In tema di separazione personale dei coniugi, la Sentenza n. 2643/2016 del 24.10.2016 pronunciata dal Tribunale di Torre Annunziata, nelle persone dei Magistrati dott. Francesco Coppola, dott.ssa Luisa Zicari e dott.ssa Gabriella Ferrara, risulta particolarmente significativa perché affronta due problematiche piuttosto spinose e cioè l’addebitabilità della separazione ed il risarcimento dei danni derivanti al coniuge dal comportamento contrario ai doveri del matrimonio posto in essere dall’altro coniuge.
Orbene, in tema di addebitabilità della separazione personale dei coniugi, il Tribunale di Torre Annunziata soggiunge che “Ai fini della pronunzia dell’addebito, non può ritenersi di per sé sufficiente l’accertamento della sussistenza di condotte contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio”.
In proposito, il Collegio chiarisce che “Per poter addebitare ad uno dei coniugi la responsabilità della separazione occorre, invece, accertare la sussistenza di un nesso di causalità tra i comportamenti costituenti violazione dei doveri coniugali accertati a carico di uno o entrambi i coniugi e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza”.
Occorre, dunque, che il materiale probatorio acquisito consenta di verificare se la violazione accertata a carico di un coniuge sia stata la causa unica o prevalente della separazione, ovvero se preesistesse una diversa situazione di intollerabilità della convivenza.
Si rende, quindi, necessaria una accurata valutazione del fatto se ed in quale misura la violazione di uno specifico dovere abbia inciso, con efficacia disgregante, sulla vita familiare, tenuto conto delle modalità e frequenza dei fatti, del tipo di ambiente in cui sono accaduti e della sensibilità morale dei soggetti interessati.
A tal proposito è utile ricordare che la Suprema Corte di Cassazione afferma che “in tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza; pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza, deve essere pronunciata la separazione senza addebito” (cfr. Cass. 28-9-2001, n. 12130, Cass. 11-6-2005 n. 12383 e Cass. 16-11-2005, n. 23071; Cass. 27-6-2006, n. 14840).
Ancora, la Cassazione stabilisce che “In tema di separazione personale, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posta dall’art. 143 cod. civ. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata ed in conseguenza di una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione congrua e logica” (Cass. civ., 18074/2014).
Nel caso concreto, il Tribunale giunge alla conclusione di non poter pronunciare l’addebito in capo a nessuno dei due coniugi, in quanto dalle allegazioni è emerso che “i dissapori e le reciproche incomprensioni sono sorte molto tempo prima della proposizione della domanda, e che i comportamenti contrari ai doveri fondanti la solidarietà familiare, consistenti nel reciproco rispetto e comprensione e di assistenza morale e materiale, sono proseguiti negli anni successivi, lamentando ciascun coniuge il negativo comportamento dell’altro”.
La dichiarazione di addebito della separazione implica la imputabilità al coniuge del comportamento, volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri del matrimonio, cui sia ricollegabile l’irreversibile crisi del rapporto fra coniugi (Cass. civ., 25843/2013) e per i Giudici di Torre Annunziata, nel caso specifico, non è stata raggiunta la prova che la crisi abbia trovato tale origine essendo maturata invece negli anni.
Occupandosi della domanda di risarcimento danni proposta ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., il Tribunale, con la medesima sentenza in commento, ritiene di doverla riqualificare, ex art. 99 cc, in richiesta ai sensi dell’art. 2043 cc, in quanto configurano tale illecito i fatti allegati a fondamento delle richiesta ovvero l’offesa alla dignità ed onore derivante dalla infedeltà del coniuge e dalle affermazioni lesive della sua dignità e reputazione.
Il Tribunale sottolinea che: “Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili); e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona – riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio, l’addebito della separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare), dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia (sempre che ricorrano le sopra dette caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di responsabilità aquiliana” (in tal senso Cass. civ., 9801/2005, secondo la quale poiché l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, sostanziantesi anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allorché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità “coeundi” a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un matrimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sè e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio)”.
In tale ottica, in riferimento alla condotta illecita costituita dalla violazione del dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, i Giudici evidenziano che “si è ritenuto che, premesso che tale obbligo può venir meno, in attuazione di un diritto di libertà individuale riconducibile all’art. 2 della Cost. -– posto che con il matrimonio, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus” per tutta la vita potendo tali doveri venir meno con un atto unilatelare di volontà espresso nelle forme di legge — una volta che il coniuge proponga domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio, se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sè a integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta, né tanto meno del terzo, che al su detto obbligo è del tutto estraneo”.
In merito alla responsabilità per danni non patrimoniali — sulla base dei principi già sopra esposti — il Collegio deduce che “perché possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell’ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione, di un diritto costituzionalmente protetto. Sarà inoltre necessaria la prova del nesso di causalità fra detta violazione ed il danno, che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva – obiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà – di per sè non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificarsi in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità). Ovvero ove l’infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sè insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto (in tali sensi, Cass. civ., 18853/2011)”.
Nel caso concreto, per quanto allegato dal resistente, e non contestato dalla ricorrente, il coniuge si mostrava in pubblico in compagnia del suo amante, che incontrava anche sotto casa per poi salire sulla sua auto, che presentava come suo fidanzato; inoltre aveva affermato a terzi di essere divorziata, sul proprio profilo Facebook si attribuiva lo stato di “separata” prima dell’instaurazione del procedimento de quo e, con terzi, nel riferirsi al marito, lo chiamava “il verme” e affermava che aveva tendenze omosessuali, da questi negate.
Non appare revocabile in dubbio che il comportamento descritto abbia gravemente offeso la dignità e la reputazione del resistente, e non costituisca inoltre mera violazione del dovere di fedeltà tutelato e sanzionato dall’addebito. La connotazione pubblica della relazione adulterina, la dichiarazione pubblica della esistenza di un rapporto di fidanzamento tra la ricorrente ed altro uomo e la gravità delle offese rivoltegli, sono sufficienti per ritenere lesa la dignità e la reputazione del resistente.
In conclusione, attesa la oggettiva lesività della sfera psico-fisica, per la sofferenza morale e psicologica dal resistente subita a causa del comportamento della ricorrente, il Tribunale sentenzia nel senso che “costei deve essere condannata al pagamento, in favore del resistente, della somma di euro 5.000,00, equitativamente liquidata ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., oltre gli ulteriori interessi legali sino al soddisfo”.
Infine, il Tribunale puntualizza che “Il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c.., costituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c. ed il suo esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, con l’unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, dovendosi, peraltro, intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo. In tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una decisione di “non liquet”, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria” (Cass. civ., sez. III, 12-10-2011, n. 20990).