La Corte di Cassazione, con la Sentenza 9 febbraio-22 marzo 2004 n. 13912, afferma che la falsa dichiarazione di avere smarrito un assegno, consegnato, invece, in pagamento a un altro soggetto, integra il reato di calunnia, poiché simula, ai danni del prenditore del titolo, il reato di furto o di ricettazione, e non, eventualmente, quello di appropriazione smarrita.
Infatti, la Corte spiega che perché possa configurarsi quest’ultimo reato, necessiterebbe che la cosa sia uscita definitivamente dalla sfera di disponibilità del legittimo possessore e che questi non sia in grado di ripristinare su di essa il primitivo potere.
È di tutta evidenza che tutto ciò non può verificarsi in relazione all’assegno, in quanto è sicuramente e agevolmente sempre possibile risalire, sulla base delle annotazioni ivi contenute, al titolare del conto.
Ne consegue che chi se ne impossessasse illegittimamente commetterebbe o il reato di furto o quello di ricettazione, anziché quello di appropriazione di cosa smarrita.
Poiché la calunnia si configura rispetto ai reati di furto e/o di ricettazione, è irrilevante, ai fini della sussistenza della medesima, il fatto che alla denuncia di smarrimento non abbia fatto seguito la proposizione della querela per i reati di appropriazione di cosa smarrita e di falso in assegno.
La Suprema Corte, in proposito, soggiunge che, ai fini della configurabilità del dolo del reato di calunnia, è necessario che colui che formula la falsa accusa abbia intenzionalmente voluto accusare di un reato altra persona, avendo la certezza dell’innocenza di questi.
In particolare, si osserva che l’intenzionalità dell’incolpazione e la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’incolpato sono due dati che vanno tenuti concettualmente distinti e che devono entrambi ricorrere ai fini dell’elemento soggettivo del reato de quo, che è infatti integrato solo nel caso in cui vi sia esatta corrispondenza tra momento rappresentativo e momento volitivo.
Tanto è vero che l’erronea convinzione dell’imputato circa la colpevolezza del soggetto accusato esclude il dolo, purché tale convincimento si basi su elementi seri e concreti e non su semplici supposizioni.
Corte di Cassazione, Sentenza 9 febbraio-22 marzo 2004 n. 13912
Fatto e diritto
1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza 26 novembre 2002 pronunciata a seguito di appello del Procuratore della Repubblica, riformava la decisione 1° giugno 2001 del locale Tribunale che aveva assolto D. G. perché il fatto non sussiste dal delitto di calunnia, addebitatogli perché, con falsa denuncia di smarrimento presentata il 21 ottobre 1997 ai carabinieri, accusava, pur sapendolo innocente, del reato di furto e di ricettazione i legali rappresentanti della TIM spa, beneficiaria di un assegno di conto corrente dell’importo di lire 12.500.000 consegnato al D.G., privo di provvista, dal suo datore di lavoro. Condannava conseguentemente l’imputato, concesse le circostanze attenuanti generiche e la diminuente del rito abbreviato, alla pena di anno uno di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
Rilevava la Corte territoriale come non potesse accedersi alla tesi del Tribunale circa l’insussistenza del delitto di cui all’art. 368 c.p. affermata perché l’assegno bancario deve considerarsi cosa smarrita a prescindere dai segni esteriori percepibili dall’agente di un precedente legittimo ma ormai non più esistente possesso altrui e che commette il delitto previsto dall’art. 647 c.p., punibile a querela (dunque sottratto all’ambito della fattispecie contestata) e non già quello di furto o di ricettazione, colui che si appropri di un assegno smarrito, non essendo più sussistente l’altrui possesso come richiesto per la configurazione del furto. Il possesso, infatti, può essere conservato anche solo animo e la relazione materiale con il titolo può essere, nel caso di smarrimento, ripristinato in quanto l’assegno potrà comunque essere portato all’incasso. Dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sul tema, il giudice a quo osserva che, a fronte di una denuncia di smarrimento di un assegno e della successiva notizia che il titolo sia stato portato all’incasso l’autorità giudiziaria inquirente comunque deve iniziare le indagini dirette a verificare se sia configurabile, a seconda dei casi, il reato di furto o di ricettazione ovvero solo eventualmente il reato di appropriazione indebita di cosa smarrita. Con la conseguenza che, poiché requisito necessario del delitto di calunnia è l’idoneità della falsa denuncia a determinare l’inizio del procedimento penale o comunque di indagini da parte dell’autorità giudiziaria, tale requisito deve ritenersi sussistente nel caso di specie.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il D. G. deducendo due ordini di motivi.
Con il primo denuncia violazione della legge penale, segnalando una vistosa incongruenza nella giurisprudenza di legittimità, la quale, per un verso, ha ritenuto che la falsa denuncia di smarrimento di un assegno integra gli estremi del delitto di calunnia, senza che rilevi l’esistenza di un’istanza di punizione e, per un altro verso, ha affermato che l’assegno bancario deve considerarsi cosa smarrita a prescindere dai segni esteriori percepibili dall’agente di un precedente legittimo – ma ormai non più esistente – possesso altrui con la conseguenza che l’appropriazione di un assegno smarrito integra il delitto di cui all’art. 647 c.p. e non il delitto di furto, per la cui configurazione occorre la sussistenza attuale del possesso altrui al momento della lesione. Senza contare che l’ultimo comma dell’articolo ora ricordato prende in considerazione, come ipotesi aggravata, proprio il caso della conoscenza, da parte del proprietario della cosa, di chi se ne è impossessato.
Inoltre, in presenza di una denuncia di smarrimento di un assegno gli inquirenti non sono legittimati ad aprire un’indagine per reati quali il furto o la ricettazione perché il possesso di un titolo di cui sia stato denunciato lo smarrimento non potrà mai integrare un reato diverso dall’appropriazione indebita di cosa smarrita. Dunque:
a) il reato per cui i legali rappresentanti della Telecom sono stati ingiustamente incolpati attraverso la falsa denuncia di smarrimento del titolo da parte del D. G. è soltanto quello di appropriazione di cosa smarrita;
b) questo reato è perseguibile a querela di parte e la querela non è stata mai proposta né dall’imputato né da altri;
c) la mera falsa denuncia di smarrimento non potrà mai integrare gli estremi del delitto di calunnia.
Con un secondo motivo si denuncia, ancora, violazione della legge penale relativamente alla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 368 c.p., mancando qualsivoglia motivazione circa l’intenzionalità della falsa accusa e la certezza dell’innocenza del soggetto incolpato e che si traduce in una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo e momento volitivo del dolo. Una motivazione di sicuro non ricavabile dall’apodittica affermazione contenuta nella sentenza di primo grado circa la «certezza dell’innocenza dell’incolpato».
Il ricorso è infondato.
3. In ordine al primo motivo, va ricordato che questa Corte Suprema ha avuto, in generale, occasione di statuire che il delitto di calunnia sussiste anche quando l’incolpazione venga formulata attraverso la simulazione a carico di una persona, non specificamente indicata ma identificabile, delle tracce di un determinato reato – nella forma, cioè, della incolpazione cosiddetta reale o indiretta – purché la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti all’inizio dell’azione penale nei confronti di un soggetto univocamente e agevolmente identificabile; ritenendo così sussistente l’elemento materiale del reato previsto dall’art. 368 c.p. nella denuncia di smarrimento di un assegno preordinata a far convergere su una persona identificabile l’accusa del reato di furto o di ricettazione (Sez. VI, 2 marzo 1992, Arduini; Sez. VI, 29 gennaio 1999, Gioviale).
Le sequenze interpretative sopra rammentate sono state successivamente confermate dalla costante giurisprudenza di legittimità nel senso che la falsa dichiarazione di aver smarrito un assegno consegnato invece in pagamento, ad un altro soggetto integra il reato di calunnia poiché simula ai danni del prenditore del titolo il reato di furto o di ricettazione e non eventualmente quello di appropriazione indebita di cosa smarrita; con la conseguenza che è irrilevante il fatto che alla denuncia di smarrimento non abbia fatto seguito la proposizione della querela per i reati di appropriazione indebita di cosa smarrita e di falso in assegno: precisandosi che perché possa configurarsi il delitto di appropriazione indebita di cosa smarrita è necessario che la cosa sia uscita definitivamente dalla sfera di disponibilità del legittimo possessore e che questi non sia in grado di ripristinare su di essa il primitivo potere; e poiché è sicuramente e agevolmente possibile risalire, sulla base delle annotazioni contenute nell’assegno, al titolare del conto, chi se ne impossessa illegittimamente commette o il reato di furto o quello di ricettazione (Sez. VI, 4 luglio, 1996, Arno). Ancor più di recente si è statuito che, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato di calunnia, la circostanza che nella denuncia non sia stato accusato alcun soggetto determinato quando il destinatario dell’accusa sia implicitamente, ma agevolmente individuabile, integra il delitto una falsa denuncia di smarrimento di un assegno, la quale, sebbene non contenga una notizia di reato, preavverte l’autorità che la riceve su possibili reati commessi da chi verrà scoperto a detenerlo; ciò perché la falsa denuncia costituisce, in tal caso, l’espediente per bloccare la circolazione del titolo e il denunziante è consapevole di simulare una circostanza idonea a far sì che il soggetto, al quale ha trasmesso l’assegno e che in buona fede lo girerà o lo porrà all’incasso, potrà essere perseguito d’ufficio per furto aggravato o per ricettazione e che la simulazione posta in essere non si esaurisce in tracce del reato di appropriazione di cosa smarrita (Sez. VI, 24 settembre 2002, Bonafede; cfr., altresì, Sez. VI, 29 settembre 2002, Pantonio).
Fino ad affermarsi che risponde del reato di calunnia, e non di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico, colui il quale dichiari falsamente al pubblico ufficiale lo smarrimento di un assegno, atteso che, in questo modo, accusa implicitamente il portatore del titolo di credito di essersene impossessato fraudolentemente (Sez. VI, 15 aprile 1993, Monachino).
Ne consegue che le contrastanti interpretazioni della giurisprudenza di questa Corte Suprema additate dal ricorrente sono soltanto apparenti, non attenendo alla specifica fattispecie ora al vaglio del Collegio ed alle conseguenti esigenze teleologiche che sono alla base delle soluzioni ermeneutiche sopra rammentate, tutte intrinseche al precetto di cui all’art. 368 c.p. Senza considerare che la verifica della perseguibilità a querela del reato per il quale taluno venga falsamente denunciato è operazione che non può certo compiersi ex post, restando altrimenti frustrata la finalità della disposizione per cui è intervenuta condanna del Dell’Amore, che è, appunto, quella di evitare il pericolo sia che l’amministrazione della giustizia venga tratta in inganno sia che vengano lesi l’onore e la libertà personale del soggetto falsamente incolpato.
È il pericolo, dunque, il dato ontologico che contrassegna la fattispecie in esame, derivante dalla possibilità – da verificare ex ante – che si instauri un procedimento penale, con il rischio di irrogare una pena nei confronti di un innocente.
4. Relativamente al secondo motivo, va ricordato che il contenuto di non pochi precetti penali è conformato secondo un modello linguistico tale che l’affermazione di responsabilità è condizionata all’accertamento della piena conoscenza ora di determinati presupposti ora di determinati elementi costitutivi. Ci si trova in presenza di prescrizioni normative le quali, sul piano strettamente funzionale, richiedono, per la natura del bene giuridico protetto o per le effettive finalità a base della previsione incriminatrice, che il soggetto agisca «scientemente», «sapendo» della sussistenza di un determinato fatto, ovvero, ancora, «intenzionalmente». Tra le prime ipotesi la dottrina annovera i reati di calunnia e di autocalunnia, tra le seconde il reato di ricettazione, al fine di differenziarlo (peraltro, con intuibili perplessità quanto a rigore dogmatico) dalla fattispecie contravvenzionale dell’incauto acquisto; la terza ipotesi è stata solo di recente canonizzata, almeno a livello codicistico (anche se quale risultato di argomentazioni di ordine dogmatico, pure qui, meritevoli di più adeguati approfondimenti, se non altro considerando il modello generale dell’elemento psicologico quale descritto dall’art. 43, primo comma, prima parte, c.p.), alla stregua dell’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 254, che ha sostituito, nella previsione del delitto di abuso di ufficio, l’art. 323, nel testo risultante in forza dell’art. 13 della legge 26 aprile 1990, n. 86.
Più specificamente, perché si realizzi il dolo di calunnia è necessario che colui che formula la falsa accusa abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato. La giurisprudenza di questa Corte è, in proposito, indirizzata nella linea interpretativa in base alla quale l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui vi sia una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo e momento volitivo. L’intenzionalità dell’incolpazione e la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato sono due dati che vanno tenuti concettualmente distinti, non foss’altro perché l’accusa di aver commesso atti penalmente illeciti è situazione ben diversa dalla conoscenza della non colpevolezza, tanto da inferirne che non è sufficiente ad integrare il dolo di calunnia la scarsa convinzione in ordine alla responsabilità del soggetto accusato.
A corollario di tali argomentazioni si è precisato (v., per tutte, in un’ampia ricognizione di tale problematica, Sez. VI, 14 marzo 1996, Gardi), per un verso, che (dal punto di vista dell’imputato) l’erronea convinzione della colpevolezza del soggetto accusato esclude il dolo, purché tale convincimento si basi su elementi seri e concreti e non su semplici supposizioni, e (dal punto di vista del giudice) che il dubbio dell’agente sulla colpevolezza dell’incolpato importa la pronuncia di una decisione assolutoria con la formula «perché il fatto non costituisce reato».
L’interpretazione ora ricordata tende, dunque, ad emarginare la rilevanza di momenti che nella fase rappresentativa si presentino disomogenei rispetto alla sequenza volitiva; dovendo poi l’innocenza dell’incolpato definirsi elemento del fatto, anche il dubbio sulla responsabilità della persona nei confronti della quale vengono rivolte le false accuse vale ad escludere il dolo di calunnia. Sempre, peraltro, nell’esigenza, metodologicamente necessitata in vista di scongiurare non rigorose interferenze concettuali, di non sovrapporre le problematiche attinenti alla struttura del reato a quelle concernenti il suo accertamento.
Ed è estremamente significante rimarcare come la più recente giurisprudenza abbia ritenuto che la tendenziosità della denuncia non dimostra di per sé la consapevolezza dell’innocenza dell’accusato da parte del denunciante (Sez. VI, 2 luglio 1998, Perrotta). Precisandosi, ancora, come tale consapevolezza è in re ipsa, ma nel senso che è evidenziata dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che connotano la condotta tenuta, dalle quali è possibile, con processo logico-induttivo, risalire alla sfera intellettiva e volitiva dell’agente: la sussistenza del dolo, in sintesi, si immedesima con l’accertamento della cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia (Sez. VI, 19 novembre 1998, Farina; Sez. VI, 14 maggio 1999, De Bartolomeo; Sez. VI, 24 settembre 2001, Bonaventura).
Sennonché nel caso di specie la giurisprudenza sopra richiamata è stata surrettiziamente chiamata in causa dal ricorrente.
Nel caso ora all’esame di questa Corte la consapevolezza della innocenza degli accusati del delitto di calunnia risulta pressoché in re ipsa dal tenore della denuncia e dalla ammissione della sua falsità; una volta acclarata la sussistenza del rapporto debitorio da cui è scaturita la consegna dell’assegno.
5. Il ricorso deve, dunque, essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.