Certe pratiche vessatorie-persecutorie, in linea di massima, vanno a coincidere con quanto vietato dall’art. 2103 c.c.. Infatti, la Corte di Cassazione, partendo proprio dall’art. 2103 c.c., norma che impone al datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni non solo per le quali è stato assunto, ma anche a quelle che valorizzino la sua acquisita professionalità, afferma che la dequalificazione o demansionamento rappresenta una condotta tipizzata di mobbing, la quale si manifesta in una pluralità di evenienze.
Nella casistica giurisprudenziale un classico esempio di mobbing consiste nel trasferimento ingiusto. Spesso si assiste a siffatta progressione: il lavoratore viene licenziato ingiustamente; presenta ricorso al giudice del lavoro; ottiene la reintegrazione nel posto di lavoro; il lavoratore viene reintegrato, ma viene trasferito in altra sede (da Salerno a Milano).
La giurisprudenza, a dimostrazione della difficoltà di inquadrare questo problema, tutt’oggi oscilla tra due tesi:
a.tesi più rigorosa: con la reintegrazione il lavoratore deve tornare ad occupare il medesimo posto di lavoro;
b.tesi più elastica: al momento della reintegrazione, bisogna esaminare le modificazioni nel frattempo intervenute. Ad esempio, potrebbe darsi che, nelle more del giudizio, il posto del lavoratore ingiustamente licenziato sia stato occupato da un altro soggetto; allora, in tal caso, il datore può trasferire il lavoratore o anche, per giunta, adibirlo a mansioni non equivalenti purché, però, giustifichi la diversità di soluzione.
La giurisprudenza che tende a prevalere è quella più severa. La Corte soggiunge che il lavoratore deve essere reintegrato nel posto che gli spettava prima del licenziamento e che solo in un secondo momento, con distinto, diverso, successivo ed autonomamente impugnabile provvedimento organizzativo, può essere spostato, trasferito o demansionato-
Altro esempio singolare di mobbing da demansionamento è la totale inattività per lunghi periodi: è il caso Santoro. Un altro caso eclatante è rappresentato dalla sentenza del 2001 della Corte di Cassazione che dichiara la responsabilità della Rai per i danni subiti da un attore assunto tramite contratto rimasto, però, inattivo per sedici anni.
È interessante notare che non esistono norme, al di là dell’art. 2103 c.c., che regolino la fattispecie. Recentemente la riforma del diritto del lavoro ha introdotto la disposizione di cui all’art. 23, 6° co., D. Lgs. 276/03, che pone a carico del datore di lavoro l’eventuale risarcimento del danno derivante dall’assegnazione a mansioni inferiori.
È la prima volta che l’adibizione, naturalmente ingiusta ed illegittima, a mansioni inferiori viene sanzionata positivamente con risarcimento del danno: la norma è importante da questo punto di vista, ma risulta essere ancora più importante per l’aggettivo “eventuale”.
Esiste, infatti, un perdurante contrasto nella giurisprudenza di Cassazione: in caso di demansionamento, e, in generale, in caso di mobbing il demansionato, il mobbizzato deve provare o meno il danno? O il danno è in re ipsa?
La Corte di Cassazione distingue a seconda che si tratti di danno patrimoniale o meno.
Se il danno sofferto a seguito di demansionamento ha natura patrimoniale, non vi è dubbio che esso debba essere provato.
Se, invece, il mobbizzato lamenta un danno non patrimoniale, sorge il problema della necessità o meno della prova.
Secondo una parte della giurisprudenza, valgono i principi generali: dunque, il danno va provato.
Secondo un’altro e, allo stato, prevalente, orientamento, il danno è in re ipsa e, per definizione, soggetto ad apprezzamento di tipo equitativo.
In questo contesto, quali sono gli oneri probatori che incombono sulle parti e, in particolare, sul lavoratore che deduca il mobbing, e, in questa specie, il demansionamento, per pretendere la tutela risarcitoria? Il lavoratore deve dimostrare il danno e il suo quantum?
Ebbene, l’art. 23 sembrerebbe orientare la risposta in senso negativo, perché parla di “eventuale risarcimento”; l’eventualità del risarcimento potrebbe essere inteso nel senso che non necessariamente c’è un danno e che, se il danno c’è, deve essere allegato e dimostrato secondo i principi generali.
Sulla scorta di tanto, sembrerebbe logico che il demansionamento è sì ingiusto ed illegittimo, ma non necessariamente tutelabile in chiave risarcitoria, se il lavoratore non provi, in concreto, la lesione.
Recentemente, invece, la Corte di Cassazione con una sentenza del 2004 ha ribadito l’altro orientamento, sostenendo che il danno non patrimoniale non va provato, va solo allegato, e sarà il giudice a risarcirlo equitativamente.
Ulteriori casi di comportamenti tipizzati sono le molestie sessuali sul luogo di lavoro, che, tradizionalmente, impongono il risarcimento del danno non patrimoniale, esistenziale, oltre a quello biologico, ex art. 2059 c.c.; in questo caso, è di tutta evidenza che la responsabilità incomba anche sul datore di lavoro ex art. 2049 c.c., non avendo impedito che, attraverso le opportune cautele e gli opportuni controlli, si verificassero all’interno della compagine aziendale episodi disdicevoli.
Il problema sorge quando queste discriminazioni o violenze sessuali semplici non costituiscono già di per sé reato: è possibile in questo caso il risarcimento del danno anche non patrimoniale? La risposta è decisamente positiva, perché si tratta di casi riconducibili al mobbing e che hanno, peraltro, un fondamento positivo nella l. 125/91, sulla tutela delle lavoratrici di sesso femminile.