Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 31 maggio 2011, n. 11963, ribadiscono che, “alla luce dei consolidati principi vigenti in materia, l’affermata irreversibile (parziale) trasformazione del fondo abbia determinato l’acquisto della proprietà del bene (nei limiti della parte trasformata) da parte della Pubblica Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende automaticamente (come ha viceversa ritenuto il Tribunale Superiore delle Acque) il rigetto della domanda restitutoria a suo tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la F., invocando la restituzione del bene oggetto del procedimento espropriativo, ha sostanzialmente esercitato, nella sua qualità di danneggiato, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito, con ciò esercitando il diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo comma, c.c.
È ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè in cui, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, sia intervenuta l’irreversibile trasformazione del fondo) l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica formulata dal proprietario del terreno interessato è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene rappresentato in quello oggetto di esame) le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della Pubblica Amministrazione a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda come detto basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno”.
Emiliana Matrone
Corte di Cassazione
Sezioni Unite
Sentenza 31 maggio 2011, n. 11963
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 10 aprile 2006 il Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche presso la Corte di Appello di Napoli, in parziale accoglimento della domanda di Teresa F., condannava rispettivamente la Regione Campania e la Astaldi s.p.a., in proprio e quale mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Borselli s.p.a., la Pisani s.p.a. e la So.Ge.Ca. s.r.l., al pagamento di Euro 7.359,30 oltre interessi, per occupazione legittima e di Euro 62.844,86 oltre interessi per l’occupazione appropriativa di mq. 15.609 di terreno (la prima), nonché al pagamento di Euro 27.069,41 oltre interessi, per l’occupazione illegittima di mq 12.458 di terreno (la seconda).
Con la medesima sentenza veniva altresì rigettata la domanda di ripristino dello stato dei luoghi formulata nei confronti della Regione, essendo stata condannata la sola A.T.I. (associazione temporanea di imprese) a rimuovere quanto ancora fosse depositato sul luogo ed a ripristinare la fertilità dei terreni.
La decisione, impugnata in via principale da F. e in via incidentale dalla Astaldi, in proprio e quale rappresentante dell’A.T.I., veniva poi confermata dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche. In particolare, sui diversi punti sottoposti al suo esame il Tribunale superiore rilevava, per l’appello principale: era insussistente il vizio di ultrapetizione con riferimento all’avvenuta liquidazione del risarcimento per l’occupazione appropriativa dell’area, poiché la domanda della F. comprendeva anche l’azione risarcitoria a tale titolo; era certamente avvenuta l’irreversibile trasformazione di parte delle aree legittimamente occupate, essendo ciò stato affermato sia dal c.t.u. che dal consulente dell’appellante principale, ed essendo inoltre irrilevante in senso contrario sia la mancata ultimazione delle opere, che il differimento della destinazione al pubblico interesse per il cui soddisfacimento erano state programmate; era inconsistente la deduzione dell’inapplicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva alla luce della giurisprudenza della Corte Europea, essendo intervenuta sul punto la Corte Costituzionale, che con la sentenza del 27 ottobre 2007, n. 348 aveva stabilito la necessità di rapportare comunque i criteri di liquidazione ai valori di mercato; risultava indimostrata la pretesa erroneità della valutazione delle perdite subite, che sarebbe stata riscontrabile nell’incidenza negativa sull’attività dell’impresa agricola e su quella dell’allevamento del bestiame, mentre le doglianze sollevate al riguardo sarebbero state comunque generiche.
Quanto all’appello incidentale, il Tribunale Superiore rilevava: l’inammissibilità della prova orale, richiesta per “dimostrare la mancanza di occupazione illecita ad opera della A.T.I. Astaldi”; l’infondatezza dell’assunto secondo cui non vi sarebbe stata occupazione illecita delle aree non acquisite dalla Regione; l’inammissibilità della censura relativa alla disposta condanna al ripristino della fertilità delle aree illecitamente occupate; la correttezza della statuizione sulle spese, emessa in applicazione del principio della soccombenza.
Avverso la decisione F. proponeva ricorso per cassazione affidato a sei motivi poi illustrati da memoria, cui non resistevano gli intimati.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 17 maggio 2011.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i motivi di impugnazione Teresa F. ha rispettivamente denunciato:
1) violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il Tribunale Superiore avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale era stato lamentato il mancato accoglimento della domanda di restituzione del fondo illegittimamente occupato e ciò, per di più, in contrasto con l’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel caso di espropriazione illegittima imporrebbe la restituzione del fondo, quale “unico rimedio capace di eliminare le conseguenze dell’atto illecito” (p. 7);
2) violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, interpretato dalla Corte Europea nel senso che lo stesso è da intendere violato se la lesione del diritto di proprietà non è conforme all’utilità pubblica (condizione di finalità) ed alle condizioni previste dalla legge (condizione di legalità). Nella specie queste ultime condizioni non sarebbero ravvisabili, sia perché per effetto dell’occupazione acquisitiva sarebbe consentito l’acquisto di proprietà di un bene sulla base di un fatto illecito, sia per l’approssimativa configurazione dell’istituto, non “assistito da norme chiare, sufficienti e conoscibili”;
3) vizio di motivazione in ordine alla “irreversibile trasformazione” dei fondi, che al contrario non si sarebbe verificata, come desumibile dal fatto che dopo tre lustri le opere originariamente previste non sarebbero state completate, mentre i terreni sarebbero in stato di abbandono.
Sul punto il Tribunale Superiore, per quanto espressamente sollecitato, si sarebbe limitato a richiamare le affermazioni del c.t.u. e del consulente di parte dell’appellante principale, e d’altro canto il giudizio emesso al riguardo sarebbe errato, non essendosi tenuto conto, da una parte, del lasso di tempo trascorso dalla sospensione dei lavori e dello stato di abbandono di quanto eseguito e, dall’altra, del rischio di nocumento alle falde acquifere limitrofe, tale cioè da mettere in discussione la stessa fattibilità dell’opera;
4) violazione delle norme del diritto vivente sulla occupazione acquisitiva per difetto dell’elemento finalistico, desumibile dalle circostanze di fatto sopra indicate (stato di abbandono del cantiere, mancato compimento di attività in relazione al lungo tempo trascorso);
5) vizio di motivazione in ordine alla affermata irreversibile trasformazione dell’intero fondo. Con l’atto di impugnazione sarebbe stato infatti evidenziato come l’opera (peraltro, come detto, non ultimata) avrebbe compreso anche realizzazioni non visibili o comunque distanti dal “corpus” principale; ciò dunque, da un lato, avrebbe dovuto far escludere un giudizio di irreversibile trasformazione dell’intero terreno e, dall’altro, avrebbe dovuto comportare un esame, viceversa non verificatosi, circa il possibile perseguimento dell’interesse pubblico con la costituzione di un diritto di servitù, anziché con l’acquisizione del diritto dominicale;
6) violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, atteso che la detta disposizione imporrebbe la “restitutio in integrum” in qualsiasi fattispecie di espropriazione indiretta, e comunque l’attribuzione di un valore equivalente a quello venale, esito al contrario non realizzato nel caso di specie.
Osserva il Collegio che vanno esaminati prioritariamente e congiuntamente il quarto ed il quinto motivo di impugnazione, in quanto pregiudiziali e fra loro connessi, che risultano fondati.
Al riguardo la F. ha invero lamentato lo stato di abbandono del fondo di sua proprietà oggetto di controversia, la mancata ultimazione delle opere per la cui realizzazione era iniziato il processo espropriativo, l’ampio arco di tempo decorso dalla sospensione dei lavori (questi erano iniziati nel 1990, per essere stati poi sospesi nel 1991, vale a dire a distanza di circa tre lustri).
Il Tribunale Superiore delle Acque, dal canto suo, pur senza entrare in specifici dettagli circa la cronologia degli eventi, ha affermato, come dato certo, che le opere in questione non erano ancora terminate, né erano all’epoca della decisione “destinate al pubblico interesse per cui furono predisposte e progettate” (p. 15), ma ha tuttavia ritenuto del tutto irrilevante tale aspetto, e ciò in ragione dell’avvenuta irreversibile trasformazione di parte delle aree legittimamente occupate, attestata sia dal consulente tecnico di ufficio che dal consulente di parte della stessa F.
Orbene non è dubbio che, alla luce dei consolidati principi vigenti in materia, l’affermata irreversibile (parziale) trasformazione del fondo abbia determinato l’acquisto della proprietà del bene (nei limiti della parte trasformata) da parte della Pubblica Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende automaticamente (come ha viceversa ritenuto il Tribunale Superiore delle Acque) il rigetto della domanda restitutoria a suo tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la F., invocando la restituzione del bene oggetto del procedimento espropriativo, ha sostanzialmente esercitato, nella sua qualità di danneggiato, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito, con ciò esercitando il diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo comma, c.c.
È ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè in cui, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, sia intervenuta l’irreversibile trasformazione del fondo) l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica formulata dal proprietario del terreno interessato è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene rappresentato in quello oggetto di esame) le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della Pubblica Amministrazione a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda come detto basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno.
D’altra parte tale conclusione (quella cioè della necessità di una verifica in ordine al collegamento effettivo fra i lavori di trasformazione compiuti e la realizzazione dell’opera programmata) risulta in sintonia con principi già affermati dal legislatore in tema di espropriazione e dalla giurisprudenza di questa Corte.
In tema di retrocessione, infatti, è stato previsto che, una volta trascorso il termine per l’esecuzione dell’opera pubblica, gli espropriati possono richiedere la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la condanna dell’espropriante alla restituzione dei beni precedentemente acquisiti (art. 63 l. 2359/1865); è stato analogamente previsto identico diritto dell’espropriato nel caso in cui il fondo non abbia ricevuto (sia pure in parte) la destinazione impressa nel progetto originario (artt. 60 e 61 1. 2359/1865); anche con più recente normativa è stato riconosciuto all’espropriato il diritto di chiedere la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione del fondo nel caso di mancata realizzazione dell’opera nel termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espropriazione (art. 46 D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327).
E pure la giurisprudenza di questa Corte, come detto, si è costantemente espressa nel senso ora indicato (C. 01/15188, C. 00/1912, C. 00/1231, C. 97/458, C. 94/6253), ribadendo inoltre, con recente decisione in tema di occupazione acquisitiva, la non configurabilità di elementi ostativi alla restituzione dei terreni oggetto di espropriazione al proprietario, ove non risultante la loro conformazione alla programmazione originaria dell’opera (C. 10/6688).
Conclusivamente, devono essere accolti il quarto ed il quinto motivo di ricorso con assorbimento degli altri, la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche in diversa composizione, per una nuova delibazione in ordine all’istanza di restituzione del terreno oggetto di giudizio proposta da Teresa F., sulla base del principio secondo cui il sollecitato riconoscimento del relativo diritto può essere negato quando, oltre all’accertata irreversibilità della trasformazione delle aree occupate, risulti la permanenza e l’attualità dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla realizzazione e alla utilizzazione delle opere programmate.
Il giudice del rinvio provvederà infine anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quarto ed il quinto motivo di impugnazione, assorbiti gli altri, e rinvia al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.