Il convegno svoltosi il 29.06.2017 sul tema de’ “Il risarcimento del danno nel rapporto di lavoro” si iscrive in una delle molteplici iniziative di pregio organizzate dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nocera Inferiore, sempre attento alle novità scientifiche ed agli aggiornamenti e sempre disposto a garantire un’offerta formativa utile all’elevazione della preparazione e della qualità degli operatori giuridici ed, in particolare, degli avvocati.
Dopo i saluti iniziali del Presidente del COA di Nocera Inferiore, Avv. Aniello Cosimato, e del Presidente della Camera degli Avvocati Giuslavoristi del foro di Nocera Inferiore, Avv. Renato Guerritore, prendeva la parola l’illustre Giuslavorista del foro di Nocera Inferiore, Avv. Mario Cretella, cui era stato affidato il compito di introdurre il tema oggetto del convegno e, quindi, di illustrare l’opera del Dott. Gustavo Danise, Giudice Civile presso il Tribunale di Nocera Inferiore, ma già Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Lamezia Terme, dedicata proprio al risarcimento del danno nel rapporto di lavoro (G. Danise, Il risarcimento del danno nel rapporto di lavoro”, Giuffrè Editore, Milano, 2017).
L’Avv. Mario Cretella soggiungeva così: “Accolgo con entusiasmo l’invito rivoltomi per la presentazione della monografia del dott. Danise elaborata sull’interessantissimo tema del risarcimento del danno nel rapporto di lavoro, tema tutt’altro che pacifico e scontato.
Infatti, l’applicazione pratica degli istituti che daranno vita alle fonti del risarcimento è stata e, con tutta probabilità, ancora sarà oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale, come avviene per qualsiasi altra tematica di interesse giuridico.
Al riguardo, mi preme evidenziare come il lavoro del Dott. Danise risulti una mirabile sintesi di dottrina e giurisprudenza raccolta sul tema e come la monografia risulterà un prezioso ausilio di rapida consultazione per i giuslavoristi.
Una sorta di vademecum elaborato per il tema del risarcimento del danno per il lavoratore, capace di offrire rapidamente all’operatore gli orientamenti salienti e per muoversi entro linee-guida affidabili e principalmente oggettive.
[…] Il maggior pregio della monografia alla nostra attenzione è il taglio operativo che la stessa rileva”.
“Tutti gli istituti esaminati dalla monografia postulano, ovviamente, un’inadempimento datoriale dal quale discende danno al lavoratore e, dunque, il diritto ad essere risarcito.
Si va dall’inadempimento, per così dire più lieve, qual è la risoluzione senza preavviso, alla situazione più rilevante del cd. danno differenziale […].
Molta attenzione la monografia riserva al diritto al risarcimento derivante dal licenziamento, esponendo una generosa e completa elencazione di tutte le ipotesi espulsive patologiche a danno del lavoratore, quali il licenziamento nullo (ad esempio il licenziamento a causa di matrimonio o a causa di maternità), il licenziamento inefficace, qual è quello orale, il licenziamento illegittimo, in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo”.
“Per ognuna delle predette ipotesi, come meglio ci dirà lo stesso Autore, è previsto un risarcimento, talvolta determinato con criteri legali, talvolta quantificati dal giudice.
Particolare interesse suscita la questione trattata sul danno da demansionamento, poiché l’argomento offre la possibilità di cogliere l’evoluzione (o meglio forse l’involuzione) della norma che presiede alla relativa tutela.
In particolare, l’Autore evidenzia come l’originaria norma del divieto di demansionamento contemplato dall’art. 2013 cc sia stata profondamente modificata dal D. Lgsl. n. 81/2015, attuativo del Jobs Act, norma che ha, di fatto, come lo stesso Autore osserva, “incrementato le ipotesi derogatorie al predetto divieto”. In pratica, mentre prima della citata riforma il diritto a conservare l’originaria mansione per la quale il lavoratore era stato assunto era assoluto, dopo la riforma tale diritto risulta fortemente “affievolito”, per tutte le ragioni esposte nella monografia, di cui il dott. Danise di qui a poco compiutamente ci dirà”.
“Particolarmente piacevole ed interessante risulta, poi, il percorso giurisprudenziale, tracciato nella monografia, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione a partire dal 1986 al 2003, periodo durante il quale è venuto a fiorire il principio secondo cui la violazione dei diritti inviolabili inerenti alla persona configura un caso determinato dalla legge che da’ titolo all’interessato ad ottenere la riparazione del danno non patrimoniale.
Tutto ciò assume massimo interesse se solo si consideri che l’ordinamento, prima dell’affermazione di tali principi giurisprudenziali, consentiva il ristoro del danno non patrimoniale solo se il fatto fosse penalmente rilevante”.
“Dalla monografia ci viene, inoltre, un preziosissimo aiuto per quel che attiene la problematica del mobbing, poiché l’Autore ci avverte, con molto realismo e con dovizia di particolari di rilievo giuridico-scientifici, di quante difficoltà si incontrino per coltivare un’azione di mobbing, tenuto conto della molteplicità e del concatenamento dei requisiti e dei presupposti che devono coesistere nella relativa azione giudiziaria (figura, peraltro, quella del mobbing non definita esplicitamente dall’ordinamento).
Interessante è, poi, l’inquadramento dei tipi di responsabilità che l’Autore individua nella condotta mobbizzante, poiché, egli qualifica tale responsabilità come aquilana ex art. 2043 cc, ma anche quella contrattuale ex art. 2087 cc, nonché ex art. 2049 cc, ove il mobbing venisse consumato da altri compagni di lavoro (mobbing orizzontale).
I due tipi di responsabilità, quella extracontrattuale e quella contrattuale ben potrebbero, dunque, coesistere, ovvero essere invocate alternatvamente, tenendo presente che nei casi di cui all’art. 2043 cc, l’onere probatorio è a carico del creditore (oltre ai differenti termini prescrizionali)”.
“Il danno da mobbing viene inquadrato tra quelli non patrimoniali (pur sempre risarcibile per come l’Autore ha chiarito), qualificandolo sulla scorta degli oneri economici affrontati dal mobbizzato e per il resto (danno biologico, morale, esistenziale) ex art. 1226 cc in via equitativa.
Accanto a tale forma di ristoro, vi è poi quella della tutela in forma specifica, ovvero la reintegrazione nella mansione della quale il lavoratore era stato privato.
Il capitolo riservato al risarcimento dal danno alla salute patito dal lavoratore in esecuzione della propria obbligazione offre al lettore notevole panoramica sulla dinamica degli eventi dannosi che vanno dalle lesioni, alla morte, con relative conseguenze risarcitorie”.
“L’opera in esame dedica molto sforzo e molta cura alla normativa che disciplina i contratti di lavoro a termine, una innovazione socio-giuridica, si è detto, resasi necessaria dai tempi, ma, come è ben noto, tale situazione ha precarizzato in buona parte il mondo del lavoro ed, ancor peggio, ha prodotto, in particolare nelle nuove generazioni, un senso di precarietà della stessa vita, un clima nel quale si fa fatica a progettare un futuro credibile.
Auguriamoci, perciò, un’inversione di tendenza, che tragga il suo fondamento dalla rinascita economica, in cui nuova tecnologia e progresso scientifico trovi il tempo di riconsiderare l’uomo, che rimane ancora il primo motore di ogni evoluzione”.
L’Avv. Mario Cretella, quindi, cedeva la parola al Dott. Gustavo Danise, che in maniera autorevole e dinamica, senza mai tediare la platea, ripercorreva i punti salienti delle maggiori problematiche dell’argomento oggetto dell’evento formative e trattate nel suo libro.
Il Dott. Gustavo Danise sottolineava di aver voluto privilegiare nella sua monografia, destinata agli avvocati, quegli istituti che presentavano maggiore contenzioso nelle aule di tribunale.
L’insigne magistrato, quindi, passava a puntualizzare quanto di seguito si cercherà di sintetizzare.
Il credito che può vantare il lavoratore danneggiato è diverso da quello di qualsiasi cittadino danneggiato.
Esistono, infatti, vistose e profonde “deviazioni” nel risarcimento del danno in materia di diritto del lavoro rispetto a quello che è oggetto di un giudizio civile.
Tali “deviazioni” sono determinate dalla figura e dagli interessi sociali che sono rappresentati dalla categoria dei lavoratori.
Nel caso in cui il danneggiato sia un lavoratore, che abbia subito un inadempimento contrattuale, il Legislatore, volendo tutelare il lavoratore, considerato come una categoria debole e svantaggiata, sia sotto il profilo sociale che economico rispetto al datore di lavoro, lo agevola, lo aiuta.
In pratica, il Legislatore offre al lavoratore una serie di strumenti per cui il ricorso e l’accesso alla misura risarcitoria risulta molto più snella rispetto a quella prevista per un normale creditore privato di fronte all’inadempimento contrattuale altrui.
Nell’ipotesi, ad esempio, di licenziamento nullo perché discriminatorio, alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 cc) si affianca una tutela risarcitoria per equivalente (art. 2058 co 2 cc) per il periodo pregresso.
Orbene, mentre un normale creditore dovrebbe dimostrare il danno patrimoniale ricevuto e compiere anche un’attività istruttoria, avvalendosi magari di ctu e di testimoni, in materia di lavoro, invece, è il Legislatore stesso che “predetermina” la misura del risarcimento.
Il Legislatore individua le causali del risarcimento e la misura del risarcimento, esonerando il lavoratore, sostanzialmente, anche dall’onere di dover provare il danno patrimoniale che ha subito.
Inoltre, contrariamente a quanto si verifica in caso di normale credito da inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, con l’art. 437 cc, il Legislatore, a monte, predetermina già la possibilità che la somma spettante al lavoratore debba essere comprensiva anche di rivalutazione monetaria.
Esiste, pertanto, nel nostro ordinamento uno statuto normativo altamente protettivo per i lavoratori.
Nell’ipotesi sopra richiamata, dunque, del licenziamento nullo-discriminatorio, il lavoratore deve semplicemente dimostrare l’atto del licenziamento, mentre tutto il piano probatorio si sposta in capo al datore di lavoro.
Ecco che, laddove il giudice del lavoro dovesse riscontrare l’illiceità dell’atto espulsivo, il lavoratore avrebbe già la possibilità di ottenere il risarcimento nella forma precisata dal Legislatore.
Il principio è che quanto più l’interesse del lavoratore è di livello costituzionale, tanto più interviene il Legislatore in funzione protettiva a favore della categoria dei lavoratori.
Il principale interesse sociale del lavoratore di livello costituzionale ed immediato è la retribuzione (artt. 2 e 4 Cost).
Come è noto, l’indennità che viene corrisposta a seguito di un licenziamento nullo-discriminatorio deve essere minimo pari a cinque mensilità.
La giurisprudenza maggioritaria ha affermato che questa indennità sia una misura omnicomprensiva del risarcimento del danno.
Il problema che si è posto è se è possibile da parte del lavoratore invocare ulteriori voci risarcitorie oltre a quella del danno patrimoniale (ad esempio il danno esistenziale da inattività).
La giurisprudenza sul punto appare possibilista. Tuttavia, in questo caso, l’onere della prova dovrà essere assolto secondo i criteri ordinari di cui all’art. 2697 cc., ad esempio attraverso una CTU che dovrebbe dimostrare il danno biologico (il cd. stato ansioso depressivo di tipo reattivo).
In tema di licenziamento, un problema grossissimo è rappresentato dall’onere della prova.
Ad esempio, in caso di licenziamento discriminatorio, il lavoratore dovrebbe fornire la prova di essere stato licenziato per motivi discriminatori (ad esempio, perché simpatizzante per un partito politico e per tale motivo divenuto inviso al datore di lavoro che lo licenzia).
Per giurisprudenza, spetterebbe al lavoratore l’onere di dimostrare che il licenziamento è discriminatorio.
Rappresenta questa una chiara situazione di probatio diabolica, nel senso che è difficile e complesso riuscire a provare qualcosa che sia nell’animo di un’altra persona.
La giurisprudenza ha rimeditato il proprio orientamento, sicché in numerose sentenze, benché l’onere della prova rimanga a carico del lavoratore, esso è semplificato attraverso il ricorso a presunzioni semplici.
Nell’esaminare macro-argomento del demansionamento, giova ricordare che attualmente la normativa stabilisce che nessun lavoratore possa essere adibito a mansioni inferiori a quelle previste nella categoria in cui è inquadrato.
Il Legislatore, quindi, ha sostituito il criterio delle mansioni, che è quello di più immediata riferibilità del lavoratore in azienda, con quella della categoria di appartenenza.
Con la conseguenza che se, in sede di contrattazione collettiva, venissero previsti nell’ambito di una stessa categoria o qualifica delle mansioni diverse, di cui l’una possa essere oggettivamente apprezzata come inferiore all’altra, l’atto del datore di lavoro, che adibisse il lavoratore a questa mansione più dequalificante rispetto a quella per cui fu assunto, comunque sarebbe valido.
Inoltre, sono state previste nuove causali in cui il demansionamento è legittimo: – se è previsto dai contratti collettivi; – se è frutto di un accordo individuale tra lavoratore e datore di lavoro garantito ai sensi dell’art. 2103 cc.
Da tanto, è evidente che rispetto al passato lo spazio per demansionamento come illecito contrattuale è molto ridotto.
Il demansionamento dovrebbe allegarlo il lavoratore. Si tratta, come è ovvio, di una prova abbastanza semplice. Pertanto, in concreto, dovrebbe essere il datore si lavoro a provare il contrario.
Se questa prova non viene offerta dal datore di lavoro, vi è lo spazio per il risarcimento, oltre alla reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte.
Chi deve provare il danno?
Con alcune sentenze la Cassazione ha affermato che il danno da demansionamento è un danno in re ipsa.
Secondo altre pronunce, invece, il lavoratore danneggiato, secondo l’ordinario criterio di riparto dell’onere della prova, dovrebbe dimostrare il danno.
A deridere il suddetto contrasto, sono intervenute le Sezione Unite con la sentenza 6572/2006, ove si è accordata preferenza al secondo dei due orientamenti.
Quanto alle misure del risarcimento, rispetto al passato la giurisprudenza consente al lavoratore un vasto bagaglio di voci risarcitorie.
Si va da un risarcimento del danno patrimoniale a un danno da perdita di professionalità.
In tale danno si inquadrerebbe anche la tipologia del danno da perdita di chance professionale.
Per alcuni autori ed alcune pronunce la perdita di chance sarebbe la perdita di un’occasione.
Secondo altri autori ed altre pronunce sarebbe un’occasione persa.
A seconda dell’adozione della prima o della seconda soluzione, la chance diviene un danno emergente ovvero un lucro cessante, con le ovvie conseguenze risarcitorie.
Quanto al mobbing, il Dott. Danise precisava che allo stato attuale esso è una figura di illecito che la giurisprudenza considera come illecito aquiliano.
Si tratta di un illecito abituale che necessariamente deve comporsi di una serie di condotte tutte con finalità mobbizzante.
Il mobbing genera nel lavoratore un disagio mentale che lo induce, in alcuni casi, a dimettersi.
Una volta dimostrato l’esistenza del mobbing, esso consente il risarcimento del danno (morale, biologico esistenziale) e sarà la CTU a quantificare l’entità del risarcimento.
A parere del Dott. Danise, ampiamente condiviso — per onestà intellettuale e non certamente per opportunismo — dalla platea dei giuslavoristi presenti, sia per quanto riguarda il mobbing che per i danni da infortunio sul lavoro, la responsabilità del datore di lavoro è sicuramente contrattuale e trova il suo fondamento nell’art. 2087 cc., sebbene la Cassazione, tante volte, ha ritenuto di ricondurre la responsabilità del datore di lavoro al principio del neminem ledere, per cui per la Cassazione l’illecito datoriale andrebbe inquadrato nell’art. 2043 cc.
Per la liquidazione del danno si utilizza in quasi tutti i tribunali le tabelle milanesi.
Altro importante argomento affrontato dal Dott. Danise è rappresentato dal danno alla salute, che si snoda attraverso l’esame del danno da infortunio sul lavoro, del danno in itinere, del cd. danno differenziale, del danno da perdita della vita, ed, infine, del danno terminale e catastrofale.
In tema di danno alla salute, l’art. 2087 cc assume una funzione centrale, oltre che di chiusura dello sistema di protezione del lavoratore sui luoghi di lavoro.
L’art. 2087 cc, infatti, pone a carico del datore di lavoro un vero e proprio obbligo di protezione del lavoratore oppure un obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro.
In alcuni casi, tuttavia, l’iper-protezione dello stato del lavoratore offre al lavoratore stesso la possibilità di debordare e di abusare.
Ad esempio, la violazione del contratto di lavoro a termine comportava l’inefficacia del termine apposto al contratto, con la conseguenza che il contratto stesso dovesse intendersi a tempo indeterminato.
Purtroppo, tale struttura iper-protettiva per il lavoratore presentava delle falle che consentivano delle situazioni di abuso a favore del lavoratore e contro il datore di lavoro (come verificatosi nel noto caso dei numerosi contenziosi instaurati dai trimestrali di Poste Italiane).
In pratica, la Legge dava ai lavoratori la possibilità di poter abusare di tale posizione.
Prima ancora del Legislatore, è intervenuta la Giurisprudenza, per tentare di lenire, almeno parzialmente, le conseguenze sfavorevoli che i datori di lavoro (come Poste italiane) subivano rispetto a questi comportamenti abusivi dei lavoratori a tempo determinato.
Si notano, infatti, sentenze che stabiliscono che se il lavoratore agisce dopo troppo tempo dalla cessazione del contratto di lavoro a termine ovvero a ridosso dei cinque anni prescrizionali, ha perso l’interesse al lavoro.
Successivamente, con il Collegato al Lavoro, il Legislatore ha posto un argine a tali condotte.
Il dott. G. Danise, dunque, illustrava brillantemente i macro-argomenti contenuti nella Sua opera, che, però, è ricca di ulteriori utilissimi approfondimenti giurisprudenziali e di spunti pratici su aspetti anche più specifici e particolari inerenti al vastissimo tema del risarcimento del danno nel rapporto di lavoro, contribuendo con semplicità ed immediatezza all’arricchimento professionale dei fortunati partecipanti al convegno.