CORTE COSTITUZIONALE
Sentenza 31 marzo 2015, n. 54
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività professionale da parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica), e successive modificazioni e integrazioni», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 30 maggio-4 giugno 2014, depositato in cancelleria il 5 giugno 2014 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2014.
Visto l’atto di costituzione della Regione Liguria; udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;uditi l’avvocato dello Stato … per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato … per la Regione Liguria.
RITENUTO IN FATTO
1.- Con ricorso spedito per la notifica il 30 maggio 2014, ricevuto dalla resistente il successivo 4 giugno e depositato nella cancelleria di questa Corte il 5 giugno 2014 (reg. ric. n. 37 del 2014), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività professionale da parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) e successive modificazioni e integrazioni».
La legge regionale censurata, al dichiarato scopo di assicurare una più efficace e funzionale organizzazione dei servizi sanitari regionali, prevede che il personale sanitario non medico di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) possa svolgere attività libero-professionale intramuraria in strutture sanitarie regionali, sia «singolarmente», sia anche in forma «allargata» in strutture sanitarie diverse da quella di afferenza (art. 1, comma 1).
La concreta disciplina dell’organizzazione e delle modalità di svolgimento di tale attività è demandata alla Giunta regionale della Liguria che dovrà adottare entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge una direttiva vincolante (art. 1, comma 2).
Ritiene il ricorrente che tali previsioni violino l’art. 117, terzo comma Cost. in quanto si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali nella materia di «tutela della salute». L’esercizio della libera professione intramuraria sarebbe stata prevista dal legislatore statale esclusivamente per i dirigenti medici e i medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale e solo a particolari condizioni, al fine di assicurare un equilibrio tra attività istituzionale e libera professione. Infatti, l’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) ha introdotto il principio della esclusività del rapporto di lavoro del personale medico con il servizio sanitario nazionale e la sua incompatibilità con altro rapporto di lavoro dipendente, con il rapporto convenzionale, nonché con l’esercizio di altra attività o con la titolarità o partecipazione di quote di imprese che possano determinare un conflitto di interessi con il servizio sanitario.
Osserva ancora l’Avvocatura generale come l’art. 1, comma 5, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) ha stabilito l’incompatibilità tra attività libero-professionale intramuraria ed extramuraria nonché il divieto di attività libero-professionale extra moenia all’interno delle strutture sanitarie pubbliche diverse da quelle di appartenenza o presso strutture sanitarie private. Inoltre, l’art. 15-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), ha stabilito che i dirigenti sanitari il cui contratto di lavoro sia stato stipulato successivamente al 31 dicembre 1998, ovvero che, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999, abbiano optato per l’esercizio di attività libero-professionale intramuraria, siano sottoposti al rapporto di lavoro esclusivo con il Servizio sanitario nazionale.
La disposizione in parola, a seguito delle modifiche introdotte dal decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138, ha, inoltre, previsto la possibilità per i dirigenti medici di optare per il rapporto di lavoro non esclusivo mediante richiesta da presentarsi entro il 30 novembre di ciascun anno.
Ancora, l’art. 15-quinquies, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 dispone che l’attività libero-professionale intramuraria non debba comportare un volume di prestazioni superiore a quello assicurato per l’attività istituzionale e, a tal fine, prevede appositi controlli per accertare eventuali violazioni di tale limite. Analogamente, l’art. 22-bis, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha affidato alle Regioni i controlli sullo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria da parte dei dirigenti medici al fine di verificare il corretto equilibrio di tale attività con quella istituzionale.
Infine, l’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), come modificato dal decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute) convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189 ha demandato alle Regioni l’assunzione di iniziative idonee al fine di individuare gli spazi necessari all’esercizio della libera professione intramuraria e di realizzare gli interventi di ristrutturazione edilizia necessari a tale scopo.
Dalle disposizioni richiamate emergerebbe, ad avviso del ricorrente, che il legislatore statale ha disciplinato l’esercizio della libera professione intramuraria «quale specificità prevista esclusivamente per i dirigenti medici e i medici dipendenti del Ssn e solo a particolari condizioni, al fine di salvaguardare un equilibrato rapporto tra attività istituzionale e libero-professionale».
Inoltre, il rapporto di lavoro del personale medico sarebbe improntato ai principi dell’esclusività e dell’incompatibilità con altro rapporto di lavoro dipendente, con altro rapporto di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale, nonché con l’esercizio di altra attività.
L’attività libero-professionale intra moenia costituirebbe una deroga al principio di esclusività del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, la quale può essere giustificata solo alla luce di un equilibrato bilanciamento tra l’interesse allo svolgimento dell’attività libero-professionale e quello dello Stato a garantire imparzialità, efficacia ed efficienza delle funzioni preordinate alla tutela della salute. Proprio l’esigenza di assicurare tale contemperamento renderebbe necessaria l’adozione di una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, anche sotto il profilo soggettivo, della individuazione, cioè, dei soggetti legittimati a svolgere attività libero-professionale.
Premesso che la Corte costituzionale ritiene oramai pacificamente che la disciplina della professione sanitaria intramuraria rientra nella materia concorrente «tutela della salute» (sono richiamate le sentenze n. 301 del 2013, n. 371 del 2008 e n. 181 del 2006), l’Avvocatura generale sostiene che l’individuazione dei soggetti abilitati allo svolgimento di attività intramuraria costituirebbe enunciazione di un principio fondamentale della materia. Tale conclusione troverebbe conferma nell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 il quale stabilisce che le disposizioni in esso contenute costituiscono enunciazione di principi fondamentali, ai sensi dell’art. 117 Cost.
Troverebbe, altresì, conferma nelle altre disposizioni statali richiamate nel ricorso dalle quali emergerebbe come il legislatore nazionale abbia creato «un organico sistema di esercizio dell’attività libero professionale intramuraria incentrato sulle figure del dirigente medico e del medico dipendente del Ssn». D’altra parte, la individuazione delle categorie professionali ammesse a svolgere attività intra moenia, richiedendo l’individuazione di un equilibrio tra le opposte istanze di svolgimento della professione e di esclusività del rapporto con il Servizio sanitario nazionale, sarebbe strettamente funzionale alla tutela della salute (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 50 del 2007). Coerentemente con tale assetto, la legislazione statale consentirebbe al personale di cui alla legge n. 251 del 2000 unicamente il lavoro intra moenia d’équipe.
La legge regionale impugnata, pertanto, intervenendo a disciplinare il profilo soggettivo dell’attività libero professionale intramuraria, inciderebbe su un ambito riservato alla competenza del legislatore statale.
1.2.- Il ricorrente individua un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. n. 6 del 2014, nella parte in cui consente al personale sanitario non medico lo svolgimento di attività libero-professionale «anche in forma intramuraria allargata, presso le Aziende sanitarie locali, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e gli altri enti equiparati». Tale disposizione contrasterebbe con l’art. 1 della legge n. 120 del 2007 in base al quale devono essere le strutture sanitarie a rendere possibile l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria attraverso l’individuazione di appositi spazi per lo svolgimento di tale attività. Solo in via residuale, e previa autorizzazione della Regione, è prevista la possibilità di procedere all’acquisto o alla locazione di spazi presso strutture sanitarie autorizzate non accreditate ovvero presso altri soggetti pubblici.
Tale disposizione costituirebbe un principio fondamentale nella materia della tutela della salute dal momento che questa Corte ha affermato che è da ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, sia «da considerare per la finalità perseguita, in “rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” con le norme-principio che connotano il settore» (è richiamata la sentenza n. 301 del 2013).
L’art. 1 della legge reg. n. 6 del 2014, in contrasto con tale previsione, consentirebbe al personale non medico di cui alla legge n. 251 del 2000 di svolgere attività intramuraria anche presso strutture diverse da quella di appartenenza, contravvenendo al modello delineato dal legislatore statale che pone a carico della struttura di appartenenza il compito di individuare gli spazi da assegnare all’attività intra moenia.
1.3.- Infine, il ricorrente, rilevata la inscindibile connessione dell’art. 1, commi 2 e 3 e degli artt. 2 e 3 con l’art. 1, comma 1, eccepisce l’illegittimità costituzionale anche di tali disposizioni per i medesimi motivi sopra indicati.
2.- Si è costituita in giudizio la Regione Liguria la quale ha chiesto il rigetto del ricorso evidenziando come la legge impugnata troverebbe fondamento nell’esigenza di fronteggiare la forte carenza di professionisti infermieri e tecnici sanitari di radiologia medica, della prevenzione, delle cure riabilitative, della ostetricia e degli altri operatori delle professioni sanitarie non mediche, carenza che si ripercuoterebbe sulla adeguata erogazione di cure a livello territoriale. La legge impugnata, ad avviso della difesa regionale, si collocherebbe nella materia della «organizzazione sanitaria» di competenza residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. (sono richiamate, al riguardo, le sentenze di questa Corte n. 162 e n. 105 del 2007; n. 510 del 2002).
Anche laddove si volesse ritenere che la materia attinta sia quella della «tutela della salute», non vi sarebbe violazione dei principi fondamentali della legislazione statale. La circostanza che il personale sanitario non medico non sia espressamente previsto tra i soggetti legittimati allo svolgimento di attività intramuraria non attesterebbe univocamente l’esistenza di una preclusione allo svolgimento di questa attività. D’altronde, tale personale sarebbe espressamente autorizzato allo svolgimento di attività intramuraria d’équipe e a supporto del professionista dall’art. 1 della legge n. 120 del 2007.
Inoltre, le censure svolte nel ricorso non terrebbero conto dei principi desumibili dalla legge n. 251 del 2000 che coinvolgono le Regioni nel compito di valorizzare e responsabilizzare le professioni sanitarie non mediche, ricollegando tale opera alla realizzazione del diritto alla salute dell’utente.
3.- In prossimità dell’udienza la Regione ha depositato una memoria nella quale ha eccepito l’inammissibilità delle censure statali per genericità delle stesse. Il ricorrente, infatti, non avrebbe specificato in quale modo la scelta regionale di consentire lo svolgimento dell’attività libero-professionale al personale sanitario, di cui alla legge n. 251 del 2000, avrebbe violato i principi fondamentali della legislazione statale nella materia della tutela della salute.
La difesa regionale ha ribadito, poi, che la legge censurata interverrebbe, non già in materia di tutela della salute, bensì in materia di “assistenza e organizzazione sanitaria” riservata alla legislazione regionale. Infatti, l’ampliamento della sfera dei soggetti abilitati all’esercizio della libera professione intramuraria costituirebbe una misura volta a contrastare l’esodo di infermieri professionisti e tecnici sanitari verso la sanità privata e dunque a migliorare le prestazioni del servizio sanitario. L’organizzazione sanitaria, pertanto, si rivelerebbe una condizione necessaria e “prodromica” rispetto alla tutela della salute.
La Regione, pur consapevole che, allorché una norma si presti ad incidere in una pluralità di ambiti competenziali, la giurisprudenza costituzionale utilizza il criterio della “prevalenza”, sostiene che, nel caso di specie, non potrebbe ravvisarsi una prevalenza della materia «tutela della salute» dal momento che la disciplina censurata non inciderebbe sulla natura del rapporto di lavoro del personale – dovendo l’attività libero-professionale essere svolta fuori dall’orario di lavoro – e sarebbe rivolta a garantire la sicurezza nella erogazione delle prestazioni ed elevati standard di assistenza infermieristica e tecnica.
4.- Alla pubblica udienza la difesa regionale, oltre a ribadire le argomentazioni svolte nei propri scritti, ha eccepito l’inammissibilità delle censure per omessa indicazione del parametro interposto asseritamente violato. Lo Stato, infatti, non avrebbe individuato la disposizione che sancisce il principio fondamentale che preclude al personale sanitario di cui alla legge n. 251 del 2000 di svolgere attività libero-professionale intramuraria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività professionale da parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) e successive modificazioni e integrazioni».
La legge regionale censurata, all’art. 1, comma 1, stabilisce che «Al fine di conseguire una più efficace e funzionale organizzazione dei servizi sanitari regionali, il personale che esercita le professioni sanitarie di cui alla L. 251/2000 e successive modificazioni e integrazioni, operante con rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato nelle strutture pubbliche regionali, può esercitare attività libero professionale, al di fuori dell’orario di servizio, anche singolarmente all’interno dell’Azienda e in forma intramuraria allargata, presso le Aziende sanitarie locali, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e gli altri enti equiparati».
La concreta disciplina dell’organizzazione e delle modalità di svolgimento di tale attività è demandata alla Giunta regionale della Liguria che dovrà adottare entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge una direttiva vincolante (art. 1, comma 2). Nei successivi sessanta giorni, le aziende sanitarie provvedono ad adeguare «i rispettivi atti regolamentari ai contenuti della direttiva stessa, in modo che non sorga contrasto con le loro finalità istituzionali e si integri l’assolvimento dei compiti di istituto assicurando la piena funzionalità dei servizi anche nella continuità della cura a domicilio» (art. 1, comma 3).
L’art. 2 prevede che la Giunta regionale presenti annualmente alla competente Commissione consiliare una relazione sull’attuazione della legge medesima. Infine, l’art. 3 pone una clausola di invarianza finanziaria stabilendo che dall’attuazione della legge «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza regionale».
Il ricorrente sostiene che tali previsioni violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost. in quanto si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale nella materia «tutela della salute».
In particolare, l’art. 1, comma 1, permettendo al personale che esercita le professioni sanitarie di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) di svolgere attività libero-professionale intramuraria, disciplinerebbe il profilo soggettivo dell’attività sanitaria intra moenia che attiene ai principi fondamentali in materia di tutela della salute, la cui individuazione è riservata alla legislazione statale.
Inoltre, la medesima disposizione regionale, nella parte in cui consente al personale sanitario non medico lo svolgimento di attività libero-professionale intramuraria anche presso strutture diverse da quella di appartenenza, contrasterebbe con il principio fondamentale in materia di «tutela della salute» stabilito dall’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), in base al quale devono essere le strutture sanitarie di appartenenza a rendere possibile l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria attraverso l’individuazione di appositi spazi per lo svolgimento di tale attività e solo in via residuale, e previa autorizzazione della Regione, possono procedere all’acquisto o alla locazione di spazi presso strutture sanitarie diverse da quella di appartenenza.
Infine, l’art. 1, commi 2 e 3 e gli artt. 2 e 3 della legge reg. n. 6 del 2014, i quali sono inscindibilmente connessi con l’art. 1, comma 1, violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost. per i medesimi motivi sopra indicati.
2.- Preliminarmente, deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità delle censure statali per genericità delle stesse prospettata dalla Regione Liguria, la quale ha sostenuto che il ricorrente non avrebbe specificato in quale modo la scelta regionale di consentire lo svolgimento dell’attività libero-professionale al personale sanitario di cui alla legge n. 251 del 2000 avrebbe violato i principi fondamentali della legislazione statale nella materia della tutela della salute.
In realtà, il ricorrente argomenta in modo adeguato le proprie censure sostenendo che la disciplina regionale determinerebbe un allargamento dell’ambito dei soggetti ai quali la legge statale consente lo svolgimento di attività intramuraria, in tal modo ponendosi in contrasto con i principi fondamentali della materia «tutela della salute» la cui determinazione spetta alla legislazione dello Stato. Sul tema ci si soffermerà più diffusamente nel successivo punto 3 nell’esaminare la specifica eccezione sollevata dalla Regione nella pubblica udienza.
Analogamente, appare sufficientemente e puntualmente argomentata anche la censura concernente la previsione regionale circa l’attività intra moenia cosiddetta «allargata». Il Presidente del Consiglio, infatti, evoca la disposizione statale asseritamente violata, individuandola nell’art. 1 della legge n. 120 del 2007 e illustra le ragioni per cui alla stessa debba riconoscersi la natura di principio fondamentale, richiamando la giurisprudenza di questa Corte la quale ha affermato che nelle materie di competenza ripartita è da ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto vincolato, è da considerare, per la finalità perseguita, in rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione con le norme-principio che connotano il settore (è citata in proposito la sentenza n. 301 del 2013).
Quanto, infine, alla censura avente ad oggetto l’art. 1, commi 2 e 3, e gli artt. 2 e 3, essa risulta motivata, sia pure in termini estremamente sintetici, mediante il rinvio alle argomentazioni svolte in relazione alle altre censure. Il tenore complessivo dell’atto introduttivo rende possibile comprendere tanto le censure rivolte avverso tali disposizioni, quanto le ragioni poste a loro sostegno.
La difesa regionale ha, altresì, eccepito l’inammissibilità del ricorso per omessa indicazione del parametro interposto asseritamente violato, non avendo lo Stato individuato la disposizione che sancisce il principio fondamentale che precluderebbe al personale sanitario di cui alla legge n. 251 del 2000 di svolgere attività libero-professionale intramuraria.
Anche tale eccezione è priva di fondamento. È ben vero che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, laddove si denunci la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. è onere del ricorrente indicare specificamente la disposizione statale che si ritiene violata, ed in particolare il principio fondamentale asseritamente leso (ex plurimis, sentenze n. 165 del 2014 e n. 141 del 2013). Nel caso di specie, tuttavia, tale onere è stato assolto dal ricorrente il quale ha individuato il complesso delle diposizioni statali in materia di attività libero-professionale intramuraria da cui emergerebbe l’esistenza del principio fondamentale di cui si lamenta la violazione. Tali disposizioni sono individuate: nell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) il quale avrebbe introdotto il principio della esclusività del rapporto di lavoro del personale medico con il Servizio sanitario nazionale e la sua incompatibilità con altro rapporto di lavoro dipendente; nell’art. 1, comma 5, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) la quale avrebbe stabilito l’incompatibilità tra attività libero-professionale intramuraria ed extramuraria nonché il divieto di attività libero-professionale extra moenia all’interno delle strutture sanitarie pubbliche diverse da quelle di appartenenza o presso strutture sanitarie private; nell’art. 15-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), il quale ha stabilito che i dirigenti sanitari il cui contratto di lavoro sia stato stipulato successivamente al 31 dicembre 1998, ovvero che alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999 abbiano optato per l’esercizio di attività libero-professionale intramuraria, sono sottoposti al rapporto di lavoro esclusivo con il Servizio sanitario nazionale; nell’art. 15-quinquies, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 il quale dispone che l’attività libero-professionale intramuraria non deve comportare un volume di prestazioni superiore a quello assicurato per l’attività istituzionale e, a tal fine, prevede appositi controlli per accertare eventuali violazioni di tale limite; nell’art. 22-bis, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale ha affidato alle Regioni i controlli sullo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria da parte dei dirigenti medici al fine di verificare il corretto equilibrio di tale attività con quella istituzionale.
Sostiene il ricorrente che dall’insieme delle disposizioni ora richiamate emergerebbe il principio fondamentale in materia di «tutela della salute» che riserva esclusivamente ai dirigenti medici e ai medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale lo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria e solo a particolari condizioni, al fine di assicurare un equilibrato rapporto tra attività istituzionale e libero-professionale. Tale opera di contemperamento presupporrebbe, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale.
L’onere di specifica indicazione del parametro interposto risulta assolto anche con riguardo alla seconda censura, concernente la previsione della attività intra moenia «allargata». In tal caso, il ricorrente ha evocato espressamente la disposizione statale contenente il principio fondamentale di cui denuncia la lesione, individuandolo nell’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007 il quale stabilisce che è la stessa struttura sanitaria di appartenenza del medico ad individuare gli spazi da assegnare all’attività intramuraria e solo in via residuale, e previa autorizzazione regionale, consente di ricorrere alla locazione o all’acquisto di spazi presso altre strutture sanitarie od altri soggetti pubblici.
3.- Nel merito, le questioni prospettate sono fondate.
3.1.- È innanzitutto necessario individuare l’ambito materiale nel quale si collocano le disposizioni regionali impugnate.
Il ricorrente sostiene che esse, in quanto disciplinano l’esercizio della professione sanitaria intramuraria, sarebbero riconducibili alla materia concorrente della «tutela della salute». Per contro, la difesa regionale ritiene che le disposizioni censurate, in quanto rivolte a fronteggiare la carenza di operatori delle professioni sanitarie non mediche, atterrebbero alla materia della «organizzazione sanitaria» rientrante nella competenza residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
In realtà, questa Corte ha già avuto modo più volte di chiarire che le disposizioni concernenti l’attività sanitaria intramuraria debbono essere ricondotte alla materia della «tutela della salute». Infatti, «il “nuovo quadro costituzionale”, delineato dalla legge di riforma del titolo V della parte II della Costituzione, recepisce (…) una nozione della materia ‘tutela della salute’ “assai più ampia rispetto alla precedente materia ‘assistenza sanitaria e ospedaliera’”, con la conseguenza che le norme attinenti allo svolgimento dell’attività professionale intramuraria, “sebbene si prestino ad incidere contestualmente su una pluralità di materie (e segnatamente, tra le altre, su quella della organizzazione di enti ‘non statali e non nazionali’)”, vanno “comunque ascritte, con prevalenza, a quella della ‘tutela della salute'”. Rileva, in tale prospettiva, “la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale” (sentenze n. 181 del 2006 e n. 50 del 2007)» (così la sentenza n. 371 del 2008. Negli stessi termini, da ultimo, sentenza n. 301 del 2013).
Questa Corte ha, invece, escluso che le disposizioni attinenti alla disciplina dell’attività intramuraria, ivi comprese quelle concernenti la predisposizione delle strutture a tal fine necessarie, possano essere ricondotte alla materia della “organizzazione sanitaria” dal momento che tale ambito «neppure può essere invocato come “materia” a sé stante, agli effetti del novellato art. 117 Cost., in quanto l’organizzazione sanitaria è parte integrante della “materia” costituita dalla “tutela della salute” di cui al terzo comma del citato art. 117 Cost.» (sentenza n. 371 del 2008).
Dunque, alla luce della giurisprudenza costituzionale si deve affermare che la legge della Regione Liguria n. 6 del 2014, nel riconoscere agli esercenti delle professioni sanitarie non mediche la possibilità di svolgere attività libero-professionale intra moenia, si colloca nell’ambito della materia «tutela della salute».
3.2.- Il ricorrente sostiene che l’individuazione dell’ambito dei soggetti ammessi allo svolgimento di tale attività costituirebbe espressione di un principio fondamentale della materia, come tale riservato al legislatore statale e che la legge regionale impugnata, estendendo tale ambito, eccederebbe dalla sfera di competenza ad essa riservata, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Per verificare la fondatezza della questione è opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione della normativa in materia.
Fin dalla legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera) al personale medico degli istituti di cura e degli enti ospedalieri era riconosciuta la possibilità, nelle ore libere dalle attività istituzionali, di svolgere la libera professione, anche nell’ambito della struttura sanitaria di appartenenza (art. 43, comma 1, lettera d).
Il d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri) aveva poi specificato che il rapporto di lavoro del personale medico poteva essere, a scelta dell’interessato, a tempo pieno ovvero a tempo definito: nel primo caso il medico rinunciava alla attività libero-professionale extra ospedaliera (art. 24, comma 3, lettera a), a fronte di un premio di servizio che compensava detta rinuncia e aveva «priorità per l’esercizio dell’attività professionale nell’ambito dell’ospedale» (art. 47, comma 12). Nel secondo caso, il sanitario poteva svolgere l’attività professionale anche fuori dalla struttura sanitaria, nel rispetto, comunque, dell’orario di servizio (art. 24, comma 3, lettera b).
Successivamente, la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) aveva espressamente riconosciuto il diritto allo svolgimento della libera professione al personale medico ed ai veterinari dipendenti dalle unità sanitarie locali (art. 47, comma 3, numero 4) sul presupposto che ciò potenziasse le capacità del medico, nell’interesse degli utenti e della collettività. Così, in attuazione della delega contenuta nella legge ora richiamata, il d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali) aveva previsto per il personale medico che avesse scelto il rapporto di lavoro a tempo pieno il diritto all’esercizio dell’attività libero-professionale nell’ambito dei servizi e delle strutture della unità sanitaria locale (art. 35, comma 2, lettera d). Al di fuori di tale ambito, l’attività in questione era limitata solo a «consulti e consulenze, non continuativi» specificamente autorizzati (art. 35, comma 2, lettera c). Per i medici che avessero, invece, optato per il rapporto di lavoro a tempo definito era prevista la facoltà di esercitare l’attività libero-professionale «anche fuori dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale», purché tale attività non fosse prestata con rapporto di lavoro subordinato (art. 35, comma 3, lettera c).
La legge n. 412 del 1991, poi, «liberalizzava del tutto l’esercizio dell’attività professionale sia extra che intramuraria e incentivava “la scelta per il rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal “tempo definito” al “tempo pieno”, anche in soprannumero» con la conseguente incidenza sulla retribuzione (sentenza n. 50 del 2007).
Successivamente, il d.lgs. n. 502 del 1992 ha introdotto meccanismi per incentivare l’attività intra moenia, prevedendo, altresì, la necessità di individuare appositi spazi da riservare allo svolgimento della libera professione intramuraria con la possibilità, in mancanza, di reperirli all’esterno tramite la stipula di convenzioni tra le unità sanitarie e altre case di cura pubbliche o private. L’art. 15-quater, comma 4, del decreto legislativo, come modificato dall’art. 2-septies del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138, ha riconosciuto a tutti i dirigenti sanitari pubblici la possibilità di optare per il rapporto di lavoro esclusivo, ovvero per quello non esclusivo entro il 30 novembre di ciascun anno, con effetto dal 1° gennaio dell’anno successivo, salva la facoltà per le Regioni di stabilire una cadenza temporale più breve.
L’art. 15-quinquies del citato decreto, introdotto dall’art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999, ha stabilito che il rapporto di lavoro esclusivo comporta la totale disponibilità nello svolgimento delle funzioni dirigenziali attribuite dall’azienda con impegno orario contrattualmente definito. Inoltre, all’opzione per tale tipologia di rapporto segue il diritto all’esercizio dell’attività libero-professionale, al di fuori dell’orario di servizio, nell’ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale, d’intesa con il collegio di direzione. La medesima disposizione ha fissato, altresì, dei limiti al volume di tale attività al fine di assicurare un «corretto ed equilibrato rapporto» tra di essa e l’attività istituzionale stabilendo che l’attività libero-professionale non può comportare un volume di prestazioni superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali, rinviando alla disciplina contrattuale nazionale la definizione del corretto equilibrio tra le due tipologie di attività (comma 3).
L’art. 1, della legge n. 120 del 2007, infine, ha fatto carico alle Regioni di predisporre le strutture necessarie per consentire al personale medico lo svolgimento dell’attività intramuraria, consentendo, in mancanza e nelle more della loro realizzazione o individuazione, di reperire spazi sostitutivi in strutture non accreditate, ovvero di utilizzare, previa autorizzazione, studi professionali privati. Tale disposizione ha, inoltre, stabilito che le Regioni debbano garantire, attraverso proprie linee guida, che «le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli IRCCS di diritto pubblico gestiscano, con integrale responsabilità propria, l’attività libero-professionale intramuraria, al fine di assicurarne il corretto esercizio», ed ha individuato le modalità con cui tale finalità deve essere assicurata. In particolare, è prevista l’adozione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di sistemi e di moduli organizzativi e tecnologici che consentano il controllo dei volumi delle prestazioni libero-professionali, che non devono superare, globalmente considerati, quelli eseguiti nell’orario di lavoro (comma 4, lettera a); il pagamento di prestazioni di qualsiasi importo direttamente al competente ente o azienda del Servizio sanitario nazionale, mediante mezzi di pagamento che assicurino la tracciabilità della corresponsione di qualsiasi importo (comma 4, lettera b); la definizione degli importi da corrispondere a cura dell’assistito, idonei per ogni prestazione, a remunerare i compensi del professionista, dell’équipe, del personale di supporto, nonché ad assicurare la copertura di tutti i costi diretti e indiretti sostenuti dalle aziende, compresi quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli onorari (comma 4, lettera c); la prevenzione delle situazioni che possono determinare l’insorgenza di un conflitto di interesse o di forme di concorrenza sleale (comma 4, lettera e); il progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell’ambito dell’attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di libera professione intramuraria «al fine di assicurare che il ricorso a quest’ultima sia conseguenza di libera scelta del cittadino e non di carenza nell’organizzazione dei servizi resi nell’ambito dell’attività istituzionale» (comma 4, lettera g).
Come appare chiaro dalla normativa richiamata, la disciplina dell’attività libero-professionale intramuraria ha sempre riguardato specificamente il personale medico, nonché, ai sensi degli artt. 4, comma 11-bis e 15 del d.lgs. n. 502 del 1992, il personale della dirigenza del ruolo sanitario, costituito da farmacisti, biologi, chimici, fisici e psicologi secondo quanto specificato dall’art. 3 del d.P.C.m. 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale). Quanto ai veterinari del servizio pubblico, il d.P.R. n. 761 del 1979 ha riconosciuto loro la facoltà di svolgere attività libero-professionale fuori dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale (art. 36).
Nulla, invece, è previsto per il personale sanitario non medico, ad eccezione di quanto stabilito dall’art. 30, comma 4, del R.D. 30 settembre 1938 n. 1631 (Norme generali per l’ordinamento dei servizi sanitari e del personale sanitario degli ospedali), il quale dispone che «Tanto alla ostetrica capo che alle ostetriche è inibito l’esercizio professionale».
Non può condividersi l’assunto della difesa regionale secondo la quale il personale non medico sarebbe già abilitato all’esercizio della libera professione in équipe e a supporto del professionista in forza dell’art. 1, comma 4, lettera c), della legge n. 120 del 2007. Tale disposizione, infatti, si limita semplicemente a prevedere che gli importi da corrispondere a carico dell’assistito per la prestazione libero-professionale intra moenia devono remunerare anche i compensi dell’équipe e del personale di supporto.
3.3.- La circostanza che lo svolgimento dell’attività libero-professionale all’interno della struttura sanitaria sia stato previsto e disciplinato espressamente solo per i medici e i dirigenti del ruolo sanitario assume – diversamente da quanto sostenuto dalla difesa regionale – il preciso significato di circoscrivere a tali categorie il riconoscimento del diritto in questione.
In tal senso depongono una pluralità di elementi. Innanzitutto, occorre considerare che nel settore sanitario l’esercizio dell’attività libero-professionale – come si è visto – si atteggia con caratteristiche del tutto peculiari, sia quanto alle conseguenze che l’opzione per il suo svolgimento intra moenia determina sulla tipologia del rapporto di lavoro, sia quanto alle conseguenze relative all’organizzazione delle strutture sanitarie nelle quali essa è esercitata. Sotto il primo profilo è previsto che l’opzione per l’esercizio dell’attività intramuraria determina l’assoggettamento del sanitario al rapporto di lavoro esclusivo (art. 15-quater, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992) con la conseguente totale disponibilità nello svolgimento delle funzioni attribuite dall’azienda, nonché l’incompatibilità con l’esercizio dell’attività libero-professionale extra moenia, secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 5, della legge n. 662 del 1996.
Sotto il secondo profilo, la necessità per le strutture sanitarie di consentire lo svolgimento della libera professione intramuraria per il personale medico e sanitario che abbia esercitato la relativa opzione determina il sorgere dell’onere per le stesse di assumere le iniziative volte a reperire gli spazi a tal fine necessari, predisporre gli strumenti organizzativi per le attività di supporto (quali il servizio di prenotazione e di riscossione degli onorari), individuare sistemi e moduli organizzativi per il controllo dei volumi delle prestazioni libero-professionali, prevenire situazioni che possano determinare l’insorgere di situazioni di conflitto di interessi o forme di concorrenza sleale (art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007).
Tutto ciò rende evidente come le disposizioni che disciplinano l’attività intramuraria «rappresentano un elemento tra i più caratterizzanti nella disciplina del rapporto fra personale sanitario ed utenti del Servizio sanitario, nonché della stessa organizzazione sanitaria» (sentenza n. 50 del 2007). D’altra parte questa Corte ha già riconosciuto a diverse disposizioni che disciplinano questa materia la natura di principio fondamentale. Ciò vale, in particolare, per la previsione (art. 15-quater, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992, modificato dall’art. 2-septies del decreto-legge n. 81 del 2004, come convertito) che riconosce ai dirigenti medici e del ruolo sanitario la facoltà di scelta tra il regime di lavoro esclusivo e non esclusivo, in quanto volta «a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti» (sentenza n. 50 del 2007; sentenza n. 371 del 2008). Ha, inoltre, affermato che partecipa della medesima natura di principio fondamentale anche la disciplina dettata dall’art. 1 della legge n. 120 del 2007 volta ad assicurare che non resti priva di conseguenze, in termini di concrete possibilità di svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria, l’opzione compiuta dal sanitario in favore del rapporto di lavoro esclusivo (sentenza n. 371 del 2008). In questo quadro, anche la disciplina del profilo soggettivo dell’attività intra moenia riveste la natura di principio fondamentale della materia, in quanto volta a definire uno degli aspetti più qualificanti della organizzazione sanitaria, ovverosia quello della individuazione dei soggetti legittimati a svolgere la libera professione all’interno della struttura sanitaria, il quale richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale.
Conseguentemente, l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Liguria n. 6 del 2014, nell’estendere al personale sanitario non medico di cui alla legge n. 251 del 2000 la facoltà di svolgere tale attività, ha esorbitato dall’ambito riservato alla legislazione regionale, violando l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.4.- L’accoglimento della prima questione implica, quale diretta conseguenza, che anche le questioni promosse con riguardo alle altre disposizioni regionali sono fondate. Esse, infatti, disciplinano tutte lo svolgimento dell’attività intra moenia da parte del personale sanitario non medico, di tal che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che riconosce tale facoltà determina la caducazione delle restanti disposizioni ad essa collegate.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività professionale da parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) e successive modificazioni e integrazioni».