Le Sezione Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26727 del 15 ottobre 2024, hanno stabilito che: “Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il creditore opposto può proporre domande alternative a quella introdotta in via monitoria, a condizione che esse trovino fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda e che siano introdotte nella comparsa di risposta, ferma restando la possibilità, qualora l’opponente si avvalga dello “ius variandi” posteriormente all’atto di opposizione, di proporre domande che costituiscano una manifestazione reattiva di difesa, anche se non “stricto sensu” riconvenzionali, sino alla prima udienza e nella memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.”.
Nel caso concreto, parte ricorrente otteneva dal Tribunale di Roma l’emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento di somme, quale corrispettivo di prestazioni sanitarie, nei confronti di due diversi soggetti debitori, i quali proponevano opposizione.
Nei rispettivi giudizi di opposizione al decreto ingiuntivo, l’opponente chiedeva – qualificandola come domanda riconvenzionale – di accertare che le controparti dovevano tenerla indenne ai sensi dell’art. 1337 cc, con conseguente condanna a pagare le somme ingiunte; chiedeva, in via subordinata, di accertare che le parti opponenti dovevano ex art. 2041 cc tenerla indenne dal loro ingiustificato arricchimento, con conseguente condanna a corrispondere il medesimo importo.
Il Tribunale accoglieva l’opposizione e rigettava le ulteriori domande introdotte dall’opposto, il quale proponeva appello.
La Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame, ritenendo che le domande di pagamento proposte ai sensi degli artt. 1337 e 2041 cc erano state presentate “in modo inammissibile non essendo le stesse conseguenti ad una domanda riconvenzionale proposta dalle parti convenute sostanziali”.
Avverso la suddetta sentenza veniva proposto ricorso per cassazione per la violazione, tra l’altro, del combinato disposto degli artt. 645, comma 2, 167, comma 2, e 183, comma 5, cpc, per avere il giudice d’appello erroneamente ritenuto inammissibili le domande di condanna al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 cc e all’indennizzo di cui all’art. 2041 cc.
Gli atti venivano rimessi alle Sezioni Unite in applicazione di quanto disposto dall’art. 374 cpc.
Invero, il Collegio rimettente osservava che, la Corte di Appello di Roma, nell’escludere l’ammissibilità delle domande di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale e d’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, aveva sposato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, “nell’ordinario giudizio di cognizione che si instaura a seguito della opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per l’effetto di una domanda riconvenzionale formulata dall’opponente, si venga a trovare a sua volta nella posizione processuale di convenuto, cui non può essere negato il diritto di difesa rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte mediante la proposizione (eventuale) di una reconventio reconventionis”. In ragione di tale orientamento, dunque, la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto inammissibili le domande dell’appellante di cui agli art. 1337 e 2041 cc, c.c. in quanto “non… conseguenti ad una domanda riconvenzionale proposta dalle parti convenute sostanziali”.
Infatti, la Cassazione riteneva, in linea generale, che “nel giudizio ordinario di cognizione instaurato mediante la proposizione della domanda di adempimento contrattuale quella d’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento rivestisse carattere di novità, e se ne escludeva pertanto la proponibilità, a fronte di una condotta difensiva del convenuto articolatasi nella mera proposizione di eccezioni” (Cass. ordinanza n. 6579 del 10.03.2021).
Già in precedenza, la Suprema Corte, con la Sentenza n. 17007 del 2.08.2007, aveva affermato che: “La domanda di indennizzo per arricchimento senza causa e quella di adempimento contrattuale non sono interscambiabili, non costituendo articolazioni di un’unica matrice, ma riguardano diritti per l’individuazione dei quali è indispensabile il riferimento ai rispettivi fatti costitutivi, i quali divergono tra loro, identificando due diverse entità: nel primo caso, infatti, l’attore non solo chiede un bene giuridico diverso, e cioè un indennizzo in luogo del corrispettivo pattuito, ma introduce nel giudizio gli elementi costitutivi di una diversa situazione giuridica, consistenti nel proprio depauperamento con altrui arricchimento e nel riconoscimento dell’utilità della prestazione, che sono privi di rilievo nel rapporto contrattuale. La sostituzione, nel corso del giudizio di primo grado, della domanda di adempimento contrattuale originariamente formulata con quella di indennizzo per arricchimento senza causa integra pertanto la proposizione di una domanda nuova, come tale inammissibile a norma dell’art. 184 cpc, qualora, nel regime vigente anteriormente all’entrata in vigore della legge 26 novembre 1990 n. 353, a controparte non abbia rinunciato a eccepirne la novità, accettando, anche implicitamente, il contraddittorio”.
Tuttavia, il Collegio rimettente evidenziava che il summenzionato indirizzo giurisprudenziale aveva subito una “rimeditazione” nell’ultima giurisprudenza di legittimità come frutto dell’impulso proveniente dalla Sentenza n. 12310 del 15.06.2015, a Sezioni Unite, con la quale era stata riconosciuta la possibilità di modificare, con la memoria di cui all’art. 183 cpc, la domanda ex art. 2932 cc in domanda di accertamento dell’intervenuto effetto traslativo, dichiarando che “la modificazione della domanda consentita dall’art. 183… può riguardare uno solo o anche entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), purché la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che perciò solo si determini una compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali”; e che dall’ampia linea giurisprudenziale suscitata dall’intervento nomofilattico del 2015 emergevano, in particolare, le sentenze della Corte di Cassazione n. 4322 del 14.022019 e n. 13091 del 25.05.2018.
La “rimeditazione” in parola riguardava anche la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento “proposta a modifica di un’originaria domanda di adempimento contrattuale”, in quanto “le due domande si riferiscono alla medesima vicenda sostanziale, attengono al medesimo bene della vita, tendenzialmente inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale, e sono legate da un rapporto di connessione per incompatibilità non solo logica, ma… normativamente prevista”, considerata la natura sussidiaria dell’azione di cui all’art. 2041 cc (Cass. 22404 del 13.09.2018).
Il Collegio remittente puntualizzava che il principio per cui la modificazione consentita dall’art. 183 cpc poteva investire entrambi gli elementi identificativi della domanda “è stato ritenuto infine applicabile anche al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo” dalla Cassazione, con la Sentenza n. 9633 del 24.03.2022, secondo cui “il convenuto opposto può proporre con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui l’opponente non abbia proposto una domanda o un’eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto, qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, ciò rispondendo a finalità di economia processuale e di ragionevole durata del processo e dovendosi riconoscere all’opposto, quale attore in senso sostanziale, di avvalersi delle stesse facoltà di modifica della domanda riconosciute, nel giudizio ordinario, all’attore formale e sostanziale dall’art. 183 cpc” — e che, in quest’ottica e in virtù del rapporto di connessione per incompatibilità tra la domanda ex art. 2041 cc proposta in subordine e la domanda principale di adempimento contrattuale, la Cassazione, con la Sentenza n. 3127 del 09.02.2021, ha ritenuto ammissibile la modificazione della domanda pure nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, “pervenendo sostanzialmente alla conclusione che in tale giudizio, al pari di quanto accade in quello ordinario, il convenuto, in qualità di attore in senso sostanziale, può modificare la domanda avanzata nella fase monitoria, introducendo una domanda d’indennizzo per ingiustificato arricchimento, e ciò indipendentemente dall’atteggiamento difensivo assunto dal convenuto [qui da intendersi convenuto in senso sostanziale: n.d.r.], il quale si sia limitato a resistere mediante eccezioni, astenendosi dal proporre domande riconvenzionali”.
Il Collegio sosteneva che “la dissonanza di tale principio da quello costantemente ribadito nelle precedenti decisioni e l’insussistenza di analoghe pronunce in materia di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale” implicavano l’applicabilità dell’art. 374 cpc in ordine ai due seguenti quesiti:
1) “in via generale, se nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il convenuto opposto possa proporre una domanda nuova, diversa da quella avanzata nella fase monitoria, anche nel caso in cui l’opponente non abbia proposto una domanda o una eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto”;
2) “in particolare, se ed entro quali limiti possa considerarsi ammissibile la modificazione della domanda di adempimento contrattuale avanzata con il ricorso per decreto ingiuntivo attraverso la proposizione di una domanda d’indennizzo per ingiustificato arricchimento o di una domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale”.
Nell’affrontare tali delicatissime e complesse questioni, le Sezioni Unite partono dal considerare che le domande dell’attore possono suddividersi in tre tipologie: a) le domande nuove, le quali non sono tutte ammissibili, ma sono ammissibili solo se costituiscono una reazione specifica alle difese del convenuto; b) le domande precisate, le quali sono ammissibili trattandosi di mere precisazioni; 3) le domande modificate, la cui ammissibilità proviene dalla pronuncia del 2015.
Sul punto, le Sezione Unite del 2015 avevano sottolineato che “la vera differenza tra le domande nuove implicitamente vietate e le domande modificate espressamente ammesse non sta… nel fatto che in queste ultime le modifiche non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate nuove nel senso di ulteriori o aggiuntive, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate — eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali —, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”. Orbene, “con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio”.
In questo modo, è di tutta evidenza che la domanda modificata potrà investire tutti gli elementi identificativi oggettivi della domanda originaria, trovando l’unico limite nella stessa vicenda sostanziale prospettata con l’atto introduttivo o comunque nel collegamento a questa.
Le Sezioni Unite, con la citata sentenza 12310/2015, introducevano il seguente principio di diritto: “La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 cpc può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all’uopo prevista dall’art. 183 cpc , della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo”.
L’insegnamento del 2015 trovava continuità nella Sentenza n. 22404 del 13.09.2018 della Cassazione, a Sezione Unite, che ha confermato e rinsaldato l’indirizzo giurisprudenziale nato dalla pronuncia del 2015.
Infatti, la Cassazione del 2018 stabiliva che “È ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 cc, proposta, in via subordinata, nella memoria ex art 183, co 6, cpc, nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata”.
A questo punto, le Sezioni Unite passano ad esaminare se tali principi, da ritenersi ormai consolidati nell’ambito dei giudizi di cognizione piena, siano operanti anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Orbene, in tema di qualificazione del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, va ricordato che la Cassazione, a Sezioni Unite, con la Sentenza n. 927/2022, affermando che il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo deve “considerarsi un ordinario processo di cognizione anziché un mezzo di impugnazione”, giungeva ad enunciare il seguente principio: “L’opposizione prevista dall’art. 645 cpc non è una actio nullitatis o un’azione di impugnativa nei confronti dell’emessa ingiunzione, ma un ordinario giudizio sulla domanda del creditore che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio, non quale giudizio autonomo, ma come fase ulteriore — anche se eventuale — del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo”.
Sulla scorta di tanto, è possibile affermare che si è dinanzi a un giudizio ordinario, ma con una precisazione. Infatti, le Sezioni Unite evidenziano che “Venendo generato da un’altra fattispecie processuale, quella monitoria, che può rimanere perfettamente autonoma non dando luogo ad esso, la stessa pronuncia del 2022 gli riconosce, implicitamente, la natura di species, poiché valorizza un legame di prosecuzione con il procedimento monitorio: ovvero, da un lato afferma che si tratta di un ordinario giudizio sulla domanda del creditore, ma dall’altro subito lo specifica in quanto dotato di un quid pluris rispetto proprio a un ordinario giudizio sulla domanda del creditore. E tale quid pluris si può ripartire, a ben guardare, in tre componenti: il giudizio si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio; detta prosecuzione non costituisce un post hoc, bensì un propter hoc perché avviene non quale giudizio autonomo; infine, questo difetto di autonomia lo rende qualificabile fase ulteriore — anche se eventuale — del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo”.
Il decreto ingiuntivo, pertanto, deve ritenersi radicalmente innestato in una fattispecie che è unica se si sviluppa, e se si sviluppa ritrova la tutela paritaria: il che è logico, in quanto nella “fase ulteriore” compare la sostanza di ogni processo costituzionalmente accettabile, cioè il contraddittorio.
Si giunge, quindi, a qualificare il soggetto che si è avvalso dello strumento monitorio, ottenendolo, il quale, nel giudizio ordinario di cognizione riveste poi processualmente il ruolo di convenuto, ma, sostanzialmente, il ruolo di attore.
Le Sezioni Unite rispondono al quesito se l’opposto, svincolato nelle sue potenzialità difensive da una pura reazione riconvenzionale, possa “fare di più”, cioè proporre una domanda “modificata” nell’ampio senso indicato dalla sentenza del 2015: senza, quindi, che il contenuto della domanda monitoriamente introdotta restringa e incida, e senza altresì che la presenza di una domanda o di una eccezione riconvenzionale ne debba definire il perimetro.
Le Sezioni Unite ricordano che la giurisprudenza formatasi in materia era orienta ad affermare il seguente principio: “Nell’ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale formulata dal opponente, egli si venga a trovare, a sua volta, nella posizione processuale di convenuto, al quale non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione (eventuale) di una reconventio reconventionis che deve, però, dipendere dal titolo dedotto in causa o da quello che già appartiene alla stessa come mezzo di eccezione ovvero di domanda riconvenzionale” (così Cass. 5415/2019; cass. 6579/2021).
In direzione contraria si era posta, invece, la Cassazione, con la Sentenza n. 9633 del 24.03.2022, affermando: “In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, il convenuto opposto può proporre con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui l’opponente non abbia proposto una domanda o un’eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto, qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, ciò rispondendo a finalità di economia processuale e di ragionevole durata del processo e dovendosi riconoscere all’opposto, quale attore in senso sostanziale, di avvalersi delle stesse facoltà di modifica della domanda riconosciute, nel giudizio ordinario, all’attore formale e sostanziale dell’art. 183 cpc”.
Ecco che secondo l’interpretazione restrittiva anteriore alle Sezioni Unite del 2015, l’opposto era legittimato soltanto a proporre domanda riconvenzionale.
Le Sezioni Unite concludono che tale interpretazione restrittiva non è più sostenibile in quanto nella comparsa di costituzione l’opposto è legittimato a proporre non solo domande “reattive” stricto sensu — cioè riconvenzionali —, ma altresì domande che, sempre come qualificate dall’arresto del 2015 e confermate da quello susseguente del 2018, rientrano nell’area sostanziale sottesa alla domanda originaria, ovvero sono domande aggiuntive/alternative, sovente collocate in posizione di subordine, ammissibili perché rapportate al medesimo interesse.
Ne deriva che la proposizione nella comparsa di risposta, da parte dell’opposto, di domande come quelle ex art. 2041 cc ed ex art. 1337 cc, è ammissibile, ben potendo a livello generale/astratto riconoscersi anche a loro fondamento l’interesse — dell’originario ricorrente — in relazione alla vicenda, originariamente tradotto in azione d’adempimento contrattuale: invero, il petitum di tali domande alternative risulta almeno in parte corrispondente alla prima pretesa avanzata in via monitoria. L’interesse, infatti, come è stato chiarito dall’arresto del 2015, è il presupposto legittimante l’introduzione di una domanda alternativa, introduzione che non può essere inibita — come lo era, secondo l’ottica ermeneutica anteriore a tale revirement — dalla diversità/novità in sé di causa petendi e petitum rispetto alla prospettazione originaria.
Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, pervengono all’enunciazione del seguente principio di diritto: “nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione da parte dell’opposto nella comparsa di risposta di domande alternative a quella introdotta in via monitoria è ammissibile se tali domande trovano il loro fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda nel ricorso diretto all’ingiunzione”.
In conclusione, il motivo del ricorso per cassazione sopra esposto veniva accolto con l’affermazione del predetto dictum.