La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 50 del 14 marzo 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23.
Il Tribunale di Salerno (r.o. n. 206 del 2012), il Tribunale di Palermo (r.o. n. 49 del 2013), il Tribunale di Firenze (r.o. n. 78 del 2013), il Tribunale di Genova (r.o. n. 169 del 2013), nonché il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia (r.o. n. 225 del 2013), hanno sollevato – in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 42, 53, 55, 70, 76 e 97 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nella parte in cui prevedono un meccanismo di sostituzione sanzionatoria della durata del contratto di locazione per uso abitativo e di commisurazione del relativo canone in caso di mancata registrazione del contratto entro il termine di legge, nonché l’estensione di tale disciplina – e di quella relativa alla nullità dei contratti di locazione non registrati – anche alle ipotesi di contratti di locazione registrati nei quali sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo, o di contratti di comodato fittizio registrati.
Stabilisce il comma 8 dell’art. 3 del citato d. lgs. n. 23 del 2011 che, per i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo i quali, «ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge», la disciplina convenzionalmente stabilita dalle parti subisce significative modificazioni. Infatti, la durata della locazione viene fissata in quattro anni, a decorrere dalla data di registrazione, volontaria o d’ufficio; al relativo rinnovo si applica, poi, la disciplina prevista dall’art. 2, comma 1, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), per la quale il contratto di locazione viene rinnovato per un periodo di quattro anni, fatti salvi alcuni casi specifici; il canone annuo, infine, a decorrere dalla data della registrazione del contratto, viene fissato, salvo che le parti abbiano pattuito un canone di importo inferiore, in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, pari al 75% dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai.
Stabilisce, a sua volta, il comma 9 dello stesso art. 3 che queste disposizioni – oltre a quelle previste dall’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), che sancisce la nullità dei contratti di locazione non registrati – si applicano anche nei casi in cui: a) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo; b) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio.
Tale disciplina risulterebbe in contrasto, anzitutto, con gli artt. 70 e 76 Cost., in riferimento agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21, 25 e 26 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), nonché in relazione anche agli artt. 6, comma 2, e 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente): la citata legge di delega n. 42 del 2009, infatti, non soltanto non avrebbe introdotto princípi alla stregua dei quali consentire l’introduzione delle disposizioni oggetto di censura, ma avrebbe previsto, all’art. 2, comma 2, lettera c), che il legislatore delegato si attenesse ai princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente, di cui alla citata legge n. 212 del 2000: statuto il cui art. 10 stabilisce che «le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto»; mentre l’art. 6 prevede che l’amministrazione finanziaria informi «il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza, dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito o l’irrogazione di una sanzione».
I giudici a quibus prospettano anche, sia pure con varietà di accenti, il contrasto con gli artt. 3, 41, 42 e 53 Cost., in quanto le sanzioni previste dalla normativa oggetto di censura risulterebbero ingiustificatamente penalizzanti per il locatore, dal momento che sostituiscono il canone convenzionale con altro determinato ex lege in misura irrisoria, e premiali, invece, per il conduttore, dando anche al contratto una durata di quattro anni rinnovabile per altri quattro anni.
Le disposizioni denunciate, inoltre, sarebbero non proporzionate all’inadempimento fiscale dell’omessa registrazione nei termini e non perseguirebbero un obiettivo di interesse pubblico, limitandosi ad introdurre solo il predetto meccanismo premiale per il conduttore – con correlativo turbamento del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica – senza generare alcun incremento di entrate per il fisco. Riducendosi il canone, si ridurrebbe, infatti, anche l’ammontare dell’imposta di registro oltre che il gettito delle imposte dirette.
La disciplina in esame creerebbe, ancora, una irragionevole disparità di trattamento tra locazioni ad uso abitativo ed altri tipi di locazione e si porrebbe in contrasto con i princípi di autonomia negoziale e con il disposto dell’art. 1419 del codice civile, in base al quale il contratto parzialmente nullo è fatto salvo solo ove risulti che le parti lo avrebbero ugualmente concluso.
Ebbene, alla luce dei richiamati rilievi, emerge con evidenza che la disciplina oggetto di censura – sotto numerosi profili “rivoluzionaria” sul piano del sistema civilistico vigente – si presenti del tutto priva di “copertura” da parte della legge di delegazione: in riferimento sia al relativo àmbito oggettivo, sia alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi perseguiti dalla delega.
Con la legge n. 42 del 2009, infatti – come emblematicamente enunciato dalla disposizione programmatica di cui all’art. 1, comma 1 –, il Parlamento ha inteso introdurre «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese». Accanto a ciò, l’obiettivo dichiarato è quello di disciplinare «i princípi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni», dettando «norme transitorie sull’ordinamento, anche finanziario, di Roma capitale».
Del tutto coerenti appaiono, quindi, «oggetto e finalità» della delega definiti dall’art. 2 della legge, ove si precisa, appunto, che l’esercizio della funzione legislativa è conferito «al fine di assicurare, attraverso la definizione dei princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la definizione della perequazione, l’autonomia finanziaria di comuni, province, città metropolitane e regioni nonché al fine di armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti e i relativi termini di presentazione e approvazione, in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica».
Si tratta, dunque, di un àmbito normativo rispetto al quale il tema di cui alla disciplina denunciata risulta del tutto estraneo, essendo questa destinata ad introdurre una determinazione legale di elementi essenziali del contratto di locazione ad uso abitativo (canone e durata), in ipotesi di ritardata registrazione dei contratti o di simulazione oggettiva dei contratti medesimi, pur previste ed espressamente sanzionate nella disciplina tributaria di settore.
La tesi dell’Avvocatura generale, secondo cui un principio della delega sarebbe ricavabile dall’art. 26 della legge, in tema di contrasto all’evasione fiscale, che –specificando quanto previsto all’art. 2, comma 2, lettera d) – evoca, al comma 1, lettera b) «forme premiali per gli enti territoriali che abbiano ottenuto risultati positivi in termini di maggiore gettito» non può ritenersi condivisibile.
Il tema della lotta all’evasione fiscale, che costituisce un chiaro obiettivo dell’intervento normativo in discorso, non può essere configurato anche come criterio per l’esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato, entro i previsti limiti. Né il riferimento alle «forme premiali» anzidette può ritenersi in alcun modo correlabile con il singolare meccanismo “sanzionatorio” oggetto di censura.
Del resto – e come puntualmente messo in evidenza dai giudici a quibus – nella citata legge di delegazione si formula un preciso enunciato, formalmente e sostanzialmente evocabile quale principio e criterio direttivo generale, secondo il quale – nel richiamare (art. 2, comma 2, lettera c), «razionalità e coerenza dei singoli tributi e del sistema tributario nel suo complesso» (compresi, dunque, i profili di carattere sanzionatorio ed i “rimedi” tecnici tesi a portare ad emersione cespiti o redditi assoggettabili ad imposizione) – espressamente prescrive di procedere all’esercizio della delega nel «rispetto dei princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212». Statuto che, a sua volta, come ricordato, prevede, all’art. 10, comma 3, ultimo periodo, che «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto»: con l’ovvia conseguenza che, tanto più, la mera inosservanza del termine per la registrazione di un contratto di locazione non può legittimare (come sarebbe nella specie) addirittura una novazione – per factum principis – quanto a canone e a durata.
Né appare superfluo soggiungere che gli obblighi di informazione del contribuente, parimenti prescritti dal predetto statuto, risultano nella specie totalmente negletti, operando la denunciata “sostituzione” contrattuale in via automatica, solo a seguito della mancata tempestiva registrazione del contratto.
Le ragioni esposte con particolare riferimento a quanto previsto al comma 8 dell’art. 3 valgono, naturalmente, anche per quanto previsto al comma 9 del medesimo art. 3.
Le disposizioni denunciate devono, pertanto, essere dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, restando assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati.
SENTENZA N. 50
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), promossi dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 29 marzo 2012, dal Tribunale di Palermo con ordinanza del 15 novembre 2012, dal Tribunale di Firenze con ordinanza del 15 gennaio 2013, dal Tribunale di Genova con ordinanza del 30 gennaio 2013 e dal Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia con ordinanza del 7 maggio 2013, rispettivamente iscritte al n. 206 del registro ordinanze 2012 e ai numeri 49, 78, 169 e 225 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2012 e numeri 12, 17, 29 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale di Salerno solleva – in riferimento agli artt. 3, 42, 55 e 76 della Costituzione, nonché in relazione agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21 e 26 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale).
Premette il giudice a quo di essere stato investito da una domanda con la quale la locatrice di un immobile destinato ad uso abitativo ha convenuto in giudizio la conduttrice per la convalida dello sfratto per morosità intimato alla medesima; domanda alla quale l’intimata si era opposta deducendo che il contratto di locazione, in vigore dal 1° febbraio 2011, era stato registrato in ritardo a cura della stessa conduttrice in data 5 ottobre 2011. Conseguentemente, a norma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2011, il canone da lei dovuto era pari ad euro 223,80 mensili – di gran lunga inferiore a quello convenuto in euro 950 mensili – a far data dal bimestre ottobre-novembre 2011, mentre per i mesi precedenti non era dovuto alcun canone, in quanto il contratto non registrato doveva considerarsi nullo. L’intimante, a sua volta, chiedeva disapplicarsi l’evocata normativa per manifesta illegittimità, chiedendo altresì l’emissione di ordinanza provvisoria di rilascio.
A fronte dei petita prospettati dalle parti, il Tribunale rileva che la normativa posta a base della controversia presenti numerosi profili di illegittimità costituzionale. Sussisterebbe, infatti, anzitutto, un difetto di delega, in quanto la richiamata legge-delega n. 42 del 2009 non conterrebbe criteri direttivi che possano giustificare l’adozione, in sede di legislazione delegata, delle sanzioni oggetto di censura. Peraltro, sostituendosi il canone pattuito con la irrisoria misura stabilita ex lege, si determinerebbe una riduzione del gettito fiscale IRPEF, in contrasto con gli obiettivi tracciati dalla stessa legge di delegazione. Si creerebbe, al tempo stesso, un’irragionevole disparità di trattamento tra conduttore e locatore, dal momento che – pur incombendo l’obbligo di registrazione del contratto su entrambi – la sanzione sarebbe inflitta soltanto al locatore, mentre il conduttore beneficerebbe di una riduzione del canone.
Sarebbero violati anche gli artt. 55 e 42 Cost., in quanto le sanzioni fiscali non possono comprimere oltre ogni limite il diritto di proprietà attraverso misure che, come quelle previste dalla normativa impugnata, si presentano sproporzionate e limitative della autonomia contrattuale, per di più in assenza di un interesse pubblico, dal momento che dopo l’avvenuta registrazione tardiva del contratto, è già stato effettuato il pagamento della sovraimposta dovuta per il ritardo.
La norma censurata, infatti, manterrebbe in vita un contratto che il locatore non avrebbe mai sottoscritto a quelle condizioni, costringendolo a sopportare un canone irrisorio per la potenziale durata di otto anni (quattro più quattro). Il tutto in evidente contrasto con l’art. 1419 del codice civile, a norma del quale la nullità parziale non travolge l’intero contratto solo se risulti che i contraenti lo avrebbero comunque concluso anche senza la parte nulla: evenienza, questa, che evidentemente non ricorre.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto dichiararsi inammissibile e comunque infondata la proposta questione.
A proposito del preteso difetto di delega, l’Avvocatura sottolinea come il disegno tracciato dalla legge n. 42 del 2009 fosse orientato verso l’approntamento di «più stringenti strumenti di contrasto all’evasione»: il che, specie nel quadro di un complessivo riassetto della materia e del coinvolgimento degli enti locali, non può non comprendere anche «la conseguente correlata possibilità di determinare le sanzioni conseguenti all’inadempimento fiscale».
Si sottolinea anche come la materia delle locazioni sia tra quelle più esposte all’evasione fiscale, considerata la diffusa prassi delle cosiddette locazioni “in nero”. In tale prospettiva si giustifica il regime di favore per il locatore, attraverso la previsione della cosiddetta cedolare secca. Il locatore può, infatti, optare, all’atto della stipula del contratto, o per il regime ordinario o per l’applicazione di una aliquota fissa del 21% sul canone, sostitutivo anche della imposta di registro e di bollo. Meccanismo, questo, che, in presenza di redditi alti, comporta un beneficio fiscale, con correlativa diminuzione del gettito per lo Stato, compensato, però, dalla emersione dell’evasione.
Con le previsioni oggetto di censura, il legislatore – adottando la politica del conflitto di interessi tra le parti, cosicché l’interesse all’evasione dell’una sia compensato dall’opposto interesse dell’altra – ha inteso premiare il conduttore in modo tale da indurre il locatore ad effettuare tempestivamente la registrazione del contratto e a non mantenere il rapporto “al nero”. Si tratterebbe, dunque, di un meccanismo particolarmente severo, ma che adempie alle sue funzioni, come sarebbe dimostrato proprio dal caso di specie. La disciplina in esame sarebbe efficace, funzionale agli interessi del fisco, e non irragionevole.
Il parametro dell’art. 55 Cost. sarebbe poi inconferente, mentre risulterebbe improprio il richiamo all’art. 1419 cod. civ., in quanto norma non di rango costituzionale.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 42 Cost. la difesa dello Stato sottolinea la funzione sociale della proprietà in stretto raccordo con l’art. 2 della Carta fondamentale, che impone a tutti i cittadini l’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà economica e sociale, che ben possono giustificare limiti al diritto di proprietà a fronte di interessi pubblici meritevoli di tutela.
3.– Identica questione dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo n. 23 del 2011 è sollevata – in riferimento agli artt. 3, 23, 42, 53, 70, 76, 97 Cost. e in relazione agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21 e 26 della ricordata legge n. 42 del 2009, nonché agli artt. 6, comma 2, e 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) – pure dal Tribunale di Palermo, chiamato anch’esso a pronunciarsi su una azione di sfratto per morosità a fronte della quale gli intimati opponevano l’omessa tempestiva registrazione del contratto cui essi stessi avevano poi provveduto, corrispondendo alla locatrice il canone rideterminato a norma del comma 8 dell’art. 3 denunciato.
Il giudice rimettente deduce l’assenza, nella legge di delega n. 42 del 2009, di princípi o criteri direttivi che abilitassero il Governo ad adottare le misure oggetto di censura, sottolineando, anzi, come le disposizioni censurate tradiscano gli intendimenti della delega, «sostituendo al canone pattuito dai contraenti l’irrisorio importo commisurato al triplo della rendita catastale e riducendo in tal modo la base imponibile del tributo persino nelle ipotesi in cui sia stato registrato un contratto di locazione per un canone inferiore a quello effettivo, ma pur sempre superiore a quello “sostitutivo”»; in tal modo riducendo il gettito della imposta di registro e di quelle sul reddito.
Inoltre, si ravvisa un contrasto con l’art. 2, comma 2, lettera c), della legge di delega, che impone il rispetto dei princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente, il quale esclude che la violazione di norme tributarie possa determinare la nullità del contratto, che invece scaturisce con il meccanismo di sostituzione ex lege oggetto di censura, per di più in assenza di qualsiasi contestazione, pur prevista dallo stesso statuto.
Violato sarebbe anche l’art. 42 Cost., in quanto il diritto di proprietà sarebbe sacrificato attraverso l’imposizione per almeno quattro anni, prorogabili, in determinate condizioni, di altri quattro, di una locazione ad un canone irrisorio.
Si lamenta anche la violazione dell’art. 3 Cost., sotto due profili. Da un lato, infatti, la disciplina in questione si applicherebbe solo ai contratti di locazione per uso abitativo e non a quelli per uso commerciale, pur essendo identici gli obblighi tributari e l’esigenza di contrastare l’evasione. D’altro lato, il meccanismo censurato risulterebbe premiale per i conduttori e punitivo per i locatori, generando una vistosa disparità di trattamento fra le parti pur ugualmente obbligate sul piano tributario; e ciò in particolare quando la registrazione sia avvenuta d’ufficio, e non su «delazione» del conduttore.
Inoltre, il fatto che il comma 9 denunciato estenda la disciplina in questione anche all’ipotesi di simulazione relativa determina l’equiparazione fra situazioni differenti (evasione totale ed evasione parziale), «riducendo così l’entrata tributaria con nocumento per l’Erario e avvantaggiando il solo conduttore».
4.– Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha sviluppato argomentazioni e rassegnato conclusioni identiche a quelle di cui si è già detto.
5.– Del tutto analoghe sono le censure proposte all’art. 3, comma 8, lettera c), del decreto legislativo n. 23 del 2011– in riferimento all’art. 76 Cost. e in relazione agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21 e 26 della richiamata legge n. 42 del 2009 – dal Tribunale di Firenze, chiamato anch’esso a pronunciarsi su una azione di sfratto per morosità alla quale il conduttore si è opposto deducendo la tardività della registrazione del contratto ed il pagamento del canone nella misura determinata ex lege.
La censura è specificamente diretta, in riferimento al predetto parametro, sul rilievo che solo questa previsione inciderebbe ai fini della risoluzione della controversia. Infatti, «la riduzione del canone operata dal conduttore a partire dalla registrazione (tardiva) incide per la sussistenza, consistenza e gravità dell’inadempimento dedotto come risolutivo ed anche per la domanda di pagamento delle differenze tra il pattuito ed il versato, formulata in giudizio dai locatori».
Disattesa, dunque, parzialmente l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla parte attrice, il rimettente reputa fondato il dubbio di legittimità costituzionale in riferimento al difetto di delega. Scandagliata, infatti, la ratio della norma introdotta dal legislatore delegato e sottolineato come la legge di delega abbia imposto il rispetto dei princípi affermati nello statuto dei diritti del contribuente – il quale espressamente prevede, a tutela dell’affidamento e della buona fede, che le violazioni di disposizioni esclusivamente tributarie non possono determinare la nullità del negozio privato –, si osserva che la disciplina censurata non rinvenga nella legge di delega alcuna base giustificativa. L’introduzione di un meccanismo di sostituzione legislativa della volontà contrattuale a titolo di sanzione per una parte e di premio per l’altra, al fine di scoraggiare l’evasione fiscale, si tradurrebbe, infatti, in una «sorta di “sanzione civile”» corrispondente ad una «nullità/inefficacia del patto relativo alla misura del canone», con effetti per di più irrazionali: non si comprende, infatti, il motivo per il quale, se l’àmbito della delega è quello del contrasto all’evasione fiscale, la disposizione censurata valga solo per le locazioni abitative e non anche per quelle «non abitative e parimenti rilevanti fiscalmente».
6.– È stato depositato, da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei ministri, di contenuto identico a quello di cui innanzi si è detto.
7.– Pure il Tribunale di Genova dubita – in riferimento agli artt. 3 e 76 Cost. e in relazione agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21 e 26 della legge n. 42 del 2009 nonché all’art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000 – della legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011.
Analizzata la rilevanza della questione in rapporto all’oggetto del contenzioso tra le parti, il Giudice a quo sottolinea come da nessuna delle disposizioni della legge di delega n. 42 del 2009 emergano princípi atti a legittimare l’adozione del peculiare meccanismo sanzionatorio oggetto di censura: meccanismo che prevede la nullità del contratto di locazione anche nei casi in cui nel contratto registrato sia stato indicato un canone inferiore a quello effettivo o sia stato registrato un contratto di comodato fittizio, e che introduce una sostituzione ex lege, in caso di non tempestiva registrazione, quanto alla durata del contratto ed alla determinazione del canone rispetto a quanto pattuito.
La legge di delega sarebbe violata anche nella parte in cui è stato previsto che i relativi decreti legislativi fossero informati ai princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente, il quale a sua volta stabilisce che le violazioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto.
Si ravvisa anche una violazione dell’art. 3 Cost., dal momento che, essendo le sanzioni volte a circoscrivere l’evasione delle imposte sui redditi, è irragionevole che le stesse si applichino solo alle locazioni per uso abitativo. Sussisterebbe, poi, anche una irragionevole disparità di trattamento tra locatore e conduttore, in quanto, malgrado siano entrambi obbligati al pagamento della imposta di registro, soltanto il primo sarebbe sanzionato, mentre il secondo premiato con una sostituzione del canone pattuito con altro determinato ex lege in misura irrisoria.
Sarebbe inoltre irragionevole l’applicazione delle medesime sanzioni sia nel caso di omessa registrazione del contratto sia in caso di registrazione di un contratto con canone inferiore a quello effettivo, così come in contrasto con lo stesso parametro sarebbe la riduzione dei canoni, che determinerebbe un gettito inferiore per le imposte sui redditi e per quella annuale di registro.
8.– Anche il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia – pur non fornendo alcuna descrizione della fattispecie dedotta nel giudizio –, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 23 del 2011, per contrasto con gli artt. 3, 41, 42 e 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000.
Rileva il rimettente che la norma censurata costituirebbe una sorta di sanzione a carico del locatore per la mancata tempestiva registrazione del contratto, che travolgerebbe il principio consensualistico sostituendo la volontà contrattuale e creando uno squilibrio degli interessi ed un sacrificio eccessivo per la proprietà privata e per la libera iniziativa economica; il tutto a discapito del locatore e con beneficio per il conduttore, in violazione anche del principio generale per il quale le violazioni di norme tributarie non possono essere causa di nullità del contratto.
Sarebbe violato anche l’art. 76 Cost., «dovendo demandarsi agli enti a ciò deputati il controllo e l’applicazione delle sanzioni per le violazioni delle disposizioni in materia tributaria e per la repressione del fenomeno dell’evasione fiscale, non potendo sostituirsi ad essi la dichiarazione unilaterale di registrazione del contratto che impone un regime di locazione legale come sanzione prevalentemente e sproporzionatamente punitiva per il proprietario/locatore».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Salerno (r.o. n. 206 del 2012), il Tribunale di Palermo (r.o. n. 49 del 2013), il Tribunale di Firenze (r.o. n. 78 del 2013), il Tribunale di Genova (r.o. n. 169 del 2013), nonché il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia (r.o. n. 225 del 2013), hanno sollevato – in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 42, 53, 55, 70, 76 e 97 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nella parte in cui prevedono un meccanismo di sostituzione sanzionatoria della durata del contratto di locazione per uso abitativo e di commisurazione del relativo canone in caso di mancata registrazione del contratto entro il termine di legge, nonché l’estensione di tale disciplina – e di quella relativa alla nullità dei contratti di locazione non registrati – anche alle ipotesi di contratti di locazione registrati nei quali sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo, o di contratti di comodato fittizio registrati.
Stabilisce il comma 8 dell’art. 3 del citato d. lgs. n. 23 del 2011 che, per i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo i quali, «ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge», la disciplina convenzionalmente stabilita dalle parti subisce significative modificazioni. Infatti, la durata della locazione viene fissata in quattro anni, a decorrere dalla data di registrazione, volontaria o d’ufficio; al relativo rinnovo si applica, poi, la disciplina prevista dall’art. 2, comma 1, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), per la quale il contratto di locazione viene rinnovato per un periodo di quattro anni, fatti salvi alcuni casi specifici; il canone annuo, infine, a decorrere dalla data della registrazione del contratto, viene fissato, salvo che le parti abbiano pattuito un canone di importo inferiore, in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, pari al 75% dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai.
Stabilisce, a sua volta, il comma 9 dello stesso art. 3 che queste disposizioni – oltre a quelle previste dall’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), che sancisce la nullità dei contratti di locazione non registrati – si applicano anche nei casi in cui: a) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo; b) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio.
Tale disciplina risulterebbe in contrasto, anzitutto, con gli artt. 70 e 76 Cost., in riferimento agli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21, 25 e 26 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), nonché in relazione anche agli artt. 6, comma 2, e 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente): la citata legge di delega n. 42 del 2009, infatti, non soltanto non avrebbe introdotto princípi alla stregua dei quali consentire l’introduzione delle disposizioni oggetto di censura, ma avrebbe previsto, all’art. 2, comma 2, lettera c), che il legislatore delegato si attenesse ai princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente, di cui alla citata legge n. 212 del 2000: statuto il cui art. 10 stabilisce che «le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto»; mentre l’art. 6 prevede che l’amministrazione finanziaria informi «il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza, dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito o l’irrogazione di una sanzione».
I giudici a quibus prospettano anche, sia pure con varietà di accenti, il contrasto con gli artt. 3, 41, 42 e 53 Cost., in quanto le sanzioni previste dalla normativa oggetto di censura risulterebbero ingiustificatamente penalizzanti per il locatore, dal momento che sostituiscono il canone convenzionale con altro determinato ex lege in misura irrisoria, e premiali, invece, per il conduttore, dando anche al contratto una durata di quattro anni rinnovabile per altri quattro anni.
Le disposizioni denunciate, inoltre, sarebbero non proporzionate all’inadempimento fiscale dell’omessa registrazione nei termini e non perseguirebbero un obiettivo di interesse pubblico, limitandosi ad introdurre solo il predetto meccanismo premiale per il conduttore – con correlativo turbamento del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica – senza generare alcun incremento di entrate per il fisco. Riducendosi il canone, si ridurrebbe, infatti, anche l’ammontare dell’imposta di registro oltre che il gettito delle imposte dirette.
La disciplina in esame creerebbe, ancora, una irragionevole disparità di trattamento tra locazioni ad uso abitativo ed altri tipi di locazione e si porrebbe in contrasto con i princípi di autonomia negoziale e con il disposto dell’art. 1419 del codice civile, in base al quale il contratto parzialmente nullo è fatto salvo solo ove risulti che le parti lo avrebbero ugualmente concluso.
La violazione degli artt. 23 e 97 Cost. non risulta, invece, aver formato oggetto di una specifica motivazione.
2.– Deve preliminarmente rilevarsi che le questioni sollevate si riferiscono alle medesime disposizioni, o a disposizioni connesse, e che identiche o analoghe risultano le prospettate ragioni di censura.
I giudizi vanno pertanto riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
3.– Ancora in via preliminare deve rilevarsi che l’ordinanza pronunciata dal Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, omettendo completamente di indicare l’oggetto del procedimento e i termini della domanda proposta al giudice rimettente, risulta carente nella descrizione della fattispecie e, correlativamente, nella motivazione sulla rilevanza. Ciò impedisce a questa Corte di procedere al doveroso scrutinio in ordine alla sussistenza del necessario nesso di pregiudizialità tra la questione proposta e la definizione del giudizio principale, rendendo, dunque, manifestamente inammissibile la questione medesima (ordinanza n. 314 del 2012).
4.– La questione proposta dagli altri giudici rimettenti è, invece, fondata, in particolare riferimento al parametro di cui all’art. 76 Cost., sotto il profilo del difetto di delega.
A proposito dei rapporti che devono correlare la legge di delegazione approvata dal Parlamento e il decreto legislativo emanato dal Governo, questa Corte ha, in varie occasioni, avuto modo di sottolineare come il sindacato di legittimità costituzionale sulla delega legislativa si esplichi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli. Il primo riguarda le disposizioni che determinano l’oggetto, i princípi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione, tenuto conto del contesto normativo in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità relative. Il secondo riguarda le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princípi e i criteri direttivi della delega.
Scaturisce da ciò che, agli effetti dell’anzidetto sindacato, occorre, da un lato, considerare la ratio complessiva della delega, per individuare gli ineludibili punti di riferimento e i limiti indicati al legislatore delegato; dall’altro, tenere in conto la possibilità – intrinseca nello stesso strumento della delega, specie ove riguardi interi settori di disciplina o, comunque, organici complessi normativi – che il legislatore delegato introduca disposizioni che costituiscano un coerente sviluppo e un completamento delle indicazioni fornite dal legislatore delegante, nel rigoroso àmbito dei “confini” stabiliti.
Resta indubbio che tale opera di completamento debba necessariamente mantenersi nell’alveo delle scelte di fondo operate dal legislatore della delega, senza potersi spingere «ad allargarne l’oggetto, fino a ricomprendervi materie che ne erano escluse. In particolare, il test di raffronto con la norma delegante, cui soggiace la norma delegata, deve ritenersi avere esito negativo, quando quest’ultima intercetta un campo di interessi così connotato nell’ordinamento, da non poter essere assorbito in campi più ampi e generici, e da esigere, invece, di essere autonomamente individuato attraverso la delega» (sentenza n. 219 del 2013).
Va sottolineato come la giurisprudenza di questa Corte abbia più volte avuto modo di chiarire che, nei casi in cui il Parlamento abbia ritenuto di delegare al Governo il cómpito di procedere al riassetto di determinati settori normativi, l’esercizio, da parte del legislatore delegato, «di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita», debba ritenersi circoscritto entro limiti rigorosi. Con la conseguenza che, in linea di principio, «l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente» può ritenersi ammissibile «soltanto nel caso in cui siano stabiliti princípi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato» (sentenza n. 80 del 2012, con richiamo della sentenza n. 293 del 2010).
5.– Ebbene, alla luce dei richiamati rilievi, emerge con evidenza che la disciplina oggetto di censura – sotto numerosi profili “rivoluzionaria” sul piano del sistema civilistico vigente – si presenti del tutto priva di “copertura” da parte della legge di delegazione: in riferimento sia al relativo àmbito oggettivo, sia alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi perseguiti dalla delega.
Con la legge n. 42 del 2009, infatti – come emblematicamente enunciato dalla disposizione programmatica di cui all’art. 1, comma 1 –, il Parlamento ha inteso introdurre «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese». Accanto a ciò, l’obiettivo dichiarato è quello di disciplinare «i princípi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni», dettando «norme transitorie sull’ordinamento, anche finanziario, di Roma capitale».
Del tutto coerenti appaiono, quindi, «oggetto e finalità» della delega definiti dall’art. 2 della legge, ove si precisa, appunto, che l’esercizio della funzione legislativa è conferito «al fine di assicurare, attraverso la definizione dei princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la definizione della perequazione, l’autonomia finanziaria di comuni, province, città metropolitane e regioni nonché al fine di armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti e i relativi termini di presentazione e approvazione, in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica».
Si tratta, dunque, di un àmbito normativo rispetto al quale il tema di cui alla disciplina denunciata risulta del tutto estraneo, essendo questa destinata ad introdurre una determinazione legale di elementi essenziali del contratto di locazione ad uso abitativo (canone e durata), in ipotesi di ritardata registrazione dei contratti o di simulazione oggettiva dei contratti medesimi, pur previste ed espressamente sanzionate nella disciplina tributaria di settore.
La tesi dell’Avvocatura generale, secondo cui un principio della delega sarebbe ricavabile dall’art. 26 della legge, in tema di contrasto all’evasione fiscale, che –specificando quanto previsto all’art. 2, comma 2, lettera d) – evoca, al comma 1, lettera b) «forme premiali per gli enti territoriali che abbiano ottenuto risultati positivi in termini di maggiore gettito» non può ritenersi condivisibile.
Il tema della lotta all’evasione fiscale, che costituisce un chiaro obiettivo dell’intervento normativo in discorso, non può essere configurato anche come criterio per l’esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato, entro i previsti limiti. Né il riferimento alle «forme premiali» anzidette può ritenersi in alcun modo correlabile con il singolare meccanismo “sanzionatorio” oggetto di censura.
Del resto – e come puntualmente messo in evidenza dai giudici a quibus – nella citata legge di delegazione si formula un preciso enunciato, formalmente e sostanzialmente evocabile quale principio e criterio direttivo generale, secondo il quale – nel richiamare (art. 2, comma 2, lettera c), «razionalità e coerenza dei singoli tributi e del sistema tributario nel suo complesso» (compresi, dunque, i profili di carattere sanzionatorio ed i “rimedi” tecnici tesi a portare ad emersione cespiti o redditi assoggettabili ad imposizione) – espressamente prescrive di procedere all’esercizio della delega nel «rispetto dei princípi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212». Statuto che, a sua volta, come ricordato, prevede, all’art. 10, comma 3, ultimo periodo, che «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto»: con l’ovvia conseguenza che, tanto più, la mera inosservanza del termine per la registrazione di un contratto di locazione non può legittimare (come sarebbe nella specie) addirittura una novazione – per factum principis – quanto a canone e a durata.
Né appare superfluo soggiungere che gli obblighi di informazione del contribuente, parimenti prescritti dal predetto statuto, risultano nella specie totalmente negletti, operando la denunciata “sostituzione” contrattuale in via automatica, solo a seguito della mancata tempestiva registrazione del contratto.
6.– Le ragioni esposte con particolare riferimento a quanto previsto al comma 8 dell’art. 3 valgono, naturalmente, anche per quanto previsto al comma 9 del medesimo art. 3.
Le disposizioni denunciate devono, pertanto, essere dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, restando assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale);
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), come sollevata, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 76 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2014.