 4.000.000.
Avverso tale sentenza, lo Studio Pellegrini e Associati proponeva ricorso per cassazione sorretto da tre motivi.
Resisteva con controricorso l’intimata società concessionaria, corroborato da memoria ex art. 378 c.p.c., con allegati precedenti giurisprudenziali.
Diritto
Con il primo motivo del ricorso, lo Studio Pellegrini e Associati ha lamentato “violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 – art. 331 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 2, art. 102 c.p.c.: mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario: error in procedendo – nullità della sentenza”.
La sentenza di secondo grado sarebbe affetta da nullità, dal momento che sia l’appellante che il giudice di secondo grado avrebbero omesso di notificare l’atto di appello al Comune di Trento, litisconsorte necessario in quanto ente creditore del rapporto controverso, nonché chiamato in causa dall’odierno ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.
Infatti, a mente del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, il ricorso in appello dovrebbe essere proposto nei confronti di tutte le parti che abbiano partecipato al giudizio di primo grado, intendendosi come parti tutti coloro cui sia stato notificato il ricorso introduttivo.
Inoltre, troverebbe legittimo ingresso, anche nel rito processuale tributario, la fattispecie di cui all’art. 331 c.p.c., comma 1, come espressamente precisato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49, per cui nel processo dinanzi alle Commissioni Tributarie sarebbero applicabili le disposizioni generali sulle impugnazioni dettate dal codice di rito civile, con esclusione dell’art. 337.
Conseguentemente, oltre all’omessa notifica dell’appello al Comune di Trento, terzo chiamato in causa nel precedente grado di giudizio, vi sarebbe da rilevare l’omessa integrazione, ex art. 331 c.p.c., del contraddittorio da parte del giudice di secondo grado, omissione che sarebbe stata rilevabile anche d’ufficio in sede di legittimità.
Tali inadempimenti, a parere del ricorrente, avrebbero inficiato la sentenza stessa, provocandone la nullità, in quanto sentenza inutiliter data.
In primo luogo è opportuno precisare che, essendo stati prospettati dal ricorrente errores in procedendo, questa Corte ha il potere- dovere di esaminare direttamente e sindacare gli atti processuali rilevanti ai fini della decisione (Cass. 2526/2002 – Cass. 10410/2002 – Cass. 15859/2002).
La censura è infondata.
Dalla lettura degli atti processuali emerge che il Comune di Trento era stato chiamato in giudizio, con l’avvenuta duplice notificazione del ricorso in appello sia alla parte appellata sia al Comune di Trento.
Al riguardo sono state allegate le cartoline di ricevimento relative alla notifica a mezzo posta del ricorso.
Con il secondo motivo, l’odierno Studio ricorrente ha denunciato “violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in relazione al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 5.
Violazione e/o falsa applicazione del disposto normativo di cui al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 5”.
Il giudice di secondo grado avrebbe posto a fondamento della propria sentenza l’assunto, indimostrato e non avallato da supporto argomentativo logico – deduttivo Né tanto meno giurisprudenziale, per cui la ratio legis, e quindi il principio impositivo dell’imposta controversa, di cui all’art. 5 del precitato D.Lgs., sarebbe individuabile nel concetto di rendere pubblico l’esercizio dell’attività svolta in un dato luogo.
Pertanto, dal momento che il fulcro della questione sarebbe proprio la corretta individuazione del principio impositivo, sarebbe necessario fare un confronto tra l’attuale normativa di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, e il previgente disposto normativo di cui al D.P.R. n. 639 del 1972.
La differenza del significato normativo sarebbe da intendersi nel seguente modo: con la precedente disciplina, le targhe e le insegne sarebbero state di per se stesse considerate dei mezzi pubblicitari e, pertanto, assoggettate al tributo, mentre, con la vigente normativa, a mentre del comma 2, dell’art. 5, solo le targhe e le insegne che rechino dei messaggi pubblicitari tali da sollecitare la domanda di beni e servizi, sarebbero soggette all’imposta.
Tra l’altro, nemmeno con la precedente normativa la tassazione delle targhe degli studi professionali sarebbe stata del tutto pacifica.
Pertanto, a fronte della diversa formulazione del presupposto d’imposta effettuata dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, una targa di limitate dimensioni, con le sole indicazioni del nome del titolare dello studio e dell’attività esercitata dallo stesso, non dovrebbe costituire diffusione di messaggio pubblicitario ma solo un mezzo per permettere a clienti già acquisiti di individuare l’ubicazione dello studio.
Inoltre, se con la precedente normativa, le targhe e le insegne, seppur con giurisprudenza controversa, potevano di per sè essere considerate dei mezzi pubblicitari, assoggettabili, quindi, al tributo, con l’attuale normativa, sarebbero soggette ad imposta solo quelle targhe, o quelle insegne, che diffondano un messaggio pubblicitario volto a promuovere la domanda o a migliorare l’immagine, effetto che, di sicuro, non si otterrebbe attraverso l’esposizione di una targa professionale in cui non compaia alcun requisito distintivo riguardante il soggetto esponente, il tipo di servizio professionale offerto, la tipologia della struttura organizzativa o i prezzi praticati: requisiti che, invece, avrebbero potuto realizzare una differenziazione, connotando questo tipo di targa come effettivo strumento di collettore di clientela. Anche questa censura è infondata.
Nella sentenza impugnata si legge: “questa Commissione osserva che la targa professionale assolve il compito di rendere pubblico l’esercizio dell’attività svolta in quel luogo, e questo concetto è da ritenersi compreso nella previsione del D.Lgs 15 novembre 1993, n. 507, art. 5, che considera rilevanti i messaggi diffusi nell’esercizio di un’attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato”.
La motivazione appare corretta alla luce dei principi giurisprudenziali fissati da questa Corte.
La disciplina sulla pubblicità ex D.Lgs. n. 507 del 1993, ricalca, nelle linee guida che qui interessano, la previgente disciplina ex D.P.R. n. 639 del 1972.
Ed al riguardo, questa Corte ha precisato che, in tema di imposta sulla pubblicità – che si applica, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 639, art. 6, quando i mezzi pubblicitari siano esposti o effettuati “in luoghi pubblici o aperti al pubblico o, comunque, da tali luoghi percepibili” – il presupposto dell’imponibilità va ricercato nell’astratta possibilità del messaggio, in rapporto all’ubicazione del mezzo, di avere un numero indeterminato di destinatari, che diventano tali solo perché vengono a trovarsi in quel luogo determinato. Il detto presupposto sussiste, pertanto, rispetto ad una targa indicativa di uno studio di avvocato esposta in un cortile, il quale, pur se privato, debba ritenersi “aperto al pubblico”, perché accessibile durante il giorno ad un numero indeterminato di persone (Cass. 1930/90).
Le censure formulate dal ricorrente non si connotano come motivi nuovi o diversi da quelli già in precedenza scrutinati e disattesi e, pertanto, non permettono il superamento dei principi giurisprudenziali ut supra formulati.
D’altro canto, nel D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, è disposta l’esenzione delle sole targhe apposte per l’individuazione delle sedi di comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non persegua scopo di lucro; godono parimenti dell’esenzione le targhe la cui esposizione sia obbligatoria per legge o regolamento.
Nella fattispecie in esame è emerso, dalla lettura della sentenza impugnata, come non ricorrano i presupposti per il godimento di detta esenzione.
Infine, è emerso che la targa in questione ha una superficie superiore ai 300 cm2 e pertanto non è applicabile il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7, comma 2, che recita: “non si fa luogo ad applicazione di imposta per superfici inferiori a trecento centimetri quadrati”.
Con il terzo motivo del ricorso, lo Studio Pellegrini e Associati ha lamentato “condanna alle spese. Violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Sussistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese”, atteso che il giudice di secondo grado avrebbe operato una sperequazione palese e profondamente iniqua tra quanto oggetto di controversia, una cartella di pagamento portante un debito tributario per complessive L. 202.000, e le spese processuali cui il contribuente è stato condannato, pari a L. 4.000.000.
Nonostante vi fosse una pronuncia di primo grado favorevole al contribuente, che aveva compensato le spese tra le parti a causa della complessità e non futilità della questione, e nonostante la mancata costituzione del convenuto in grado di appello, il giudice appellato avrebbe ritenuto, senza alcun motivo, di non ravvisare la sussistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese, di modo tale che tale scelta parrebbe fondata su un ragionamento insussistente, illogico ed erroneo.
Le censure sono, in parte, infondate e, in parte, inammissibili.
Infondate nella parte in cui censurano la sentenza in ordine alla mancata dedotta applicazione della compensazione delle spese legali.
Trattasi di valutazione demandata ai poteri discrezionali del giudice di merito e, come tale, non censurabile nel giudizio di legittimità (ex multis, Cass. 8540/05).
Le censure sono inammissibili nella parte in cui lamentano l’eccessività del carico delle spese dal momento che prive di autosufficienza, essendo le stesse generiche e non ancorate ad un puntuale richiamo agli atti di causa ed alle tariffe professionali.
Consegue il rigetto del ricorso. I profili processuali e sostanziali della controversia che ne occupa rendono opportuna la compensazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese di giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 2 luglio 2008.
Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2008