Cass. civ., sez. un., 04/05/2004, n.8438
In tema di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del mobbing, il riparto di giurisdizione è strettamente subordinato all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se trattasi di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – allorché la controversia abbia per oggetto una questione relativa a un periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998 -mentre, se trattasi di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario. Al fine di tale accertamento, deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato, mentre si può ritenere proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento del danno sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una puntuale obbligazione contrattuale.
T.A.R. Veneto, sez. I, 08/01/2004, n.2
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia promossa da un finanziere per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico per mobbing.
T.A.R. Liguria, sez. I, 12/03/2003, n.302
La controversia, instaurata da un pubblico impiegato, diretta ad ottenere dalla pubblica amministrazione il risarcimento del danno all’integrità psico-fisica, a causa di mobbing, derivante dalla situazione di disagio e dal comportamento presunto di colleghi, non rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quando la lesione contestata non deriva da violazione del rapporto contrattuale, ossia l’azione proposta non si basa su un inadempimento specifico dell’amministrazione.
Trib. Roma, 28/03/2003
La condanna del datore di lavoro per mobbing non può prescindere dall’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo del c.d. mobber, il quale coincide con la specifica intenzione di discriminare e vessare il mobbizzato sino ad esercitare nei suoi confronti una vera e propria forma di violenza morale.
Trib. Pinerolo, sez. lav., 06/02/2003
È risarcibile il danno esistenziale patito dal lavoratore quale conseguenza del demansionamento e di comportamenti qualifica bili come mobbing, posti m essere dal datore di lavoro.
Trib. Milano, 31/07/2003
Il mobbing si identifica in atti e comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi, il c.d. mobbing orizzontale, e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchia, il c.d. mobbing verticale, nei confronti di un dipendente, individuato come vittima, atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolarla ed emarginarla nell’ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione. Elemento essenziale, dunque, per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere significatività oggettiva a tali atti, tipici dell’imprenditore o meno, e permettendo di distinguerli dall’indeterminatezza dei rapporti interpersonali ed in particolare dal conflitto puro e semplice.
Trib. Tempio Pausania, 10/07/2003
Il c.d. mobbing consiste in una pluralità dì comportamenti, che si inseriscono in una precisa strategia persecutoria, posti in essere dal datore di lavoro per isolare, fisicamente e psicologicamente, il lavoratore, i quali assumono rilievo di illecito contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c., e, ove accertati, obbligano il datore dì lavoro a risarcire i danni, patrimoniali e non patrimoniali, arrecati al mobbizzato, e tra di essi il danno biologico, quello da demansionamento e dell’immagine, nonché il danno derivante dalla mancata esplicazione della propria personalità attraverso l’attività lavorativa; tali ultimi danni, non avendo contenuto economico, possono essere liquidati con criterio equitativo.
Trib. Tempio Pausania, 10/07/2003
Alla stregua dell’art. 2087 del codice civile il comune, quale datore di lavoro, è obbligato a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro con conseguente responsabilità contrattuale per il pregiudizio derivante dall’attività persecutoria posta in essere dal sindaco nei confronti di un dipendente comunale. L’art. 2087 del c.c. infatti ben si attaglia alle fattispecie di mobbing, poiché, trasferendo in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, inverte l’onere della prova, così che grava sul datore l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, mentre grava su quest’ultimo il solo onere di provare la lesione dell’integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa. L’eventuale predisposizione caratteriale del soggetto mobbizzato, che contribuisca ad amplificare gli effetti del mobbing, non fa inoltre venir meno il dovere, in capo al soggetto mobbizzante, di risarcire il danno biologico nella sua interezza in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Trib. (Decr.) S. Maria Capua Vetere, 28/02/2003
In ipotesi di mobbing, ai fini del raggiungimento della prova del nesso di causalità tra la patologia del lavoratore e le condizioni dell’ambiente di lavoro è sufficiente che l’evento consegua dalla causa in termini di alta probabilità.
Trib. Milano, 28/02/2003
Si è in presenza di un comportamento qualificabile come mobbing quando le vessazioni psicologiche inflitte alla vittima nell’ambiente di lavoro siano idonee a ledere i beni della persona (quali la salute e la dignità umana) e siano attuate in modo duraturo e reiterato; costituisce mobbing la sottoposizione di una lavoratrice per vari mesi a controlli esasperati della sua attività di lavoro, a una serie di contestazioni e sanzioni disciplinari conseguenti a episodi di inesistente o scarsissima rilevanza disciplinare, nonché a frequenti aggressioni verbali consumate di fronte a terzi.
Trib. Milano, 28/02/2003
In ipotesi di mobbing, stante la natura anche contrattuale dell’illecito, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica e della dignità del lavoratore, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare sia la lesione sia il nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa.
Trib. Milano, 28/02/2003
Una lettura costituzionalmente orientata del sistema di responsabilità civile alla luce degli artt. 2 e 29 Cost., consente di individuare in ipotesi di mobbing un autonomo spazio per il danno non patrimoniale inteso come danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico in senso stretto ove provato, ovvero costituisce da solo l’ambito riparatorio, qualora a carico della vittima non sia ravvisabile l’insorgenza di una psicopatologia apprezzabile sotto il profilo clinico, ma solo una lesione della dignità personale.
Trib. Como, 22/02/2003
Il “mobbing”, ovvero quella situazione di disagio provocata al lavoratore dall’ambiente di alvoro, si compone di un elemento oggettivo, consistente in ripetuti soprusi posti in essere da parte dei superiori e, in particolare, in pratiche . di per sé legittime sebbene biasimevoli – dirette a danneggiare il lavoratore e a determinare l’isolamento all’interno del contesto lavorativo, e di un elemento psicologico a sua volta consistente, oltre che nel dolo generico – animus nocendi -, anche nel dolo specifico di nuocere psicologicamente al lavoratore, al fine di emarginarlo dal gruppo e allontanarlo dall’impresa. Incombe sull’attore l’onere di provare la realizzazione dei comportamenti mobbizzanti, la ricorrenza del dolo e l’effettività del danno, nonché il relativo nesso causale.
Trib. Torino, 28/01/2003
I caratteri identificativi del fenomeno mobbing – quali concordemente individuati nei vari ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno – sono rappresentati da una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro. Si tratta, quindi, di un processo, o meglio di una escalation, di azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato. Il quadro complessivo emerso dalle risultanze istruttorie non consente di affermare la sussistenza di una situazione di mobbing nei confronti della lavoratrice ricorrente.
Trib. Torino, 18/12/2002
I1 mobbing è una situazione di aggressione, esclusione ed emarginazione di un lavoratore posto in essere da un capo nei confronti di un sottoposto (mobbing verticale) o dai colleghi (mobbing orizzontale), con lo specifico scopo di isolarlo e costringerlo alle dimissioni. Tale situazione non si determina nell’ipotesi in cui il comportamento di rifiuto o di ostilità nei confronti di un collega o di un sottoposto sia stato provocato dall’atteggiamento tenuto da quest’ultimo e non sia stato posto in essere con lo scopo di isolarlo ed emarginarlo.
Cass. civ., sez. lav., 08/11/2002, n.15749
L’iscrizione in bilancio di una posta di debito imputata a ferie non godute da parte di un dirigente e sufficiente a giustificare un’indennità a favore di quest’ultimo, a nulla rilevando il fatto che i dirigenti abbiano il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro. È configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall’art. 2087 del codice civile Tale profilo, riconducibile al fenomeno del mobbing, non deve essere confuso con la risarcibilità del danno morale ai sensi dell’art. 2059 del codice civile e 185 del codice penale, essendo la prima una responsabilità di natura contrattuale mentre la seconda extracontrattuale e presupponente l’esistenza di un reato. II rifiuto esplicito, da parte di un dipendente, all’iscrizione di voci di bilancio a causa di dubbi circa la loro regolarità da un punto di vista contabile e fiscale non rappresenta una mancanza di collaborazione tale da originare un venir meno del vincolo fiduciario e quindi la configurabilità di una giusta causa di licenziamento, mancando anche l’elemento tipico della cosiddetta “giustificatezza” che si traduce in assenza di arbitrarietà ed e assoggettata ai limiti generali di buona fede e correttezza e ai divieti generali di discriminazione e abuso di diritto.
Trib. Taranto, 07/03/2002
Si configura il reato di tentata violenza privata, ex art. 610 c.p., nell’ipotesi in cui il comportamento dell’agente determina nel soggetto passivo, attraverso la costante pressione di una minaccia più o meno velata, una condizione patologica caratterizzata da una sensazione di timore, associata a segni somatici indicativi di iperattività del sistema nervoso autonomo, tale da sfociare poi in una sindrome postraumatica da stress (c.d. mobbing), quando l’esposizione all’evento traumatico dura oltre sei mesi.
Trib. Milano, 11/02/2002
Con l’espressione “mobbing” si intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile. Non costituiscono, pertanto, “mobbing” quei comportamenti del datore che sono giustificati o da oggettive situazioni aziendali di dissesto (come la richiesta di restituzione di una costosa macchina aziendale), ovvero da gravi inadempimenti contrattuali del dipendente.
Trib. Forlì, 15/03/2001
Il datore di lavoro risponde in via contrattuale ed extracontrattuale del danno esistenziale patito dal lavoratore che risulti vittima di un comportamento persecutorio qualificabile in termini di “mobbing” alla stregua dei requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale.
Trib. Como, 22/05/2001
Il mobbing aziendale è collettivo e comprende l’insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo. Sotto l’aspetto soggettivo il mobbing deve contenere il dolo nell’accezione di volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro. La fattispecie è inoltre caratterizzata dal dolo specifico, volto all’allontanamento del mobbizzato dall’impresa.
Trib. Como, 22/05/2001
Il “mobbing” aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è collettivo e comprende l’insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con il dolo specifico quale volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell’allontanamento del mobbizzato dall’impresa.
Trib. Venezia, 26/04/2001
La mancanza nell’ordinamento di una fattispecie legale di “mobbing” non consente l’unificazione delle domande di risarcimento per i danni da dequalificazione professionale che non possono, pertanto, essere imputati a un illecito contrattuale permanente originato da comportamenti persecutori sistematici. Il risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, quindi, va valutato considerando distintamente i danni originati da violazione di diritti già riconosciuti dall’ordinamento e la prescrizione di ogni singolo diritto al risarcimento decorre dalla manifestazione del danno.
Trib. Forlì, 15/03/2001
Il risarcimento del danno da “mobbing” qualora non abbia dato luogo a una vera e propria invalidità psicofisica, deve essere liquidato in via equitativa con riferimento al concetto di danno esistenziale.
Trib. Forlì, 15/03/2001
In ipotesi di “mobbing” laddove la responsabilità del datore di lavoro ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c. sia extracontrattuale ex art. 2043 c.c., il regime di ripartizione dell’onere della prova è quello più favorevole al dipendente e pertanto quello contrattuale; conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro.
Trib. Forlì, 15/03/2001
Il mobbing – riconducibile a quel comportamento reiterato nel tempo da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce conseguenze negative anche di ordine fisico – deve individuarsi in base ai requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale. Tale fenomeno può dar luogo ad un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, che si realizza ogniqualvolta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Il predetto danno da liquidarsi in via equitativa, ai sensi degli art. 1226 e 2056 c.c., può essere rapportato alla durata della condotta pregiudizievole e ad una percentuale della retribuzione percepita.
Trib. Forlì, 15/03/2001
E’ illegittimo, per riconducibilità della condotta del datore di lavoro al fenomeno del “mobbing”, il provvedimento con il quale l’azienda dispone il trasferimento del dipendente presso una sede secondaria della medesima, non ricorrono infatti i presupposti oggettivi che giustificano, in base all’art. 2103 c.c., il provvedimento in questione, nè rileva, in proposito, il ricorso alla libera iniziativa economica dell’imprenditore. Pertanto grava sul datore di lavoro l’obbligo di reintegrare il lavoratore nella originaria sede di lavoro con conseguente attribuzione delle mansioni precedentemente svolte, o di altre equivalenti.
Trib. Forlì, 15/03/2001
La fattispecie del “mobbing” – costituente violazione dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro a norma dell’art. 2087 c.c. – non si configura in qualsiasi caso di vessazione ai danni del lavoratore, ma soltanto nel caso in cui l’insieme dei comportamenti vessatori presenti i connotati indicati dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale.
Trib. Forlì, 15/03/2001
La responsabilità risarcitoria gravante sul datore di lavoro per il danno psico-fisico subito dal lavoratore in conseguenza di comportamenti vessatori nei quali si configuri la fattispecie del “mobbing” ha natura al tempo stesso contrattuale ed extracontrattuale. Ne consegue, sul piano processuale, l’applicabilità della disciplina dell’onere probatorio più favorevole al lavoratore ricorrente.
Trib. Forlì, 15/03/2001
II lavoratore che abbia subito vessazioni costituenti “mobbing” ha diritto al risarcimento del danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si configura ogniqualvolta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria.
Trib. Forlì, 15/03/2001
Comportamenti vessatori messi in atto dal datore di lavoro e per esso da chi si trova in posizione di supremazia rispetto alla vittima, integrano il c.d. “mobbing” (sub. specie di “bullyng”): circostanze quali l’ingiustificato trasferimento, il demansionamento, il difetto di confronto con i superiori, l’eliminazione di particolari “status”, il sistematico disconoscimento datoriale possono determinare, quale conseguenza, una sintomatologia psico-somatica sino a pregiudicare le condizioni di salute, realizzando con il chè un danno esistenziale ogni qual volta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria, la cui quantificazione, nell’ambito di una valutazione equitativa del danno inferto o della sofferenza subita è legata ai parametri del tempo e della retribuzione.
Cons. Stato, sez. V, 06/12/2000, n.6311
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia concernente il risarcimento del danno biologico da “mobbing”, anche nel caso in cui tale controversia riguardi la materia dei pubblici servizi, posto che l’art. 33, comma 2, lett. e), d.lg. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo modificato dalla l. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose.
Trib. Milano, 20/05/2000
Il fatto che il “mobbing” sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi l’esistenza e ne dimostri la potenzialità lesiva. (Nella specie il tribunale riformando la decisione di primo grado ha stabilito che l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di un’organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano esclude che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi. Solo tale carattere potrebbe rendere risarcibile un danno che – secondo esperienza comune – è davvero imprevedibile (art. 1225 c.c.) sia con riferimento all’oggettività dei fatti ritenuti lesivi, sia alla reattività del soggetto cui sono rivolti).
Cons. Stato, sez. V, 06/12/2000, n.6311
La domanda volta al riconoscimento del danno derivante da illecito civile ai sensi dell’art. 2043 c.c., con la quale un dipendente denuncia la lesione del diritto alla salute derivante da attività di mobbing esercitata nei suoi confronti esula dalla giurisdizione amministrativa e va proposta avanti al giudice ordinario. Dopo l’entrata in vigore del d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, la domanda con la quale un dipendente di Asl denuncia la lesione del diritto alla salute derivante da attività di mobbing esercitata nei suoi confronti nell’ambito del rapporto di servizio, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. e), d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, come modificato dalla l. 21 luglio 2000 n. 205, nell’ambito dei pubblici servizi restano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose.
Cass. civ., sez. lav., 08/01/2000, n.143
E’ esente da vizi logici e sorretta da motivazione congrua e coerente la decisione del giudice di merito in base alla quale accuse non provate di “mobbing” giustificano il licenziamento ex art. 2119 c.c. per il venir meno del rapporto fiduciario fra le parti.
Trib. Milano, 20/05/2000
Il fatto che il “mobbing” sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi l’esistenza e ne dimostri la potenzialità lesiva. (Nella specie il tribunale, riformando la decisione di primo grado, ha stabilito che l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di un’organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano esclude che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi. Solo tale carattere potrebbe rendere risarcibile un danno che – secondo esperienza comune – è davvero imprevedibile (art. 1225 c.c.) sia con riferimento all’oggettività dei fatti ritenuti lesivi, sia alla reattività del soggetto cui sono rivolti).
Trib. Milano, 16/11/2000
Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva.
Trib. Milano, 20/05/2000
Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi.
Cass. civ., sez. lav., 02/05/2000, n.5491
Il lavoratore che sia vittima di comportamenti “persecutori” da parte del datore di lavoro ha diritto al risarcimento del cosiddetto “danno biologico” (ad es. disturbi al sistema nervoso) ma deve dimostrare l’esistenza di un “nesso causale” tra il comportamento del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute. Questo il principio stabilito dalla sezione lavoro della Corte di cassazione, che ha affrontato il caso di un lavoratore, impegnato nell’attività sindacale, che lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, che gli aveva spesso inflitto sanzioni risultate poi illegittime, ostacolando in ogni modo e quotidianamente la sua attività; questo aveva determinato l’insorgenza di disturbi nervosi con somatizzazioni (nausea, vomito, dolori epigastrici), per cui il dipendente aveva chiesto il risarcimento del danno biologico. Il pretore gli aveva dato ragione, ma la decisione era stata riformata in secondo grado, e per questo motivo l’uomo era ricorso in Cassazione. La S.C. ha però rigettato la domanda, ritenendo che il lavoratore non avesse provato l’esistenza di un rapporto di causalità tra la condotta del datore di lavoro e il danno alla salute. In particolare, il lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un unico comportamento eclatante (come, ad es., un infortunio sul lavoro) ma un danno derivante da una “attività persecutoria” fatta di piccoli dispetti quotidiani: in tali casi, la prova del nesso causale tra il “mobbing” e il pregiudizio alla salute è piuttosto difficile da fornire.
App. Torino, 21/02/2000
Costituisce causa di addebito della separazione il comportamento del marito che assuma in pubblico atteggiamenti di “mobbing” nei confronti della moglie, ingiuriandola e denigrandola, offendendola sul piano estetico, svalutandola come moglie e come madre.
Trib. Torino, 11/12/1999
E’ configurabile il “mobbing” in azienda nell’ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori, volti ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacità lavorativa e dell’integrità psichica.
Trib. Torino, 30/12/1999
Il datore di lavoro è tenuto, ex art. 32 cost. e art. 2087 c.c., nonchè ex art. 2103 c.c., al risarcimento del danno psichico e del danno da dequalificazione subiti dal dipendente rimasto vittima di pratiche di “mobbing” (nella specie, è stato ritenuto fonte di responsabilità il comportamento del datore di lavoro, che, dopo avere fatto pressione sulla dipendente affinchè rassegnasse le dimissioni, l’aveva sostituita con un’altra impiegata, trasferendola dagli uffici amministrativi al magazzino, con variazione “in peius” delle mansioni).
Trib. Torino, 30/12/1999
Il c.d. mobbing, ossia il comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore e consistente in ripetuti soprusi tendenti ad isolarlo e, nei casi più gravi anche ad espellerlo, è illecito ed obbliga il datore di lavoro a risarcire il danno biologico e da dequalificazione professionale, subiti dal dipendente a causa di tale comportamento.