Corte Costituzionale, 16 aprile 2008, n. 102
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel loro testo originario, degli stessi articoli, nel testo sostituito, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 3 della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), nonché dell’art. 5 di quest’ultima legge, promossi con due ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, notificati il 10 luglio 2006 ed il 2 agosto 2007, depositati in cancelleria il 13 luglio 2006 ed il 7 agosto 2007 ed iscritti al n. 91 del registro ricorsi 2006 e al n. 36 del registro ricorsi 2007.
Visti gli atti di costituzione della Regione Sardegna;
udito nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il giudice relatore Franco Gallo;
uditi l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Graziano Campus e Paolo Carrozza per la Regione Sardegna.
Ritenuto in fatto
1. – Con il ricorso n. 91 del 2006, notificato il 10 luglio 2006 e depositato il 13 luglio successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 della Costituzione in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, agli artt. 3 e 53 Cost., all’art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell’art. 12 del Trattato CE; b) dell’art. 3 della stessa legge regionale, in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 Cost. in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, agli artt. 3 e 53 Cost., all’art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell’art. 12 del Trattato CE; c) dell’art. 4 della stessa legge regionale, in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 Cost. in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, agli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri non espressamente indicati).
Il ricorrente premette che le tre norme censurate – le quali istituiscono, rispettivamente, l’imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, l’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico e l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto – non possono trovare fondamento costituzionale nell’art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia. Detta disposizione, infatti, comprende tra le entrate regionali le «imposte e tasse sul turismo e gli altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato».
Sostiene la difesa erariale che «l’attribuzione, dunque, è duplice: diretta, per le imposte e tasse sul turismo; indiretta per gli altri tributi, in quanto presuppone che la regione abbia la facoltà di istituirli, facoltà che non viene attribuita direttamente dalla norma statutaria, ma che deve trovare la sua fonte in norme apposite». Dalla formulazione del citato art. 8, si ricaverebbe, cioè, che «il potere impositivo della regione investe i servizi turistici, vale a dire quelle prestazioni in favore del turista durante la sua permanenza nella regione», con la conseguenza che esso non potrebbe «rappresentare la base costituzionale di nessuna delle norme impugnate perché nessuna di esse […] è riconducibile al turismo, secondo la nozione tradizionale in campo tributario».
L’Avvocatura generale procede, poi, alla disamina delle singole norme denunciate e all’illustrazione delle censure formulate per ciascuna di esse.
1.1. – In relazione al denunciato art. 2, la difesa erariale osserva che esso istituisce e disciplina l’imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, applicabile – nei confronti dell’alienante avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi, con l’esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi – alle cessioni a titolo oneroso a) di fabbricati siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, destinati ad uso abitativo, escluse le unità immobiliari che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o del coniuge, nonché b) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi.
Ad avviso della difesa erariale, tale norma víola il citato art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché: a) l’oggetto dell’imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo.
La stessa norma violerebbe, inoltre, gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché non sarebbe ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale.
In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», la difesa erariale formula tre ulteriori censure.
Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, per violazione del principio fondamentale espresso dall’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall’acquisto o dalla costruzione, esclusi gli immobili acquistati per successione o donazione e gli altri casi che sono indicati dallo stesso articolo.
In secondo luogo, deduce la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., per contrasto con il «principio generale» secondo cui lo stesso indice di capacità contributiva non giustifica la sovrapposizione di piú imposte, perché ogni imposta deve avere un presupposto autonomo, dovendo colpire «materie tassabili diverse», mentre nella specie la Regione ha colpito la stessa materia già tassata dallo Stato con l’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986.
In terzo luogo, deduce la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 del Trattato CE, in quanto la norma censurata discrimina i cittadini comunitari adottando, per l’applicazione dell’imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza». Argomenta, sul punto, che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, «il criterio che ricollega alla residenza nel territorio nazionale l’eventuale rimborso dell’imposta versata per eccesso, sebbene si applichi indipendentemente dalla cittadinanza del contribuente interessato, rischia di danneggiare in particolare i contribuenti cittadini di altri Stati membri, giacché saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese o a stabilirvisi durante l’anno».
1.2. – In relazione al denunciato art. 3, il ricorrente osserva che esso istituisce e disciplina l’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico, dovuta – secondo classi di superficie – sui fabbricati siti nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, applicabile nei confronti del proprietario di detti fabbricati, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, con l’esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi e figli.
Il ricorrente censura la norma in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché: a) l’imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo. Lamenta, altresí, che il tributo pregiudica «le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario», perché colpisce la stessa materia tassabile incisa da altri tributi e, in particolare, dall’ICI, producendo una “disarmonia” con i princípi del sistema tributario dello Stato. Lamenta, inoltre, che la norma censurata víola l’art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3», e l’art. 12 del Trattato CE, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto discrimina i cittadini comunitari adottando, per l’applicazione dell’imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza».
In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», la difesa erariale formula due ulteriori censure.
Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché l’imposta è determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre «la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l’imposta statale e per l’ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto analogo con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a secondo del pregio degli immobili».
In secondo luogo, deduce la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 del Trattato CE, per gli stessi motivi già esposti con riferimento al denunciato art. 2.
1.3. – In relazione al denunciato art. 4, il ricorrente osserva che esso istituisce e disciplina l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, la quale è applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (con l’esenzione dall’imposta delle navi adibite all’esercizio di attività crocieristica, delle imbarcazioni che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo e delle unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali), ed è dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell’aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.
Ad avviso della difesa erariale, il suddetto art. 4 víola l’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna e gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, per gli stessi motivi già esposti con riferimento al denunciato art. 3.
In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», la difesa erariale formula due ulteriori censure.
Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, con riferimento alle unità da diporto che effettuino lo scalo «in zona non attrezzata, in uno specchio di mare ridossato, dove l’ormeggio sia effettuato a terra, utilizzando la struttura naturale della spiaggia», la Regione ha individuato «come presupposto di imposta l’utilizzo di un bene naturale, sul quale non può esercitare poteri», quale il mare, «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale».
In secondo luogo, deduce la violazione dell’art. 53 Cost., perché, con riferimento agli aeromobili, a) «si è di fronte ad una duplicazione di imposta di tutta evidenza», in quanto «una imposta (o, meglio, tassa) di questo genere dovrebbe essere in favore di chi ha a carico l’onere di manutenzione e gestione degli impianti aeroportuali, che vengono utilizzati nello scalo. Questi soggetti, peraltro, hanno già la possibilità di rifarsi su chi esercita l’aeromobile attraverso il pagamento dei diritti aeroportuali, o diritto per l’uso degli aeroporti (legge n. 324/1976)»; b) non costituisce indice di capacità contributiva «lo svolgimento di un’operazione per la quale, comunque lo si voglia definire, si paga un prezzo che copre il costo del servizio reso, con margine di utile».
In terzo luogo, pur senza evocare espressamente gli artt. 3 e 53 Cost., lamenta che, essendo l’imposta dovuta annualmente con riferimento alle unità da diporto, «piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l’onere dell’imposta che, in questo modo, viene ad avere carattere regressivo».
2. – Si è costituita la Regione Sardegna, premettendo di avere istituito l’imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, l’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico e l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, in forza della potestà legislativa conferitale dall’art. 8, lettera i) dello statuto di autonomia. Detta disposizione, ad avviso della resistente, consente alla Regione di istituire direttamente «tributi legati alla attività turistica, e ciò anche in carenza di una legislazione statale di coordinamento». Diversamente opinando, non avrebbe senso che in detta norma, «solamente per “gli altri” tributi diversi da quelli sul turismo, venga (nuovamente) specificato che gli stessi siano in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato». Tale interpretazione sarebbe confermata, sul piano comparatistico, dalla lettura degli artt. 72 e 73 dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige, i quali riportano in due norme distinte lo stesso contenuto dell’art. 8, lettera i), dello statuto sardo, «scindendo da una parte le imposte e tasse sul turismo (art. 72) e dall’altra gli “altri tributi propri”, da istituirsi (solamente questi) “in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato». In ogni caso, sempre ad avviso della resistente, i princípi del sistema tributario si possono desumere, oltre che da leggi statali che espressamente li stabiliscano per i singoli tributi, «anche dalla legislazione statale vigente in riferimento a tributi non specificamente disciplinati da leggi dello Stato», non potendo trovare applicazione la giurisprudenza costituzionale sul nuovo art. 119 Cost., perché le modifiche apportate al Titolo V della Parte II della Costituzione non possono avere per effetto la restrizione dell’autonomia già spettante alle Regioni speciali.
Ciò premesso, la resistente osserva, in primo luogo, che i tributi disciplinati dalle norme censurate sono tributi sul turismo nel senso fatto proprio dall’art. 3 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale), e cioè «forme di imposizione che colpiscono attività ovvero utilizzo di beni immobili riferiti alla pratica turistica, ovvero attività economiche qualificate come turistiche o inerenti al turismo, in quanto dallo stesso direttamente influenzate sotto il profilo economico, anche in rapporto alla localizzazione dell’attività medesima».
In secondo luogo, la Regione afferma che l’art. 1 della legge 29 marzo 2001, n. 135 (Riforma della legislazione nazionale del turismo), «pone in relazione la legislazione regionale sul turismo con la tutela dell’ambiente, con la sostenibilità degli interventi e con lo sviluppo del turismo anche ai fini dell’attuazione del riequilibrio con le aree depresse», consentendo al legislatore regionale di individuare nelle seconde case sulla costa un presupposto impositivo “affidabile”, perché strettamente correlato al turismo estivo. È indice di tale stretta correlazione l’azione regionale di salvaguardia dell’ambiente costiero dalla speculazione edilizia; azione che si è manifestata nell’adozione della legge reg. 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), che ha disciplinato le procedure per la redazione e l’approvazione del piano paesaggistico regionale, istituendo contestualmente alcune misure di salvaguardia, e con la successiva adozione del piano paesaggistico relativo all’area costiera. Proprio in considerazione delle caratteristiche ambientali dell’isola, il presupposto delle imposte istituite con le disposizioni censurate può allora identificarsi nel “consumo” dell’ambiente e del paesaggio «operato dalla mera esistenza […] di fabbricati siti nella fascia costiera e destinati ad essere utilizzati quasi esclusivamente nella stagione estiva», tanto che lo stesso legislatore costituzionale, con l’art. 8, lettera i), dello statuto, ha attribuito alla Regione una potestà legislativa in tema di tributi sul turismo.
In tale prospettiva, l’imposta sulle plusvalenze delle seconde case a uso turistico sarebbe una non irragionevole e modesta trattenuta sul plusvalore derivato agli immobili costieri «da una politica pubblica fatta di investimenti e pianificazioni volti a rafforzare l’industria turistica e la salvaguardia dell’ambiente».
Sull’asserita violazione del divieto di doppia imposizione, la resistente precisa che le imposte istituite con le norme censurate hanno presupposti del tutto autonomi e peculiari rispetto alle imposte statali ed afferma preliminarmente che non appaiono chiari i parametri costituzionali che il ricorrente assume violati.
Rileva, poi, che la Regione può colpire la stessa materia già tassata dallo Stato, perché: a) il citato art. 8, lettera i), dello statuto consente alla Regione di istituire con propria legge imposte e tasse sul turismo, senza necessità che una legge statale la abiliti a farlo; b) il fatto che i tributi censurati si ispirino ad imposte già disciplinate dalla legislazione statale consente di ritenere che la legislazione regionale è in armonia con quest’ultima; c) il carattere necessariamente “aggiuntivo” dell’imposizione regionale rispetto a quella statale è un dato comune all’intero sistema impositivo delle autonomie territoriali, che potrà essere attenuato dalla legislazione attuativa del nuovo art. 119 Cost.; d) l’art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia «non può essere letto nel senso che la Regione Sardegna è abilitata a istituire imposte e tasse sul turismo eccezion fatta che sugli immobili turistici»: esso pone, al piú, «un problema di misura e di proporzionalità della nuova imposizione, che tuttavia il ricorso non deduce nelle forme adeguate»; e) il fatto che la tassazione delle plusvalenze immobiliari sia esclusa dalla legislazione statale, dopo un quinquennio dall’acquisto dell’immobile, non costituisce motivo di illegittimità costituzionale, né di disarmonia con i princípi del sistema tributario statale.
In relazione all’imposta sulle seconde case ad uso turistico, istituita e disciplinata dall’art. 3 censurato, la Regione sostiene, innanzi tutto, che la sua applicabilità solo agli immobili situati nella fascia costiera trova ragione nella finalità di disincentivare la costruzione di tali immobili.
Rileva, poi, che il riferimento alla superficie dell’immobile per il computo della base imponibile non si pone in disarmonia con il criterio del valore catastale, utilizzato dalla legislazione statale sull’ICI, perché anche quest’ultima considera la superficie come parametro utile a stabilire, sia pur presuntivamente, il valore dell’immobile.
Afferma, inoltre, che non sussiste la prospettata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. e dell’art. 12 del Trattato CE, sotto il profilo della non discriminazione in base alla nazionalità, perché anche l’ordinamento statale distingue fra residenti e non residenti ai fini dell’imposizione tributaria. A livello regionale, la distinzione fra residenti e non residenti è addirittura imposta dall’art. 8 dello statuto di autonomia, «il quale fonda la gran parte del reddito della Regione […] sul reddito prodotto dai residenti» e rende perciò necessaria la sottoposizione a tassazione di chi abbia con la Sardegna un legame “reale”, costituito dalla proprietà, a fini evidentemente turistici, di una seconda casa in zona costiera. Appare, infatti, coerente con il sistema tributario dello Stato e con gli artt. 23 e 53 Cost., evocati quali parametri dal ricorrente, che il proprietario di un immobile costiero «sia chiamato a contribuire – sia pure con esborsi di modesta entità – al mantenimento dell’ambiente che […] contribuisce a “consumare”».
La correttezza di tale differenziazione fra il regime fiscale dei residenti in Sardegna e quello dei non residenti emerge, a detta della resistente, anche da altri dati normativi.
In primo luogo, il decreto legislativo del 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), consente ai Comuni di diversificare le aliquote dell’ICI in relazione al fatto se l’immobile sia abitazione, seconda casa, o casa a disposizione non locata e di ridurre l’entità dell’imposta per chi usa l’immobile come abitazione principale.
In secondo luogo, il d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), consente al sindaco o alla giunta comunale: a) di individuare le zone a traffico limitato, nelle quali la circolazione è riservata ai residenti; b) di subordinare l’ingresso o la circolazione dei veicoli a motore dei non residenti al pagamento di una somma; c) di stabilire che la sosta dei non residenti in tali zone avvenga a titolo oneroso.
In terzo luogo, la sentenza della Corte costituzionale n. 220 del 2004 ha confermato la legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 2, della legge della Regione Sardegna 29 luglio 1998, n. 23 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna), la quale consente ai residenti e preclude ai non residenti il rinnovo delle autorizzazioni venatorie, richiamando il principio del collegamento del cacciatore residente con il territorio, affermato dalla legislazione statale (art. 14, comma 5, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»).
In conclusione, la resistente evidenzia che la differenziazione, a fini fiscali, tra residenti e non residenti è assai frequente nell’ordinamento statale, tanto che il censurato art. 3 risulta in armonia con la legislazione tributaria e non tributaria vigente.
In relazione all’imposta regionale su aeromobili e unità da diporto, istituita e disciplinata dall’art. 4 censurato, la Regione sostiene, innanzi tutto, che la sua applicabilità soltanto nei confronti di chi esercita l’aeromobile o l’imbarcazione ed è domiciliato fuori dal territorio sardo deve essere ritenuta legittima per le stesse ragioni già esposte in relazione ai tributi di cui ai censurati artt. 2 e 3. Rileva, inoltre, che il tributo colpisce un tipico “servizio turistico” e che la qualificazione del tributo come imposta o tassa è irrilevante. Afferma, poi, che la circostanza che il tributo sullo scalo di aeromobili colpisca operazioni per le quali viene comunque pagato un corrispettivo sotto forma di diritti aeroportuali non esclude che il tributo stesso sia in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, perché proprio in tale sistema esistono tasse e imposte che – come l’IVA – colpiscono l’esercizio di attività e l’utilizzazione o il consumo di beni.
Rispetto allo scalo delle unità da diporto, la Regione sostiene, in primo luogo che – contrariamente a quanto affermato dal ricorrente – l’imposta non ha carattere regressivo e non si pone, perciò, in contrasto con l’art. 53 Cost. La scelta del legislatore regionale di escludere dall’imposizione le unità da diporto che sostano per tutto l’anno nei porti della Sardegna sarebbe giustificata dalla finalità di incentivare la presenza costante dell’imbarcazione, fatto che «si traduce in un significativo apporto di reddito “da turismo”» rispetto all’ormeggio occasionale, il quale apporta, invece, solo un reddito limitato alle attività turistiche della Regione e provoca comunque inquinamento e consumo di risorse naturali limitate.
In secondo luogo, la resistente contesta, «in quanto palesemente esclusa dal tenore letterale della norma impugnata», l’interpretazione data dal ricorrente per cui la disposizione censurata considererebbe imponibile lo scalo in zona non attrezzata del mare territoriale.
3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto sostenuto nel ricorso, precisando, in particolare, che: a) l’indagine sulla riconducibilità dei tributi oggetto delle norme censurate alla nozione di turismo non pare rilevante, perché la potestà legislativa della Regione Sardegna in materia di tributi deve comunque essere esercitata in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, anche se ha ad oggetto tributi sul turismo; b) la legittimità costituzionale delle imposte istituite con le norme censurate deve essere valutata in base al presupposto e non in base alla finalità dell’imposizione; c) nell’esercizio della sua potestà legislativa in materia tributaria, la Regione non può «adottare gli stessi presupposti delle imposte statali già in vigore»; d) non è chiaro se l’imposta sulle plusvalenze sia diretta a incentivare o a disincentivare il turismo; e) nel disciplinare tale imposta, la Regione ha illegittimamente colpito lo stesso presupposto di imposta già inciso dalla legislazione statale e non ha tenuto conto del principio dell’ordinamento tributario statale per cui l’incremento del valore di un immobile è ritenuto imponibile solo se realizzato con intento speculativo, «intento da escludersi quando la vendita avvenga a distanza di tempo tale da far presumere che l’acquisto sia stato effettuato con il fine di godimento»; f) sempre in tema di imposta sulle plusvalenze e contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione, il criterio della residenza può avere rilievo solo quando «esiste una connessione tra attività, come la caccia, ed il territorio», ma non può giustificare la non sottoposizione a tassazione dei residenti in Sardegna, perché il presupposto dell’imposta si realizza per essi come per i non residenti; g) con l’imposta sullo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto, la Regione ha colpito una capacità contributiva, quella espressa dall’utilizzazione dei servizi aeroportuali o portuali, già incisa dalla tassazione statale.
4. – Con il ricorso n. 36 del 2007, notificato il 2 agosto 2007 e depositato il 7 agosto successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art 2 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007) – entrato in vigore il 31 maggio 2007, ai sensi dell’art. 37 della stessa legge –, in riferimento all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), al principio di ragionevolezza, agli artt. 3 e 53 Cost., all’art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell’art. 12 del Trattato CE e, in subordine, all’art. 119 Cost.; b) dell’art. 3 della stessa legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 2, della citata legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, in riferimento all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006), agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, agli artt. 3 e 53 Cost., al principio di ragionevolezza; c) dell’art. 4 della stessa legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento ai parametri già evocati nel ricorso in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della stessa legge reg. n. 4 del 2006, all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81, 87 del Trattato CE, agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., all’art. 3 di un non precisato testo normativo, agli artt. 3 e 53 Cost., agli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006); d) dell’art. 5 della citata legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, in riferimento all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006), all’art. 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, all’art. 3 Cost., all’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con gli artt. 12 e 49 del Trattato CE.
Il ricorrente premette che, al fine di individuare i parametri costituzionali applicabili, occorre verificare se il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione abbia ampliato l’autonomia statutaria regionale e pone, perciò, a raffronto l’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006) e l’art. 119 Cost.
Secondo il ricorrente, «tra le due norme non c’è coincidenza di effetti», perché la prima prevede che la potestà regionale in materia tributaria deve essere esercitata in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, mentre la seconda pone come limite a detta potestà i princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. A detta del ricorrente, l’art. 119 richiamerebbe «le condizioni di compatibilità tra sistemi tributari, la cui articolazione interna può non restare condizionata», mentre l’art. 8, lettera h), dello statuto speciale richiamerebbe princípi interni al sistema, «nel senso che possono incidere sulla struttura delle singole imposte». In ogni caso, poiché la Corte costituzionale avrebbe affermato – con la sentenza n. 37 del 2004 – che le leggi statali vigenti non possono essere utili per ricavare i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario, le norme censurate andrebbero valutate alla stregua del parametro statutario, il quale consente l’esercizio di una potestà legislativa in materia tributaria anche in mancanza della fissazione, da parte del legislatore statale, di detti princípi fondamentali.
Sempre in via generale, il ricorrente premette anche che, con la sola eccezione dell’imposta di soggiorno, i tributi in oggetto, contrariamente alla formulazione letterale delle norme censurate, non possono essere definiti imposte o tasse sul turismo, ma devono essere invece considerati quali «altri tributi propri» ai sensi dell’art. 8, lettera h), dello statuto speciale.
Premette, infine, di avere proposto, in ragione del rilievo comunitario del mercato turistico sardo, alcune censure basate su parametri di diritto comunitario – da ritenere superate in caso di accoglimento delle censure basate su parametri di diritto interno – in relazione alle quali chiede che sia effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE.
L’Avvocatura generale procede, poi, alla disamina delle singole norme denunciate e all’illustrazione delle censure formulate per ciascuna di esse.
4.1. – In relazione all’art 2 della citata legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, la difesa erariale osserva che esso disciplina l’imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico, applicabile – nei confronti dell’alienante a titolo oneroso avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi – alle cessioni a titolo oneroso: 1) delle unità immobiliari acquisite o costruite da piú di cinque anni, site in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, adibite ad uso abitativo e diverse dall’abitazione principale (come definita dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992), da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi.
Ad avviso della difesa erariale, tale norma víola il citato art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (secondo cui le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato»), perché «la legge regionale non è in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato contenuti nell’art. 81 [recte: art. 67], comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917», per cui, «nei confronti di una persona fisica, perché una plusvalenza possa costituire reddito “diverso” […], è necessario l’intento speculativo», il quale «non può avere un’articolazione diversa Regione per Regione» e «va escluso quando tra l’acquisto e la vendita sia intercorso un tempo tale da farlo ritenere quanto meno improbabile».
La stessa norma sarebbe, poi, irragionevole, perché, applicandosi a tutte le unità immobiliari site entro tre chilometri dalla battigia marina, fisserebbe ingiustificatamente una distanza dalla battigia uguale per tutte le spiagge della Regione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e, quindi, delle diverse possibilità di accesso al mare.
Il denunciato art. 2 violerebbe, inoltre, il principio di capacità contributiva, perché «nella norma impugnata non si trova alcun elemento per il quale la capacità contributiva, espressa dalla realizzazione di plusvalenze con la cessione di immobili situati nella Regione, sia diversa a seconda che il soggetto risieda in Sardegna o fuori».
Sussisterebbe anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 12 del Trattato CE, perché la norma censurata discriminerebbe i cittadini comunitari, assoggettando all’imposta tutti i soggetti non residenti.
In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», la difesa erariale deduce la violazione dell’art. 119 Cost., per contrasto con i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario, che corrispondono, almeno in via transitoria e «fino a che non interverranno le norme statali di attuazione dell’art. 119», ai princípi del sistema tributario dello Stato.
4.2. – In relazione all’art. 3 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 (la cui rubrica recita: «Imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico»), nel testo sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, il ricorrente osserva che esso: a) disciplina l’imposta regionale sulle unità immobiliari destinate ad uso abitativo, dovuta – per metro quadro ed in misura differenziata secondo scaglioni di superficie – sulle unità immobiliari ubicate nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibite ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, ed applicabile nei confronti del proprietario di dette unità immobiliari, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, superficie o del locatario dell’immobile in locazione finanziaria, aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale; b) prevede che «Per l’anno 2006 l’imposta è dovuta nella misura piú favorevole al contribuente mediante comparazione tra le misure previste dal presente articolo e quelle previgenti» (comma 9).
Per la difesa erariale, il denunciato art. 3 víola l’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006) e gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l’oggetto dell’imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l’unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell’immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l’imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo essa determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del valore di questo, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l’ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) la norma non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta, e perciò non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente.
La norma denunciata violerebbe anche l’art. 53 Cost., perché «l’imposta è commisurata alla visibilità del mare, quindi su valori panoramici», i quali non sono materia tassabile, in quanto non integrano la capacità contributiva – che è, invece, legata al valore economico del bene –, e, in subordine, gli artt. 3 e 53 Cost., per irragionevolezza, perché l’imposta è dovuta anche per gli immobili privi di vista sul mare. Violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 53 Cost., sempre per irragionevolezza, in considerazione del contrasto con i princípi del sistema tributario dello Stato, risultante anche dal fatto che l’imposta è «progressiva con l’aumentare delle superfici disponibili da 60 mq. a 150» mq., ma «diventa fortemente regressiva da 150 mq. a 200 per diminuire ancora per le superfici maggiori».
Infine, sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il denunciato art. 3, quanto all’individuazione dei soggetti passivi dell’imposta, si porrebbe in contrasto con il menzionato principio di ragionevolezza, salvo che detta disposizione sia interpretata (interpretazione che si richiede alla Corte di adottare) nel senso che «se il proprietario, o i titolari degli altri diritti reali, non sono nel possesso dell’immobile, l’imposta non è dovuta, né da loro (per mancanza del possesso) né dai possessori non titolari di quei diritti, perché non indicati tra i soggetti passivi».
4.3. – In relazione all’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, il ricorrente osserva che esso disciplina l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (con l’esenzione dall’imposta: delle imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a regate di carattere sportivo, a raduni di barche d’epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all’Autorità marittima da parte degli organizzatori; delle unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali; della sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l’effettuazione della stessa), e dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell’aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale e nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.
Ad avviso dell’Avvocatura generale, la norma víola i parametri già evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, quali sostituiti dall’art. 3, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, per i motivi già esposti nelle censure a tali norme.
Sempre per la difesa erariale, la disposizione denunciata si pone, relativamente ai soggetti che svolgono attività d’impresa, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., perché: a) víola l’art. 49 del Trattato CE, «introducendo una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici e aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo»; b) víola l’art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», perché ha l’effetto di falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune; c) víola l’art. 87 del Trattato CE, perché istituisce un aiuto alle imprese con sede in Sardegna.
La stessa difesa erariale lamenta, inoltre, la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., perché la norma censurata investe la materia della concorrenza, riservata alla competenza legislativa statale, incidendo, di conseguenza sull’unità economica della Repubblica. Deduce altresí il contrasto con «l’art. 3 [di un non meglio precisato testo normativo], la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza».
Quanto ai parametri costituiti dagli artt. 3 e 53 Cost., espressivi del principio di ragionevolezza, il ricorrente sostiene che essi sono violati, perché: a) «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta»; b) l’imposta denunciata ha carattere regressivo, perché la sua misura diminuisce proporzionalmente all’aumentare del numero dei passeggeri che l’aeromobile è abilitato a trasportare e della lunghezza delle unità da diporto e perché, con riferimento a queste ultime, è pagata una sola volta per tutto l’anno, cosí che «piú scali si fanno, meno sarà in proporzione l’onere tributario»; c) con riferimento allo scalo degli aeromobili, il tributo costituisce una duplicazione dei diritti aeroportuali previsti dalla legge n. 324 del 1976, dovuti, per l’utilizzazione degli impianti aeroportuali, al gestore dell’aeroporto; d) sempre con riferimento allo scalo degli aeromobili, il tributo «non può essere definito imposta, perché colpisce i singoli atti di esercizio di un’impresa e non il risultato utile complessivo», né tassa, «perché riscossa da chi non ha nessun coinvolgimento nel servizio utilizzato».
La difesa erariale evoca, infine, gli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché, con riferimento alle unità da diporto, l’imposta si applica anche se lo scalo avviene nei campi di ormeggio attrezzati, ubicati nel mare territoriale, che non fa parte del territorio della Regione. Infatti, l’art. 1 dello statuto identifica il territorio regionale nella «Sardegna con le sue isole», mentre i presupposti per imposte della Regione non possono «essere individuati fuori del suo territorio».
4.4. – Il ricorrente censura, infine, l’art. 5 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, che istituisce e disciplina l’imposta regionale di soggiorno, «da destinare ad interventi nel settore del turismo sostenibile», che i Comuni hanno la facoltà di applicare nell’àmbito del proprio territorio, a decorrere dall’anno 2008. Soggetti passivi del tributo sono coloro che non risultano iscritti nell’anagrafe della popolazione residente nei Comuni della Sardegna e l’imposta è dovuta per il soggiorno, nel periodo dal 15 giugno al 15 settembre, nelle aziende ricettive di cui alla legge regionale 14 maggio 1984, n. 22 (Norme per la classificazione delle aziende ricettive), nelle strutture ricettive extra-alberghiere di cui alla legge regionale 12 agosto 1998, n. 27 (Disciplina delle strutture ricettive extra-alberghiere), nelle strutture ricettive di cui alla legge regionale 23 giugno 1998, n. 18 (Nuove norme per l’esercizio dell’agriturismo), nelle unità immobiliari adibite ad abitazioni principali, cosí come definite dall’articolo 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, concesse in comodato o in locazione, e nelle unità immobiliari non adibite ad abitazioni principali (con l’esclusione, per queste ultime, del proprietario, del coniuge, degli affini e dei parenti in linea retta, dei collaterali fino al terzo grado, e degli ospiti che soggiornano unitamente ad almeno uno dei componenti la famiglia del proprietario). Sono esenti dall’imposta i lavoratori dipendenti che soggiornano per ragioni di servizio attestate dal datore di lavoro, gli studenti che soggiornano per ragioni di studio o per periodi di formazione professionale attestati dalle rispettive università, scuole od enti di formazione, i minori di diciotto anni, nonché i lavoratori autonomi che soggiornano per ragioni di lavoro documentabili.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il denunciato art. 5 víola: a) l’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché la Regione non può istituire imposte comunali, essendo tale divieto un principio del sistema tributario dello Stato; b) l’art. 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la Regione non può stabilire un’imposta comunale senza lasciare ai Comuni nessun margine di autonomia se non la scelta se istituire o no l’imposta; c) l’art. 3 Cost., perché è irragionevole che i residenti in Sardegna non siano soggetti all’imposta, «poiché la loro posizione è identica se rapportata al presupposto dell’imposta»; d) l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell’Unione europea subiscono una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, e con l’art. 49 del Trattato CE, perché «la libertà di prestazione dei servizi all’interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri».
5. – Si è costituita la Regione Sardegna, ribadendo le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione nel procedimento di cui al ricorso n. 91 del 2006 riguardanti il fondamento della potestà legislativa regionale in materia tributaria.
5.1. – Ad avviso della resistente, l’autonomia legislativa garantita dallo statuto speciale giustifica, nel quadro di un federalismo “competitivo”, una differenza di trattamento fra cittadini di Regioni diverse, in funzione delle diverse politiche economiche e fiscali perseguite, con il solo vincolo della ragionevolezza.
Per la stessa resistente, poiché le risorse finanziarie delle Regioni a statuto speciale sono costituite da una quota dei principali tributi statali versati dai cittadini residenti nel territorio regionale «a fronte del reddito prodotto e dei servizi scambiati sul quel territorio», è evidente che i cittadini residenti e i non residenti possono essere trattati, dalle leggi tributarie regionali, in modo ragionevolmente diverso. Ciò trova giustificazione nel differente apporto degli uni e degli altri cittadini alle entrate fiscali statali spettanti alla Regione. La differenziazione fra residenti e non residenti non è, allora, posta arbitrariamente dal legislatore regionale, ma trova fondamento nella circostanza che i non residenti non versano alla Regione alcunché, tranne una quota minima e del tutto eventuale di risorse che «dallo Stato arrivasse […] mediante fondi perequativi e risorse aggiuntive». In conclusione sul punto, il fatto che i non residenti utilizzino, mediante le case ad uso turistico situate sulla costa, il territorio e l’ambiente della Sardegna rende ragionevole, e quindi compatibile con l’art. 3 Cost., l’esercizio del potere impositivo regionale allo scopo di realizzare risorse aggiuntive destinate a sviluppare, anche sotto il profilo turistico, «le zone interne e i centri storici dell’Isola».
Sempre ad avviso della Regione, l’esercizio della potestà impositiva prevista dallo statuto risponde anche all’interesse dello Stato, perché alleggerisce la pressione sui fondi perequativi di cui all’art. 119, terzo comma, Cost. e sulle risorse aggiuntive di solidarietà di cui allo stesso art. 119, quinto comma, Cost. Anzi, il fatto che la Sardegna, Regione con un reddito medio piú basso della media nazionale, abbia istituito i tributi oggetto delle norme censurate avrebbe dovuto essere valutato positivamente, come segnale della capacità di reperire nuove risorse finanziarie per accrescere lo sviluppo.
La resistente si sofferma, poi, su alcuni esempi di norme regionali che prevedono discipline differenziate tra residenti e non residenti nella Regione, quali: a) l’art. 16, lettera p), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 25 agosto 2006, n. 17 (Interventi in materia di risorse agricole, naturali, forestali e montagna e in materia di ambiente, pianificazione territoriale, caccia e pesca), il quale dispone che «la Regione determina annualmente, in modo differenziato tra residenti in regione e non residenti, i corrispettivi per l’esercizio della raccolta» dei funghi; b) gli artt. 41 e 70 della legge della Regione Emilia-Romagna 6 agosto 1979, n. 25 (Protezione e incremento della fauna ittica – Organizzazione delle acque interne ai fini della pesca – Norme per l’esercizio della pesca nell’Emilia-Romagna), che riservano ai pescatori professionisti residenti la pesca in determinate categorie di acque; c) gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo 5 settembre 1991, n. 53 (Provvidenze a favore degli operatori della pesca marittima per i danni subiti in conseguenze delle avverse condizioni ambientali del mare), che prevedevano provvidenze a favore dei soli pescatori residenti nella Regione; d) l’art. 26 della legge della Regione Friuli Venezia-Giulia 20 aprile 1999, n. 9 (Disposizioni varie in materia di competenza regionale), che prevedeva che i proprietari di beni danneggiati dagli eventi alluvionali del 1996, ma non residenti nei Comuni colpiti da tali eventi, beneficiassero di un contributo pari soltanto al 15% del danno subito; e) l’art. 11 della legge della Regione Liguria 8 giugno 2006, n. 15 (Norme ed interventi in materia di diritto all’istruzione e alla formazione), che prevede l’erogazione di contributi per gli studenti piú meritevoli residenti in Liguria.
5.2. – Al fine di contestare l’affermazione del ricorrente per cui le imposte oggetto delle norme denunciate non sarebbero coerenti con l’art. 8, lettera h), dello statuto di autonomia, la Regione afferma, poi, di aver perseguito, con dette imposte, una politica economica e fiscale in materia di sviluppo turistico. La norma statutaria citata, consente, infatti, di istituire ogni tipo di tributo che abbia attinenza con il turismo, anche sotto forma di imposta sui redditi da plusvalenza immobiliare o sul patrimonio costituito dalle seconde case ad uso turistico. Per tali due imposte, il riferimento del legislatore regionale al limite dei tre chilometri dalla linea di battigia marina è, allora, pienamente ragionevole, trovando rispondenza nelle disposizioni del nuovo piano paesaggistico regionale, che prevedono un regime di tutela proprio per le aree costiere dell’isola. In tale prospettiva, la nozione statutaria di “turismo” non coincide con quella di “servizi turistici”, ma si estende fino a comprendere ogni «coerente e armonica politica economico tributaria di settore».
Piú in generale, in relazione all’ampiezza dell’autonomia impositiva regionale, la resistente afferma, contestando quanto sostenuto dal ricorrente, che: a) i tributi oggetto delle norme censurate «costituiscono estrinsecazione di un potere impositivo autonomo, che trova giustificazione nello statuto speciale»; b) «i tributi propri sono una figura distinta da quelli appartenenti al sistema tributario dello Stato»; c) la Regione può «deliberare “tipi” specifici di tributi, nell’ambito, certamente residuale, ma non meno qualificante, ad essa assegnato dalla vigenza delle disposizioni delle leggi tributarie dello Stato»; d) «i tributi in questione si devono armonizzare coi principi del sistema tributario statale» e si fondano su una politica finanziaria propria della Regione «nel rispetto dell’unità del sistema tributario dello Stato». Sempre secondo la resistente, a tale ricostruzione consegue che la mancanza di una legislazione statale di coordinamento del sistema tributario non preclude alla Regione Sardegna la facoltà di istituire tributi propri, proprio perché tale facoltà si fonda sulla autonomia statutaria e non sulla potestà legislativa generalmente riconosciuta alle Regioni in materia tributaria dall’art. 117 Cost. A questa considerazione si deve aggiungere che, poiché i tributi istituiti e disciplinati dalle norme censurate hanno per oggetto il turismo, essi «non dovrebbero incontrare particolari difficoltà di “armonia” con i principi del sistema tributario», proprio perché lo Stato ha rinunciato al potere impositivo in materia di turismo; materia ricondotta dall’art. 117, quarto comma, Cost. alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Ciò vale, a maggior ragione, in forza della sostituzione dell’art. 8 dello statuto speciale operata dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. Tale intervento legislativo è, infatti, fondato, sempre a detta della Regione resistente, su un accordo fra lo Stato e la Regione finalizzato a risolvere le conseguenze del mancato funzionamento dei meccanismi di trasferimento di risorse introdotti con la legislazione del 1983; accordo con cui lo Stato avrebbe implicitamente riconosciuto la potestà impositiva della Regione Sardegna in materia di turismo senza subordinarla a interventi statali di coordinamento e senza adottare una normativa di attuazione dello statuto.
5.3. – In riferimento alla censura della parte ricorrente per cui i tributi oggetto delle disposizioni denunciate violerebbero il principio di progressività, la Regione osserva che le imposte di tipo “turistico-ambientale” colpiscono un soggetto o un bene non in relazione alla capacità contributiva del soggetto o al valore venale del bene, bensí in quanto essi si trovino in un determinato luogo e «“consumino” od usino il bene protetto in questione». Proprio per il carattere di residualità tipico dei tributi regionali, questi non devono rispettare il «principio di assoluta progressività che è proprio delle imposte sui redditi o sui patrimoni», perché altrimenti si sovrapporrebbero all’imposizione statale. Peraltro – osserva la Regione – anche tributi statali quali l’IVA e l’ICI sono privi del carattere di progressività, perché il principio di progressività, contrariamente a quanto affermato dalla difesa erariale, non costituisce «un principio generale e indefettibile del sistema tributario».
5.4. – Riguardo alla violazione del diritto comunitario, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., da parte delle norme censurate, la resistente osserva in primo luogo che la Corte costituzionale non ha mai utilizzato tale parametro costituzionale per verificare la compatibilità del diritto interno con il diritto comunitario ed eccepisce l’inammissibilità delle relative questioni. Afferma, poi, che l’imposizione diretta non è oggetto della disciplina comunitaria, perché l’art. 58 del Trattato CE precisa che gli Stati membri hanno diritto «di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale». Ne conseguirebbe che le differenze di trattamento tra residenti e non residenti introdotte dalla legislazione censurata non costituirebbero di per sé violazioni del diritto comunitario. A sostegno della propria ricostruzione, la resistente cita, poi, tributi sul turismo, che necessariamente distinguono tra residenti e non residenti e che non sono stati ritenuti in contrasto con il diritto comunitario, quali le tasse di soggiorno francesi e spagnole e le imposte sulle seconde case tedesche.
Non sussiste, ad avviso della Regione, alcuna violazione dell’art. 12 del Trattato CE perché i tributi introdotti dalle disposizioni censurate si inquadrano «in una piú ampia politica regionale di tutela e salvaguardia del […] patrimonio paesaggistico in funzione del turismo» e non recano indebite restrizioni alla libertà di circolazione di beni, persone e capitali ovvero alla libertà di stabilimento.
5.5. – Ciò premesso, la Regione passa a trattare le censure formulate dal ricorrente nei confronti dei singoli tributi.
5.5.1. – In riferimento all’imposta sulle plusvalenze, la resistente osserva preliminarmente che, mentre nel ricorso si affermano violati l’art. 8, lettera h), dello statuto regionale e gli artt. 3, 53, 117, primo comma, in riferimento all’art. 12 del Trattato CE, nella deliberazione governativa di impugnazione del 27 luglio 2007 si indica unicamente la violazione dell’art. 8, lettera h), dello statuto e degli artt. 3, 53 Cost., mentre v’è un generico riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e all’art. 12 del Trattato CE solo nella proposizione finale di detta deliberazione. Pertanto, l’evocazione del parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 12 del Trattato, sarebbe inammissibile.
La Regione afferma, poi, di avere adottato le disposizioni censurate proprio al fine di accogliere i rilievi espressi dal Governo, con il ricorso n. 91 del 2006, sull’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006. Nella originaria formulazione, infatti, la norma regionale colpiva le plusvalenze di tutte le cessioni a titolo oneroso dei fabbricati siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina; nella nuova formulazione, invece, la norma, proprio allo scopo di evitare una sovrapposizione con l’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili solo nel caso in cui la cessione avvenga a non piú di cinque anni dall’acquisto o dalla costruzione dell’immobile, esclude dalla tassazione le plusvalenze delle cessioni avvenute entro cinque anni dall’acquisto o dalla costruzione delle unità immobiliari.
Ad avviso della Regione, la censura proposta dal Governo nel ricorso n. 36 del 2007 nei confronti della nuova formulazione della norma (per cui essa non sarebbe in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato in quanto colpirebbe, in violazione del principio espresso dal citato art. 67, comma 1, lettera b), una plusvalenza ultraquinquennale e quindi priva del carattere speculativo richiesto dalla legislazione statale per la sua sottoposizione a tassazione) si porrebbe in contraddizione con la censura proposta nel ricorso n. 91 del 2006 nei confronti della precedente formulazione della norma (per cui essa costituirebbe una parziale duplicazione dell’imposizione statale sulle plusvalenze immobiliari infraquinquennali, in quanto riferita, senza distinzioni, a plusvalenze immobiliari maturate in ogni tempo). Da un lato, infatti, il ricorrente lamenterebbe la violazione del divieto di duplicazione dell’imposizione sullo stesso presupposto (la plusvalenza immobiliare infraquinquennale), dall’altro censurerebbe la disarmonia tra la scelta del legislatore regionale di sottoporre a tassazione plusvalenze immobiliari prive del carattere speculativo e la politica fiscale statale di sottoporre a tassazione le sole plusvalenze immobiliari dotate di tale carattere. In ogni caso, le censure governative non terrebbero conto del fatto che l’imposta regionale sulle plusvalenze, proprio per il suo carattere di residualità, intende colpire il maggior valore che consegue oggettivamente alla realizzazione di un immobile sulla costa, a prescindere dalla capacità contributiva o dall’intento speculativo del proprietario. Rinunciando all’imposta per il periodo dei primi cinque anni del godimento dell’immobile, mediante la modifica apportata al tributo con la legge finanziaria regionale n. 2 del 2007, la Regione avrebbe inteso realizzare le sue peculiari esigenze di finanziamento, senza incidere sui tributi statali e senza sovrapporsi ad essi.
Quanto al rilievo della difesa erariale – per cui la legge regionale avrebbe illegittimamente fissato la distanza di tre chilometri dalla linea di battigia marina quale condizione per l’imposizione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e delle diverse possibilità di accesso al mare –, la resistente osserva che il riferimento alla fascia costiera nel suo complesso trova giustificazione nella generale azione di salvaguardia dell’ambiente costiero, minacciato e in parte già deturpato da una forte speculazione edilizia. Il riferimento ad un limite fisico di distanza dalla costa quantitativamente determinato sarebbe, pertanto, coerente con la tutela apprestata ad ampie porzioni del territorio dall’art. 142, comma 1, lettere a) e d), del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). La ragionevolezza dell’imposta sarebbe, del resto, confermata dalla previsione per cui il suo gettito è destinato per il 75 per cento al fondo perequativo per lo sviluppo e la coesione territoriale delle aree interne e per il restante 25 per cento al Comune nel quale il gettito è generato.
Quanto alla disparità di trattamento fra soggetti residenti e non residenti prospettata dal ricorso, la Regione ribadisce che l’imposta non si fonda sulla capacità contributiva intesa in senso reddituale, bensí, sulla insistenza di «un certo soggetto o di un certo bene in un determinato luogo». A ciò si deve aggiungere, secondo la Regione, che le risorse finanziarie regionali provengono per la maggior parte dal gettito dei tributi statali corrisposti dai residenti, che si trovano naturalmente in contatto con il territorio la cui tutela il tributo turistico mira a realizzare.
In riferimento alla pretesa violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 12 del Trattato CE, la resistente ribadisce i rilievi di inammissibilità e le considerazioni in punto di merito già svolti in via generale.
5.5.2. – Riguardo all’imposta sulle seconde case ad uso turistico, la Regione premette di avere modificato la formulazione originaria dell’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, anche in considerazione dei rilievi svolti dal Governo nel ricorso n. 91 del 2006. A tale proposito, evidenzia che, con le modifiche introdotte con il denunciato art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, le aliquote del tributo sono state rimodulate nel senso di una maggiore progressività ed è stata introdotta una norma di salvaguardia che consente al contribuente di avvalersi per l’anno 2006 delle disposizioni previgenti, nel caso in cui queste prevedano una misura piú favorevole dell’imposta.
La Regione contesta, in primo luogo, la censura proposta dalla difesa erariale, per cui la previsione che l’imposta sia dovuta anche in mancanza del possesso violerebbe il principio di ragionevolezza, affermando che non vi è dubbio che sia ragionevole che l’imposta stessa gravi sul proprietario a prescindere dal possesso.
Quanto alla censura relativa al fatto che l’imposta sarebbe irragionevole perché è dovuta anche per immobili privi di vista sul mare e comunque non tiene conto della capacità contributiva, la Regione ribadisce le considerazioni già svolte in relazione alle analoghe censure proposte in riferimento all’imposta sulle plusvalenze.
Riguardo alla censura della difesa erariale fondata sulla pretesa regressività dell’imposta per gli immobili di superficie piú ampia, la resistente, da un lato, ribadisce che le imposte turistico-ambientali «non si ispirano a logiche impositive di ordine patrimoniale strettamente connesse alla capacità contributiva e reddituale della persona e del bene»; dall’altro osserva che la progressività dell’imposta va commisurata a un tetto massimo che il legislatore ha inteso non superare per evitare un carico tributario eccessivo. La Regione rileva, peraltro, che anche l’ICI statale è priva del carattere di progressività «all’interno di ciascuna categoria (prima casa, abitazione a disposizione, ufficio ecc.) di afferenza contributiva dei vari immobili tassati».
In relazione alla censura per cui l’imposta non sarebbe in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, la resistente rileva che detta imposta è comunque commisurata al valore dell’immobile, perché le abitazioni della fascia costiera si collocano in una zona omogenea nella quale è assai rilevante l’incremento di valore. Proprio tale maggiore valore è il fondamento della nuova imposta, strettamente collegata alla politica tributaria della Regione, perché destinata, per il 75 per cento al fondo di sviluppo delle aree interne e per 25 per cento al Comune nel quale il gettito è originato. In conclusione, ad avviso della Regione, le censure contenute nel ricorso devono essere rigettate, perché «non vi sono interferenze e sovrapposizioni con tributi statali» e perché «la progressività è salvaguardata, come pure la finalizzazione delle nuove entrate alle peculiari esigenze di sviluppo della Regione».
5.5.3. – Con riguardo all’imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili e unità da diporto, disciplinata dall’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007, la resistente afferma, in primo luogo, che essa ha natura turistica, perché colpisce lo scalo effettuato nel periodo estivo e gli esercenti che risiedono fuori dal territorio regionale; cioè colpisce, con riferimento agli aeromobili, gli scali privati negli aeroporti per ragioni turistiche. In secondo luogo, la Regione nega che l’imposta provochi, come sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, una indebita restrizione alla prestazione dei servizi nautici e aerei con violazione degli artt. 49, 81 e 87 del Trattato CE. A tale proposito, la resistente ribadisce la già proposta eccezione di inammissibilità delle censure fondate sul diritto comunitario ed afferma, nel merito, che l’art. 49 del Trattato CE non osta, come evidenziato dalla Corte di giustizia CE, all’istituzione di tributi analoghi a quello oggetto della disposizione censurata, quali l’imposta di pubblicità italiana e i tributi belgi per l’installazione di antenne destinate alla telecomunicazione.
In particolare, con riguardo allo scalo degli aeromobili, la Regione contesta che vi sia duplicazione fra l’imposta regionale e i diritti aeroportuali, ribadendo le argomentazioni già svolte in proposito nell’atto di costituzione nel procedimento introdotto con il ricorso n. 91 del 2006; contesta altresí il dedotto carattere regressivo dell’imposta, osservando che il tributo è ragionevolmente diretto ad agevolare gli aeromobili che con un unico scalo portano piú turisti rispetto a quelli che ne portano di meno.
In relazione alla dedotta non progressività del tributo sullo scalo delle unità da diporto, la resistente ribadisce le considerazioni già svolte con riferimento allo scalo degli aeromobili e piú in generale, in punto di progressività, alle imposte disciplinate dai censurati artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006. Contesta, poi, quanto sostenuto dal ricorrente, per il quale non sarebbe consentito fissare l’imposta anche per gli scali di unità da diporto nei campi di ormeggio situati nel mare territoriale perché il mare territoriale non farebbe parte del territorio regionale. Tali rilievi sono, per la resistente Regione, in primo luogo, inammissibili, perché non proposti dal Governo nella deliberazione del Consiglio dei ministri del 27 luglio 2007; in secondo luogo, infondati, perché il conferimento alle Regioni delle competenze relative al rilascio di concessioni di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale ad opera dell’art. 105 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti locali in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), consente alla Regione di regolare anche sotto il profilo tributario la materia trasferita.
5.5.4. – Con riguardo all’art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007, che istituisce e disciplina l’imposta di soggiorno, la Regione premette che detta imposta, già in vigore in Italia fino al 1989 e ancora in vigore in Trentino-Alto Adige, presenta «notevoli elementi “di scopo”», perché i suoi proventi sono destinati a interventi nel settore del turismo sostenibile e della fruizione delle risorse ambientali.
La resistente contesta, in primo luogo, le censure del ricorrente per cui l’imposta sarebbe un tributo comunale e per questo non potrebbe essere stabilita dalla Regione in mancanza dei princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario. Sostiene la resistente di essere titolare, ai sensi dell’art. 3, lettere b) e p), dello statuto di autonomia, di potestà legislative esclusive in materia di finanza locale e turismo e di essersi limitata, in ogni caso, a stabilire un tributo regionale «affidato, nella gestione, ai Comuni», i quali hanno facoltà di istituirlo o no. Lo stesso Governo, nella risoluzione n. 5 del Ministero dell’economia e delle finanze in data 4 aprile del 2002, avrebbe ammesso che anche le Regioni possono istituire nuovi tributi degli enti locali.
In secondo luogo, la resistente contesta la fondatezza della censura proposta nel ricorso, per cui la disciplina regionale violerebbe l’art. 119 Cost., perché non lascerebbe ai Comuni alcun margine di autonomia sul tributo se non la facoltà di istituirlo o no. Rileva al riguardo la Regione che, trattandosi di un tributo regionale, spetta al legislatore regionale stabilire l’ampiezza delle competenze attribuite al Comune e che il Governo non ha mai censurato la legge della Regione Trentino-Alto Adige n. 10 del 1976, che ha istituito un’imposta di soggiorno senza consentire ai Comuni alcuna scelta in ordine alla sua applicazione.
La Regione richiama, infine, a sostegno dell’infondatezza dei rilievi svolti nel ricorso circa il preteso contrasto fra la disposizione censurata e il diritto comunitario, le considerazioni già svolte in generale e a proposito degli altri tributi oggetto delle norme denunciate.
6. – Nel procedimento introdotto con il ricorso n. 36 del 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha riproposto le argomentazioni già esposte nel ricorso, precisando, in particolare, che: a) le imposte oggetto delle norme censurate non possono essere considerate imposte sul turismo, perché il turismo ne è lo scopo, ma non il presupposto; b) la sottoposizione a tassazione sia dello scalo sia del soggiorno è incoerente con la dichiarata finalità di promozione turistica dei tributi in questioni; c) «non risulta evidente come la tutela dell’ambiente possa essere realizzata attraverso una imposizione che è regressiva rispetto alle presenze, […] quindi non collegata all’entità dell’inquinamento prodotto, per divenire addirittura nulla, in caso dei natanti, se la presenza è continua nell’intero anno»; d) l’art. 8, lettera h), dello statuto non attribuisce alla Regione una generale potestà legislativa tributaria, perché la facoltà di istituire i singoli tributi deve esserle attribuita da norme diverse; e) in ogni caso, «una volta programmata un’imposta, la Regione dovrebbe individuare l’imposta statale che piú si avvicina, per seguire i principi che ne ispirano la disciplina»; f) contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, le questioni fondate sulla violazione del diritto comunitario non sono inammissibili per “irrilevanza costituzionale”, perché su di esse la Corte costituzionale può provvedere o in via diretta o tramite il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE; g) «il fatto che i non residenti italiani possano subire una disciplina discriminata non rende solo per questo legittima la situazione anche dal punto di vista comunitario»; h) la tassazione delle seconde case avrebbe dovuto riguardare tutti i proprietari di seconde case e non solo i non residenti in Sardegna; i) il fatto che i residenti in Sardegna contribuiscano già alle finanze regionali con le quote dei tributi statali riscossi in Sardegna non giustifica la sottoposizione alla tassazione regionale dei non residenti, perché il regime statutario speciale già attribuisce alla Regione quote di tributi statali in misura superiore a quanto attribuito alle Regioni ordinarie; l) l’imposta sulle plusvalenze è irragionevole, perché è stata istituita dallo stesso soggetto (la Regione) che, adottando il piano di sviluppo territoriale, «ha determinato la produzione della materia tassabile»; m) l’imposta sulle plusvalenze ha una ratio contraddittoria, perché, non colpendo le plusvalenze immobiliari infraquinquennali, non tocca l’incremento di valore degli immobili costieri prodottosi a séguito dei vincoli di inedificabilità disposti dal piano paesaggistico regionale; n) contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, è ben possibile prospettare con un ricorso proposto in via principale questioni interpretative e, pertanto, è ammissibile anche la questione se l’imposta sulle seconde case ad uso turistico debba interpretarsi nel senso che il non possessore non può essere considerato soggetto passivo dell’imposta; o) l’imposta sullo scalo degli aeromobili è irragionevole, perché colpisce anche aeromobili utilizzati per affari, víola il diritto comunitario, e avvantaggia, «tra i voli diretti in Sardegna», «quelli gestiti da imprese sarde»; p) la Regione può svolgere sul mare territoriale solo funzioni di polizia demaniale, «che non comprendono il potere di applicare imposte a chi vi staziona»; q) l’imposta di soggiorno non ha natura regionale, ma comunale.
Considerato in diritto
1. – Con il primo dei due ricorsi in epigrafe (n. 91 del 2006), il Presidente del Consiglio dei ministri censura:
a) l’art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), in riferimento: all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 della Costituzione, in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, anche per violazione del principio fondamentale espresso dall’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi); agli artt. 3 e 53 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 12 del Trattato CE;
b) l’art. 3 della stessa legge regionale, in riferimento: all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; agli artt. 3 e 53 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 12 del Trattato CE;
c) l’art. 4 della stessa legge regionale, in riferimento: all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all’art. 53 Cost.; agli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri non espressamente indicati).
Ciascuno degli articoli denunciati istituisce e disciplina un particolare tributo regionale: a) l’«imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case» (rubrica dell’art. 2); b) l’«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell’art. 3); c) l’«imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto» (rubrica dell’art. 4).
2. – Con il secondo dei due ricorsi in epigrafe (n. 36 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri censura:
a) l’art. 2 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge reg. 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), in riferimento: all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), anche per violazione dell’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986; all’art. 3 Cost. (parametro non espressamente indicato); agli artt. 3 e 53 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 12 del Trattato CE; all’art. 119 Cost.;
b) l’art. 3 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 2, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento: all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006); agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all’art. 53 Cost.; agli artt. 3 e 53 Cost.; al principio di ragionevolezza;
c) l’art. 4 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 3, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento: ai parametri già evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti dall’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. n. 2 del 2007; agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost.; all’art. 3 di un non precisato testo normativo; agli artt. 3 e 53 Cost.; agli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006); all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81 e 87 del Trattato CE;
d) l’art. 5 della citata legge regionale n. 2 del 2007, in riferimento: all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006); all’art. 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all’art. 3 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 12 e 49 del Trattato CE.
Ciascuno dei denunciati articoli disciplina un diverso tributo regionale: o quale risulta a séguito delle modifiche apportate dalla legge reg. n. 2 del 2007 al corrispondente tributo previsto dalla precedente legge reg. n. 4 del 2006, oppure quale introdotto ex novo dalla medesima legge reg. n. 2 del 2007. In particolare, le censure riguardano: a) l’«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 1 dell’art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); b) l’«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 2 dell’art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); c) l’«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto» (rubrica dell’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 3 dell’art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); d) l’«imposta di soggiorno» (art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007).
3. – I giudizi relativi ai suddetti ricorsi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi, in considerazione dell’evidente analogia delle questioni prospettate.
4. – Le questioni proposte nei due ricorsi riguardano tutte tributi propri della Regione – in quanto istituiti con legge regionale ai sensi dell’art. 8, lettera h) [già i)], dello statuto speciale –, e possono essere suddivise in tre gruppi, secondo i parametri richiamati in relazione a ciascun tributo: a) questioni relative al riparto di competenze legislative tra Stato e Regione; b) questioni basate su norme della Costituzione non attinenti al riparto delle competenze; c) questioni basate su norme di diritto comunitario evocate attraverso l’art. 117, primo comma, Cost.
Con il primo gruppo di questioni, che hanno per oggetto il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni in materia tributaria, sono evocati: a) l’art. 8, lettera i) – poi divenuta lettera h), in forza della sostituzione operata dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, dello statuto della Regione Sardegna –, il quale prevede che le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato»; b) gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Con il secondo gruppo di questioni, sono evocati gli artt. 3 e 53 Cost., nei quali il ricorrente individua il fondamento dei princípi di ragionevolezza, uguaglianza e capacità contributiva.
Con il terzo gruppo di questioni, sono evocati, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., gli artt. 12, 49, 81 – «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10» – e 87 del Trattato CE.
5. – Le questioni del primo gruppo (sopra indicato con la lettera a) pongono il preliminare problema dell’individuazione del parametro applicabile in tema di competenza legislativa tributaria della Regione Sardegna: se, cioè, esse debbano essere esaminate alla stregua dell’art. 8, lettera i) – ora lettera h) –, dello statuto speciale o alla stregua degli artt. 117 e 119 Cost.
Questa Corte ritiene corretta la prima ipotesi.
Non può, infatti, essere presa in considerazione, nella specie, la disciplina del Titolo V della Parte II della Costituzione, non garantendo essa, rispetto allo statuto speciale, quelle «forme di autonomia piú ampie» che, sole, ne consentirebbero l’applicazione alle Regioni a statuto speciale ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. La maggiore autonomia assicurata dallo statuto risulta dal fatto che la condizione cui deve sottostare la Regione Sardegna nell’istituire tributi propri è solo quella – prevista dall’art. 8, lettera h), dello statuto – dell’armonia con i princípi del sistema tributario statale, mentre le Regioni a statuto ordinario sono assoggettate al duplice limite costituito dall’obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i princípi fondamentali di coordinamento e dal divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto, almeno fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento.
5.1. – Per giungere a tale conclusione, occorre muovere dalla premessa che il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione prevede che: a) lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di «sistema tributario […] dello Stato» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.); b) le Regioni hanno potestà legislativa esclusiva nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, con riguardo, beninteso, ai presupposti d’imposta collegati al territorio di ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni (artt. 117, quarto comma, e 120, primo comma, Cost.); c) le Regioni e gli enti locali «stabiliscono e applicano tributi e entrate propri in armonia con la Costituzione e secondo i principî di coordinamento […] del sistema tributario» (art. 119, secondo comma, Cost.); d) lo Stato e le Regioni hanno competenza legislativa concorrente nella materia del «coordinamento […] del sistema tributario», nella quale è riservata alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei princípi fondamentali. Tale riserva di competenza legislativa nella materia del coordinamento del sistema tributario non può comportare, tuttavia, alcuna riduzione del potere impositivo già spettante alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, perché, ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, la nuova disciplina costituzionale si applica ad esse (fino all’adeguamento dei rispettivi statuti) solo per la parte in cui prevede «forme di autonomia piú ampie rispetto a quelle già attribuite» e, pertanto, non può mai avere l’effetto di restringere l’àmbito di autonomia garantito dagli statuti speciali anteriormente alla riforma del Titolo V della Parte II Cost. (ex multis, sentenza n. 103 del 2003).
Il quadro normativo risultante dalla riforma costituzionale è stato interpretato da questa Corte nel senso, da una parte, che lo spazio riservato a detta potestà dipende prevalentemente dalle scelte di fondo operate dallo Stato in sede di fissazione dei princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario e, dall’altra, che l’esercizio del potere esclusivo delle Regioni di autodeterminazione del prelievo è ristretto a quelle limitate ipotesi di tributi, per la maggior parte “di scopo” o “corrispettivi”, aventi presupposti diversi da quelli degli esistenti tributi statali. È indicativa di questo indirizzo la sentenza n. 37 del 2004, la quale ha espressamente affermato che, in forza del combinato disposto del secondo comma, lettera e), del terzo comma e del quarto comma dell’art. 117 Cost., nonché dell’art. 119 Cost., «non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale». In altri termini, lo Stato – nell’esercizio della propria competenza legislativa nella determinazione dei “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” – ha il potere di fissare, con propria legge, «non solo […] i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee del sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, regioni ed enti locali». Da tale affermazione la stessa sentenza e le altre che le hanno fatto séguito hanno tratto l’ulteriore conseguenza che, fino a quando l’indicata legge statale non sarà emanata, è vietato alle Regioni di istituire e disciplinare tributi propri aventi gli stessi presupposti dei tributi dello Stato o di legiferare sui tributi esistenti istituiti e regolati da leggi statali (sentenze n. 451 del 2007; nn. 413, 412, 75 e 2 del 2006; nn. 455, 397 e 335 del 2005; n. 431 del 2004). Solo per quanto riguarda le suddette limitate ipotesi di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli dei tributi statali, la Corte ha riconosciuto sussistere il potere delle Regioni di stabilirli, in forza del quarto comma dell’art. 117 Cost., anche in mancanza di un’apposita legge statale di coordinamento, a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino ugualmente i princípi dell’ordinamento tributario, ancorché solo «“incorporati”, per cosí dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato» (in tal senso, ancora, la sentenza n. 37 del 2004, nonché, in via generale, la sentenza n. 282 del 2002).
5.2. – Al fine di individuare, alla luce di quanto sopra, la disciplina costituzionale applicabile nel caso di specie, occorre pertanto accertare se il suddetto duplice limite fissato al legislatore tributario regionale dagli artt. 117 e 119 Cost., come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, sia o no piú stringente rispetto al limite fissato dallo statuto speciale. Occorre, cioè, verificare se l’«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato» – che, si è visto, è l’unica specifica condizione richiesta dallo statuto per legittimamente istituire e disciplinare i tributi propri della Regione Sardegna – si differenzi complessivamente, in termini di maggiore autonomia, dall’osservanza dei “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario”.
Al riguardo, va preliminarmente sottolineata la differenza che intercorre tra i princípi del sistema tributario dello Stato ed i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario nel suo complesso. I primi attengono specificamente alla tipologia e alla struttura degli istituti tributari statali, nonché alle rationes ispiratrici di detti istituti. L’armonia con tali princípi dei tributi regionali va, perciò, intesa come rispetto, da parte del legislatore regionale, dello “spirito” del sistema tributario dello Stato (ex multis, sentenza n. 304 del 2002) e, perciò, come coerenza e omogeneità con tale sistema nel suo complesso e con i singoli istituti che lo compongono. I secondi attengono agli elementi informatori delle regole che presiedono i rapporti e i collegamenti tra il sistema tributario dello Stato, quello delle Regioni a statuto ordinario e quello degli enti locali e presuppongono una legge statale che li fissi espressamente.
Sia l’«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato» che l’osservanza dei “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” realizzano, dunque, una funzione di coordinamento in senso lato tra i diversi sottosistemi del complessivo sistema tributario. Con la differenza, però, che mentre l’armonia con i «princípi del sistema tributario dello Stato» richiede solo che la Regione, nell’istituire i tributi propri, valuti essa stessa la coerenza del sistema regionale con quello statale e conformi, di conseguenza, i propri tributi agli elementi essenziali del sistema statale e alle rationes dei singoli istituti tributari, invece, i “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario”, in quanto realizzano un coordinamento in senso stretto, hanno per oggetto la delimitazione delle sfere di competenza legislativa tributaria e presuppongono – salvi i pochi casi di cui si è sopra detto – l’esistenza di un’apposita legge che li stabilisca. Esempio di quest’ultimo tipo di coordinamento è quello realizzato attraverso princípi che fissino un determinato rapporto percentuale (in termini di base imponibile o di gettito) tra tributi statali e tributi regionali o locali; oppure ripartiscano tra i diversi livelli di governo i presupposti di imposta.
5.3. – Ciò posto, va rilevato che, mentre la normativa risultante dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione – come interpretata dalle richiamate sentenze di questa Corte – vieta alle Regioni a statuto ordinario, in difetto di una legislazione statale sui princípi fondamentali di coordinamento, di disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di istituirne altri aventi lo stesso presupposto dei preesistenti tributi statali; un simile divieto non è, invece, desumibile dallo statuto speciale della Regione Sardegna, il quale si limita ad esigere che i tributi propri regionali siano in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato. Né può ritenersi che il suddetto divieto costituisca uno dei princípi con i quali la legislazione della Regione Sardegna deve armonizzarsi. In base a quanto si è appena osservato, infatti, esso costituisce un principio di coordinamento in senso stretto – individuato in via interpretativa dalla giurisprudenza di questa Corte e transitoriamente applicabile fino all’emanazione di un’apposita legge statale in materia – che attiene solo alla ripartizione tra i diversi livelli di governo dei presupposti di imposta, secondo un criterio temporale di priorità nell’esercizio della potestà legislativa tributaria.
Ne deriva che il Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede un’autonomia legislativa tributaria piú ampia di quella complessivamente attribuita alla Regione Sardegna dal suo statuto di autonomia. Quest’ultimo è l’unico parametro applicabile nella specie e, pertanto, le censure del ricorrente basate sulla violazione del Titolo V della Parte II della Costituzione non possono essere prese in considerazione, con le conseguenze, sul tipo di pronuncia da adottare, che saranno esaminate caso per caso, in relazione al contenuto delle singole censure.
5.4. – Tale esito interpretativo non esclude, beninteso, che lo Stato possa contenere o ampliare la potestà normativa di autodeterminazione dei tributi propri attribuita alla Regione dallo statuto speciale. Significa solo che tale possibilità passa non già attraverso l’emanazione di una legge statale che fissi i princípi fondamentali previsti dall’art. 117 Cost., ma attraverso la modificazione statutaria realizzata attivando lo speciale procedimento di collaborazione previsto dall’art. 54 dello statuto di autonomia, a tenore del quale le disposizioni statutarie in materia di autonomia finanziaria «possono essere modificate con leggi ordinarie della Repubblica su proposta del Governo o della Regione, in ogni caso sentita la Regione».
5.5. – Non osta a tale conclusione l’orientamento di questa Corte secondo cui sono applicabili alle Regioni a statuto speciale, come alle Regioni a statuto ordinario, vincoli complessivi e temporanei alla spesa corrente fissati dalla legislazione statale (sentenze n. 169 e n. 82 del 2007). Infatti, in base a detto orientamento, tali vincoli, riconducibili ai “princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”, si impongono alle autonomie speciali solo in ragione dell’imprescindibile esigenza di assicurare l’unitarietà delle politiche complessive di spesa che lo Stato deve realizzare – sul versante sia interno che comunitario e internazionale – attraverso la «partecipazione di tutte le Regioni […] all’azione di risanamento della finanza pubblica» e al rispetto del cosiddetto “patto di stabilità”. Una tale esigenza, in quanto relativa al contenimento della spesa pubblica, non attiene al sistema tributario della Regione Sardegna – la cui coerenza con il sistema statale è garantita dalla menzionata «armonia con il sistema tributario dello Stato» – e rende, perciò, non pertinente al caso di specie la richiamata giurisprudenza costituzionale.
5.6. – Deve ulteriormente precisarsi che il testo dell’art. 8, lettera h) (già lettera i), dello statuto speciale (secondo cui le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato») va interpretato nel senso che non v’è alcuna distinzione tra tributi «sul turismo» e «altri tributi propri», quanto alla necessità di rispettare l’«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato». Per tutti i «tributi propri» della Regione – riguardino o no la materia turistica – vale, infatti, l’identica esigenza di non creare disarmonie o incoerenze con il sistema tributario statale. Una diversa interpretazione, quale quella sostenuta da entrambe le parti, non solo non è imposta dalla lettera della suddetta disposizione statutaria (come chiarito dalla sentenza n. 62 del 1987, a proposito dell’analoga formulazione contenuta nello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige), ma creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i tributi sul turismo e gli altri tributi propri.
5.7. – Ciò premesso, l’esame delle questioni sottoposte a questa Corte sarà condotto alla stregua sia degli artt. 3, 53 e 117, primo comma, Cost., sia dell’evocato parametro statutario. In particolare, esso deve essere diretto ad accertare se la normativa regionale impugnata sia coerente con i princípi di uguaglianza e di capacità contributiva, sia in armonia con lo “spirito” del sistema tributario – piú specificamente, con le rationes cui sono ispirati i tributi statali gravanti sulle stesse o analoghe materie imponibili – e non contrasti con gli articoli del Trattato CE indicati dal ricorrente.
6. – Occorre ora passare all’esame delle questioni relative all’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario sia in quello sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, sollevate, rispettivamente, con il primo e il secondo ricorso.
6.1. – Tale disposizione, nel testo originario, istituisce e disciplina, con effetto dal 18 febbraio 2007, data di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione delle deliberazioni della Giunta regionale previste ai commi 8 e 9, l’«imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case», siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina e destinati ad uso abitativo. L’imposta è applicabile – nei confronti dell’alienante avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi, con l’esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi – alle cessioni a titolo oneroso: 1) dei suddetti fabbricati, escluse le unità immobiliari che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o del coniuge; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi (commi da 1 a 4).
Con il primo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura la norma in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna – nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso –, perché: a) l’imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo.
In subordine, nel caso in cui «si potessero desumere i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», il ricorrente censura lo stesso art. 2 per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in riferimento al «principio generale» secondo cui lo stesso indice di capacità contributiva non giustifica la sovrapposizione di piú imposte, perché ogni imposta ha un presupposto autonomo, dovendo colpire «materie tassabili diverse», mentre nella specie la Regione ha colpito la stessa materia già tassata dallo Stato con l’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, il quale prevede che le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall’acquisto o dalla costruzione, esclusi gli immobili acquistati per successione o donazione e gli altri casi che vi sono indicati.
6.2. – L’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, disciplina, con effetto dal 31 maggio 2007, l’«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico», applicabile – nei confronti dell’alienante a titolo oneroso avente domicilio fiscale, «ai sensi dell’articolo 58 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600», o in Sardegna da meno di ventiquattro mesi o fuori dal territorio regionale – alle cessioni a titolo oneroso: 1) delle unità immobiliari acquisite o costruite da piú di cinque anni, site in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, adibite ad uso abitativo e diverse dall’abitazione principale (cosí come definita dall’art. 8, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504) da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi (commi 1, 2 e 4). La norma precisa, al comma 3, che «L’imposta non si applica alle cessioni a titolo oneroso di unità immobiliari adibite ad uso abitativo, effettuate in regime di impresa nell’esercizio delle attività di costruzione o compravendita di immobili, purché iscritte tra le rimanenze dell’ultimo bilancio approvato».
Con il secondo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura tale norma, in riferimento all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006), perché «la legge regionale non è in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato contenuti nell’art. 81 [recte: art. 67], comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi)», per cui, «nei confronti di una persona fisica, perché una plusvalenza possa costituire “reddito diverso” […], è necessario l’intento speculativo», il quale «non può avere un’articolazione diversa Regione per Regione» e «va escluso quando tra l’acquisto e la vendita sia intercorso un tempo tale da farlo ritenere quanto meno improbabile». Lamenta anche la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in riferimento al principio di capacità contributiva, perché «nella norma impugnata non si trova alcun elemento per il quale la capacità contributiva, espressa dalla realizzazione di plusvalenze con la cessione di immobili situati nella Regione, sia diversa a seconda che il soggetto risieda in Sardegna o fuori».
6.3. – Deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla resistente con riferimento al secondo ricorso.
La Regione Sardegna sostiene che, con riguardo all’imposta sulle plusvalenze, l’evocazione del parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 12 del Trattato CE, è inammissibile, perché tali parametri sono stati indicati nella sola proposizione finale della deliberazione governativa di impugnazione del 27 luglio 2007 e non nella motivazione di questa.
L’eccezione va rigettata, perché la deliberazione governativa di impugnazione contiene – anche se nella sola proposizione finale – l’indicazione di detti parametri, e ciò è sufficiente ai fini dell’ammissibilità del ricorso. Infatti, come affermato dalla sentenza n. 533 del 2002, tale deliberazione può limitarsi a «indicare le specifiche disposizioni che si ritiene […] eccedano la competenza» della Regione, «potendo essere rimessa all’autonomia tecnica della Avvocatura generale dello Stato anche l’individuazione dei motivi di censura».
6.4. – In considerazione di quanto osservato nel punto 4., il prelievo regionale censurato con i due ricorsi può considerarsi un tributo proprio della Regione, istituito ai sensi dell’art. 8, lettera h) [già i)], dello statuto speciale. La Corte deve, pertanto, limitarsi ad accertare se detto prelievo sia «in armonia» con il principio del sistema tributario statale espresso dall’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, di cui il ricorrente lamenta la violazione, in sostanza, in entrambi i ricorsi.
Per la precisione, nel primo ricorso, il suddetto principio del sistema tributario statale è evocato, dapprima, solo genericamente (“violazione dei princípi tributari”) con riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia e, poi, specificamente (con espresso richiamo del citato art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986), con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 3 e 53 Cost. L’art. 8, lettera h), dello statuto di autonomia, con riguardo al suddetto principio, è, invece, evocato espressamente nel secondo ricorso. È tuttavia evidente che, anche nel primo ricorso, il ricorrente ha inteso lamentare la divergenza della legge regionale da un principio del sistema tributario dello Stato e, quindi, la violazione del richiamato parametro statutario. È discutibile la tecnica di impugnazione usata dal ricorrente, perché egli ha prima denunciato la violazione statutaria di non specificati princípi del sistema tributario statale e poi ha precisato nello stesso ricorso, sia pure denunciando anche la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., che il principio del sistema tributario statale non rispettato dal legislatore regionale è quello di cui è espressione l’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986. Tuttavia è chiaro che tale imprecisione non inficia l’intenzione di denunciare la “disarmonia”, rilevante con riguardo allo statuto di autonomia, con il suddetto principio del sistema tributario statale.
6.5. – Il richiamato art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986 stabilisce che sono assoggettate a tassazione «le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non piú di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari». La disposizione richiede, pertanto, ai fini dell’applicazione dell’imposta erariale, la sussistenza di due condizioni: a) la condizione positiva della prossimità temporale della vendita dell’immobile rispetto al suo acquisto o alla sua costruzione; b) la condizione negativa che le plusvalenze non derivino da cessioni di immobili utilizzati per primarie esigenze abitative o acquisiti per successione. Il concorso di tali condizioni evidenzia che le plusvalenze sono assoggettate a tassazione in forza di quella che un tempo si designava come presunzione legale assoluta di speculatività delle cessioni effettuate nel quinquennio (alla quale fa riferimento il ricorrente) e che oggi potrebbe definirsi valutazione legale tipica di un’oggettiva strumentalità del comportamento del contribuente alla produzione di un reddito; relazione funzionale che costituisce, nella specie, l’effettiva ratio del tributo statale.
Le censure basate sulla disarmonia con questa ratio impositiva sono fondate.
6.5.1. – Va premesso che il prelievo previsto dalla legislazione statale e quello previsto dall’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006 riguardano entrambi, per quanto qui interessa, l’incremento di valore realizzato all’atto della cessione a titolo oneroso di un immobile o dei titoli partecipativi delle società proprietarie o titolari di diritti reali sull’immobile medesimo; incremento che va determinato in misura pari alla differenza tra il corrispettivo di cessione e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto (secondo gli analoghi criteri di calcolo previsti, rispettivamente, dall’art. 68 del d.P.R. n. 917 del 1986 e dai commi 5 e 6 del censurato art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006). Con riguardo all’originaria formulazione della norma denunciata, va peraltro rilevato che l’imposizione da essa introdotta: a) realizza una sovrapposizione di imposte per la parte in cui colpisce il medesimo presupposto del tributo erariale, assoggettando a tassazione le plusvalenze realizzate attraverso cessioni di «fabbricati adibiti a seconde case» acquistati o costruiti da non piú di cinque anni e già tassate, ai sensi dell’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, in forza della richiamata valutazione legale tipica di strumentalità; b) si applica anche a quelle plusvalenze realizzate nel quinquennio che, invece, il citato art. 67 esclude da tassazione, e cioè alle plusvalenze derivanti dalla cessione di unità immobiliari urbane acquisite per successione o che «per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale» di familiari del cedente diversi dal coniuge; c) ha per oggetto anche le plusvalenze ultraquinquennali, contraddicendo la scelta del legislatore statale di sottoporre a tassazione le sole plusvalenze derivanti da cessioni effettuate entro il quinquennio, per le quali opera la richiamata valutazione legale tipica.
L’imposta statale e quella regionale, pur riguardando lo stesso tipo di reddito, sono dunque ispirate a diverse rationes: mentre la ratio posta a base dell’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986 risponde al principio generale di tassare il “reddito diverso” costituito dalla plusvalenza in considerazione delle caratteristiche oggettive dell’operazione di acquisto inter vivos e di successiva cessione del bene (caratteristiche che si risolvono essenzialmente nell’inizio e nella conclusione nel quinquennio dell’operazione stessa); invece, la ratio su cui si fonda la norma censurata astrae da tali caratteristiche e, perciò, comporta, oltre all’indicata sovrapposizione, l’assoggettamento a tassazione, in un’ottica di “reddito-entrata”, di tutte le plusvalenze, in qualsiasi tempo realizzate, per il solo fatto dell’esistenza di una differenza positiva tra il corrispettivo di cessione e il prezzo o costo iniziale. È evidente, al riguardo, la disarmonia che si crea tra le due normative, derivante dalla diversità ed incompatibilità delle rationes impositive e, in particolare, dalla coesistenza dei due menzionati contraddittori indirizzi di politica fiscale: quello statale, che limita la tassazione alle plusvalenze in ragione del verificarsi delle condizioni previste dal citato art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986 e, pertanto, in funzione di un concetto economico di “reddito-prodotto”; quello regionale, che non solo aggrava l’imposizione sulle plusvalenze realizzate nel quinquennio, ma – nella suddetta ottica di “reddito-entrata” – la estende per un tempo indeterminato ad altre ipotesi, non collegate alle suddette condizioni.
L’imposizione delle plusvalenze realizzate attraverso la cessione di partecipazioni di società titolari di diritti reali sui fabbricati, «per la parte ascrivibile ai predetti fabbricati», è ugualmente in contrasto con la ratio della disciplina erariale, perché, nell’intento del legislatore regionale, si giustifica esclusivamente come rimedio antielusivo ed è, quindi, riconducibile – al pari dell’imposizione riguardante direttamente i fabbricati adibiti a seconde case – all’indicata divergente ratio della tassazione.
6.5.2. – Quanto alla vigente formulazione della norma denunciata (introdotta dall’art. 3, comma 1, della legge regionale n. 2 del 2007), la censura proposta con il secondo ricorso è fondata, per analoghe ragioni. Tale norma, rubricata, diversamente dalla prima, «Imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico», si limita a modificare la disciplina originaria del prelievo regionale, eliminando la tassazione delle plusvalenze derivanti da cessioni effettuate nel quinquennio e confermando quella delle plusvalenze ultraquinquennali.
Al pari di quanto dedotto nel primo ricorso, il ricorrente assume che la norma censurata si pone in contrasto con il principio sopra indicato desumibile dall’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986. La fondatezza di tale censura deriva anche qui dal fatto che la norma denunciata mantiene la rilevata differenza qualitativa fra i due tipi di imposizione, disattendendo la scelta del legislatore statale diretta a sottoporre a tassazione le sole plusvalenze derivanti da cessioni effettuate nel quinquennio. In particolare, la nuova norma denunciata, pur avendo eliminato la sovrapposizione delle imposte relativamente alle plusvalenze realizzate nel quinquennio, non ha risolto l’evidente contraddizione fra la ratio che l’ha ispirata e la scelta di politica fiscale generale che il legislatore statale ha operato con l’esclusione da tassazione delle plusvalenze ultraquinquennali derivanti sia da cessioni di fabbricati (per le quali non si applica la piú volte richiamata valutazione legale tipica) sia da cessioni di partecipazioni in società aventi nel loro patrimonio detti fabbricati.
6.6. – L’evidenziata contraddizione fra la ratio ispiratrice del tributo regionale censurato e la scelta di politica fiscale del legislatore statale di limitare la tassazione alle sole plusvalenze realizzate nel quinquennio è accentuata dal rilievo che la norma denunciata, in entrambe le sue formulazioni, realizza un’ingiustificata discriminazione tra i soggetti aventi residenza anagrafica all’estero e i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna aventi residenza anagrafica in Italia, violando cosí gli artt. 3 e 53 Cost.
La norma censurata assume, quale criterio per determinare il non assoggettamento al tributo, il domicilio fiscale individuato ai sensi dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973, prevedendo che sia soggetto passivo dell’imposta chi è fiscalmente domiciliato fuori dal territorio regionale o ha domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi. In base al menzionato art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973: a) le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno «il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte»; b) le persone fisiche non residenti nel territorio dello Stato, hanno il domicilio fiscale «nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito si è prodotto in piú comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito piú elevato». Da tale previsione consegue che, in tutti i casi in cui le persone fisiche residenti anagraficamente all’estero realizzano il reddito-plusvalenza in Sardegna quale loro maggiore reddito prodotto in Italia, esse devono considerarsi per ciò stesso soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna e, quindi, non assoggettati a tassazione ai sensi della norma censurata (se fiscalmente domiciliati in Sardegna da almeno ventiquattro mesi); mentre le persone fisiche residenti anagraficamente in Italia, ma fuori dalla Sardegna, anche se realizzano – al pari di quelle residenti all’estero – le plusvalenze in territorio sardo, sono comunque non fiscalmente domiciliate in Sardegna e, quindi, sono assoggettate a tassazione. E ciò, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione di tale disparità di trattamento. Considerazioni analoghe possono farsi per i soggetti diversi dalle persone fisiche.
6.7. – La rilevata disarmonia delle norme denunciate con i princípi del sistema tributario dello Stato sussiste indipendentemente dalla considerazione dell’ulteriore ingiustificata discriminazione – adombrata dal ricorrente con il richiamo dell’art. 12 del Trattato CE per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. – che la norma censurata crea escludendo da tassazione i soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna e sottoponendo a tassazione i soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea e non fiscalmente domiciliati in Sardegna. Al riguardo, non può sottacersi che detta norma contravviene al divieto di restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri previsto dall’art. 56 del Trattato CE, come interpretato dalla Corte di giustizia comunitaria. Seppure con riferimento a un prelievo statale, quest’ultima ha infatti precisato – in una fattispecie analoga a quella regolata dalle norme censurate – che il legislatore nazionale non può assoggettare «le plusvalenze risultanti dalla cessione di un bene immobile situato in uno Stato membro […], quando la detta cessione è effettuata da un soggetto residente in un altro Stato membro, ad un onere tributario superiore a quello che sarebbe applicato per lo stesso tipo di operazione alle plusvalenze realizzate da un soggetto residente nello Stato in cui è situato detto bene immobile» (sentenza 11 ottobre 2007, C-443/2006, Hollmann).
6.8. – L’accoglimento delle censure riferite alla violazione dell’art. 8, lettera h) [già lettera i)], dello statuto speciale comporta l’assorbimento di tutte le altre censure di illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettate da ciascun ricorso con riguardo, rispettivamente, al testo originario di tale disposizione ed al testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007.
Nel dettaglio, tali ulteriori censure sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il primo ricorso (n. 91 del 2006), con riferimento all’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettando la violazione degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in riferimento al principio fondamentale espresso dall’art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall’acquisto o dalla costruzione, con le esclusioni previste dalla legge. La difesa erariale lamenta anche la violazione: a) in via principale, degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; b) in via subordinata, dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 12 del trattato CE, in quanto la norma censurata discrimina i cittadini comunitari adottando, per l’applicazione dell’imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza». Le altre censure, parimenti assorbite, concernenti l’art 2 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), prospettando la violazione, in via subordinata rispetto alle altre censure formulate, dell’art. 119 Cost., per contrasto con i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario, che corrispondono, almeno in via transitoria e «fino a che non interverranno le norme statali di attuazione dell’art. 119», ai princípi del sistema tributario dello Stato. Con il medesimo ricorso, la difesa erariale lamenta altresí, con riguardo alla medesima disposizione, la violazione del principio di ragionevolezza, perché la norma censurata, applicandosi a tutte le unità immobiliari site entro tre chilometri dalla battigia marina, fissa ingiustificatamente una distanza dalla battigia uguale per tutte le spiagge della Regione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e, quindi, delle diverse possibilità di accesso al mare. Lamenta, infine, il ricorrente la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 12 del trattato CE, in quanto discrimina i cittadini comunitari, assoggettando all’imposta tutti i non residenti.
7. – Vanno ora esaminate le questioni relative all’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, sollevate, rispettivamente, con il primo e il secondo ricorso.
7.1. – Tale disposizione, nel testo originario, istituisce e disciplina l’«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», dovuta – secondo classi di superficie – sui fabbricati siti nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, applicabile nei confronti del proprietario di detti fabbricati, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, con l’esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi e figli.
Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il Presidente del Consiglio dei ministri censura la norma in riferimento all’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna – nel testo vigente all’epoca del deposito del ricorso, cioè anteriormente all’entrata in vigore del comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 –, perché: a) l’imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo. Lamenta, altresí, che il tributo pregiudica «le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario», perché colpisce la stessa materia tassabile colpita da altri tributi e, in particolare, dall’ICI, producendo una “disarmonia” con i princípi del sistema tributario dello Stato. Lamenta, inoltre, che la norma denunciata víola l’art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3», e l’art. 12 del Trattato CE, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto discrimina i cittadini comunitari adottando, per l’applicazione dell’imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza».
7.2. – L’art 3 della legge reg. n. 4 del 2006, sostituito – con effetto dal 31 maggio 2007 – dall’art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, disciplina l’«Imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», dovuta – per metro quadro ed in misura differenziata secondo scaglioni di superficie – sulle unità immobiliari ubicate nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibite ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse. Tale imposta è, in particolare, applicabile nei confronti del proprietario di dette unità immobiliari, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, superficie o del locatario dell’immobile in locazione finanziaria, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. Il comma 9 dello stesso art. 3 prevede, poi, che «Per l’anno 2006 l’imposta è dovuta nella misura piú favorevole al contribuente mediante comparazione tra le misure previste dal presente articolo e quelle previgenti».
Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), censura tale norma, in riferimento all’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l’oggetto dell’imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l’unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell’immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l’imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo essa determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l’ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta e, perciò, non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente. Denuncia, altresí, la violazione dell’art. 53 Cost., perché «l’imposta è commisurata alla visibilità del mare, quindi su valori panoramici», i quali non sono materia tassabile, in quanto non integrano la capacità contributiva che è, invece, legata al valore economico del bene e, in subordine, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., per irragionevolezza, perché l’imposta è dovuta anche per gli immobili privi di vista sul mare. Lamenta, inoltre, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., sempre per irragionevolezza, per il contrasto con i princípi del sistema tributario dello Stato, che emerge anche dal fatto che l’imposta è «progressiva con l’aumentare delle superfici disponibili da 60 mq. a 150» mq., ma «diventa fortemente regressiva da 150 mq. a 200 per diminuire ancora per le superfici maggiori».
7.3. – Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il ricorrente denuncia, con una complessa e articolata censura, la violazione dell’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna. Diversamente dalle censure relative alle altre imposte regionali, la difesa erariale non si limita ad affermare che l’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico non attiene alla materia “turismo”, ma da tale asserzione fa derivare la conseguenza che il tributo, gravando sulla stessa materia tassabile colpita dall’ICI, dimostra l’incoerente perseguimento, da parte della Regione, della finalità di garantire un turismo sostenibile e pregiudica «anche le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario». Secondo il ricorrente, il fatto che l’imposta regionale incida sulle «stesse materie tassabili» colpite dal legislatore nazionale con l’ICI produce una “disarmonia” con i princípi del sistema tributario dello Stato e, soprattutto, numerose discriminazioni vietate dall’art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3». Il ricorrente indica, quale esempio di tali discriminazioni – deducendo anche la corrispondente violazione dell’art. 12 del Trattato CE –, la disparità di trattamento fra il soggetto nato fuori dal territorio regionale e non avente domicilio fiscale nella Regione, il quale è assoggettato all’imposizione regionale, e il soggetto anch’esso non domiciliato fiscalmente nella Regione, ma nato in Sardegna, il quale invece non è assoggettato all’imposizione per il solo fatto di essere nato in Sardegna (art. 3, comma 4).
La censura, formulata in modo involuto, va interpretata nel senso che il ricorrente denuncia la violazione dei princípi di ragionevolezza e di capacità contributiva sotto il profilo della disparità di trattamento tra soggetti fiscalmente domiciliati o nati nel territorio della Sardegna e soggetti che non hanno tali requisiti.
7.4. – In questi termini, la questione è fondata.
La norma censurata, smentendo il dichiarato intento del legislatore regionale di introdurre un’imposta sull’uso turistico delle seconde case di abitazione, istituisce un’imposta patrimoniale sui fabbricati ubicati nella fascia costiera sarda e non adibiti ad abitazione principale, che non si applica alla generalità dei “possessori” di tali immobili e, pertanto, crea le ingiustificate disparità di trattamento denunciate dal ricorrente.
7.5. – La Regione resistente, argomentando dalla rubrica e dal comma 1 della disposizione denunciata («imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico»), nonché dall’ubicazione nella fascia costiera sarda degli immobili sottoposti a tassazione, afferma che il tributo censurato non va ricondotto alla tipologia dei tributi patrimoniali, ma a quella dei cosiddetti tributi a finalità “ecologico-turistica”, diretti a contenere l’inquinamento ambientale prodotto dal turismo e, in particolare, dal possesso di «seconde case ad uso turistico». Ad avviso della Regione, la norma censurata perseguirebbe, cioè, “finalità turistico-ambientali” e individuerebbe la capacità contributiva del soggetto passivo nel fatto che esso, essendo non residente e possedendo un immobile in una località turistica di alto valore ambientale, “consuma e usa” il bene ambientale protetto, senza che tale uso e consumo siano giustificati da un collegamento stabile del possessore con la comunità territoriale.
Tale ricostruzione della natura e della funzione del tributo non trova, però, sostegno nella complessiva formulazione della disposizione denunciata.
Al riguardo, va premesso che, in forza del comma 2 dell’art. 3 della menzionata legge reg. n. 4 del 2006, il presupposto dell’imposta è costituito dal «possesso di fabbricati» (definiti come «case» dal comma 1 dello stesso articolo) siti nella fascia costiera sarda e «non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale su di essi». Tuttavia, il legislatore regionale – adottando l’identica tecnica legislativa e le identiche formulazioni letterali usate dal legislatore statale a proposito dell’ICI (artt. 1, comma 2, e 3 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, recante «Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421») – impiega una nozione di «possesso di fabbricati» che va messa in relazione con la successiva tassativa indicazione dei soggetti passivi di imposta, individuati dalla norma denunciata, appunto, nei titolari di determinate situazioni giuridiche soggettive sull’immobile oggetto di tassazione (comma 3 del medesimo art. 3 della legge regionale). Ne consegue che tale «possesso» non va inteso nel senso civilistico (art. 1140 del codice civile), ma esclusivamente nel peculiare senso di titolarità, da parte del soggetto passivo dell’imposta, delle suddette situazioni giuridiche soggettive sul fabbricato. Questa precisazione (che vale a fugare le perplessità esegetiche prospettate, sul punto, dalla difesa erariale, specie nel secondo ricorso) rende evidente che la disciplina positiva del tributo prescinde dall’«uso turistico» (effettivo o potenziale) dei «fabbricati» (intesi come «case»). Infatti, il citato comma 2 del censurato art. 3 della legge regionale – nello stabilire che la ristretta, imprecisa e atecnica espressione «seconde case ad uso turistico», usata dal legislatore nel precedente comma, deve essere intesa nella piú ampia, precisa e tecnica accezione di «case» o «fabbricati non adibiti ad abitazione principale» – elimina ogni riferimento sia alle «seconde case» sia alla destinazione del fabbricato ad uso turistico. La precisa definizione legislativa del presupposto d’imposta, desumibile dai commi 2 e 3 del censurato art. 3, impone, cioè, di ritenere (in contrasto con la sopra ricordata piú ristretta denominazione del tributo, contenuta nella rubrica e nel comma 1 dello stesso articolo) che l’imposta si applica in tutti i casi in cui il soggetto passivo (e, quindi, anche il locatario di un immobile concesso in locazione finanziaria, erroneamente non richiamato dal comma 2) non abbia adibito a propria abitazione principale il fabbricato da lui “posseduto” ed ubicato nella fascia costiera sarda.
Da questa interpretazione della norma deriva che l’imposta si applica anche nei casi in cui il soggetto passivo del tributo – cioè colui che manifesta una specifica capacità contributiva attraverso il “possesso” del fabbricato – utilizza l’unità immobiliare abitativa per finalità diverse dal turismo, come, ad esempio, quelle di dimora per lavoro, di impresa (ove ciò sia compatibile con la suddetta destinazione abitativa del bene) o di locazione. In particolare, nel caso di locazione, il locatore “possessore”della “casa” è assoggettato a tassazione per il solo fatto di non essere nato in Sardegna o di non avervi domicilio fiscale, anche se utilizza il bene al solo fine di sfruttamento commerciale, senza che abbia alcun rilievo il tipo di uso (non turistico o turistico) che ne faccia il locatario e senza che la legge preveda mai, in favore del locatore, alcuna rivalsa. In altri termini, il suddetto locatore è ugualmente assoggettato a tributo, sia quando il locatario utilizza il bene per finalità non turistiche (ad esempio, di abitazione principale propria); sia quando lo utilizza per finalità turistiche, restando cosí assoggettato – se non residente in Sardegna – all’imposta di soggiorno prevista (con effetti a decorrere dal 15 giugno 2008) dal censurato art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007.
La tassazione del soggetto che non sia fiscalmente domiciliato in Sardegna (o che non vi sia nato), prevista dalla norma censurata nel caso in cui il “possessore” del fabbricato non utilizzi l’immobile (neppure indirettamente) a fini turistici, si giustifica, perciò, solo in termini oggettivi, per il mero fatto del “possesso” di un immobile situato in una zona di particolare rilievo turistico. Ma, in tal caso, l’imposta, ancorché colpisca case situate nelle indicate zone di particolare rilievo turistico, è riconducibile ai tributi di tipo non già turistico-ambientale, ma patrimoniale-immobiliare, come l’ICI. Occorre, dunque, concludere che, nonostante la denominazione di «imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», il tributo in esame non ha una effettiva ratio turistico-ambientale.
Tale conclusione comporta, quale ulteriore corollario, l’infondatezza delle considerazioni che si riferiscono a detta ratio per giustificare le esclusioni soggettive dall’imposta previste dalla norma censurata. In particolare, si è sostenuto dalla Regione resistente che le menzionate esclusioni sarebbero legittime perché previste in presenza di particolari indici di collegamento del soggetto con la comunità e la cultura locali, data anche la peculiare caratteristica geografica del territorio sardo. Proprio tale collegamento con il territorio, unitamente all’intento del legislatore di non ostacolare il turismo all’interno della Sardegna dei soggetti nati in Sardegna (e dei loro coniugi e figli) o ivi fiscalmente domiciliati, renderebbe ragionevole – secondo tale impostazione – escludere dall’imposta detti soggetti ove siano possessori, nella fascia costiera sarda, di case adibite ad uso turistico. Questa argomentazione, tuttavia, indipendentemente dalla sua persuasività (soprattutto con riferimento alla congruità degli indici di collegamento prescelti dal legislatore regionale), muove dall’erronea premessa che l’imposta colpisce l’«uso turistico» della casa. La sopra riscontrata natura patrimoniale dell’imposta fa venire meno tale premessa e rende, perciò, prive di fondamento le indicate giustificazioni della limitazione del novero dei soggetti passivi d’imposta.
7.6. – Da quanto precede deriva che la censurata imposta regionale risponde, sul piano oggettivo, a una logica di tassazione patrimoniale realizzata secondo lo schema dell’ICI. Al pari dell’ICI, infatti, il presupposto di tale imposta regionale è costituito – come già osservato – dalla titolarità del diritto di proprietà, di diritti reali di godimento e dalla conduzione in locazione finanziaria di fabbricati, indipendentemente dall’effettivo utilizzo del bene e dal fatto che esso sia occupato da un soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna; con la sola differenza che, mentre l’ICI riguarda i fabbricati, le aree fabbricabili ed i terreni agricoli, a qualsiasi uso destinati (artt. 1 e 3 del d.lgs. n. 504 del 1992), la norma censurata circoscrive l’oggetto dell’imposta alle unità immobiliari non adibite ad abitazione principale, ubicate nella fascia costiera sarda. È sufficiente, cioè, il «possesso» di unità immobiliari che consentono un insediamento abitativo solo potenziale e, comunque, non diretto a soddisfare esigenze abitative primarie del “possessore”.
Senonché, la coerenza con lo schema dell’imposta immobiliare avrebbe richiesto la tassazione, con carattere di generalità, delle indicate unità immobiliari, senza le ampie esclusioni soggettive introdotte dalla norma censurata ed imperniate sul criterio del domicilio fiscale e della nascita in Sardegna del soggetto passivo (oltre a quello del rapporto di coniugio o di filiazione con il soggetto nato in Sardegna). La scelta del legislatore regionale di allontanarsi, con la previsione di tali esclusioni, dallo schema dell’ICI contrasta, infatti, con il carattere generale delle imposizioni sui patrimoni immobiliari e ne snatura l’essenza. Crea, in particolare, ingiustificate discriminazioni soggettive nell’applicazione dell’imposta, nonché una forte disarmonia con il principio del sistema tributario statale, che – come già osservato – esige che i suddetti tipi di imposte si applichino nei confronti di tutti i titolari delle situazioni giuridiche soggettive sugli immobili situati nella sfera di competenza territoriale dell’ente impositore (salvo, beninteso, limitate esenzioni soggettive od oggettive che non ne mutino la natura), siano essi fiscalmente domiciliati o non domiciliati nel territorio ove è ubicato l’immobile e senza che rilevi il loro luogo di nascita.
Tale discriminazione appare ancora piú stridente se si pone a raffronto il caso dei soggetti aventi domicilio fiscale in Italia, ma non in Sardegna, con quello dei soggetti aventi residenza anagrafica all’estero, ma domicilio fiscale in Sardegna. Si è visto, infatti, al punto 6.6., che questi ultimi, qualora siano titolari di diritti reali sugli immobili ubicati in Sardegna, hanno – ove non godano di maggiori redditi prodotti in Italia fuori dal territorio sardo – domicilio fiscale in Sardegna ai sensi dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973. Differentemente da chi ha domicilio fiscale in Italia, ma non in Sardegna, essi non sono pertanto tenuti al pagamento della suddetta imposta regionale, qualunque sia la consistenza delle unità immobiliari ubicate in Sardegna, pur essendo residenti anagraficamente fuori dal territorio sardo.
7.6.1. – Né può opporsi – come fa la resistente – che le suddette esclusioni dall’imposta sono giustificate dal fatto che i soggetti esclusi già contribuiscono alle finanze regionali pagando imposte sui redditi riscosse nel territorio della Regione, il cui gettito è a questa attribuito per i sette decimi in base all’art. 8, lettera a), dello statuto speciale ed è utilizzato anche a fini di tutela dell’ambiente e promozione del turismo sostenibile.
Innanzitutto, va premesso che, con riferimento a ciascun soggetto d’imposta, non c’è correlazione necessaria, ma solo probabile, tra il domicilio fiscale nella Regione Sardegna e il pagamento nella medesima Regione delle imposte sui redditi. Ad esempio, nel caso dei titolari di redditi inferiori ai minimi imponibili o comunque esenti, il soggetto, benché fiscalmente domiciliato in Sardegna, non è tenuto al pagamento delle imposte sui redditi. Va poi osservato che, anche a voler accedere alla tesi della resistente, si creerebbe un’irragionevole disparità di trattamento fra il soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna che, pur possedendo «seconde case» situate nella fascia costiera, è escluso dalla tassazione, e il soggetto, sempre domiciliato fiscalmente in Sardegna, che, non possedendo «seconde case», sopporterebbe, con il pagamento delle imposte sui redditi, il carico economico della tutela dell’ambiente e della protezione del turismo sostenibile, derivante anche dalle seconde case costiere appartenenti al primo.
Inoltre, osta radicalmente alla tesi della resistente la già rilevata natura patrimoniale e, quindi, reale del tributo, la quale esclude che alla richiamata regola della generalità della sua applicazione possano apportarsi eccezioni estranee alla logica impositiva del tributo medesimo, come sono quelle basate sulla circostanza che il gettito dei tributi pagati da chi ha domicilio fiscale in Sardegna è destinato a finanziare la tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile del turismo nella Regione. Del resto, le suddette esclusioni soggettive, oltre a non giustificarsi in base alla natura dell’imposta, non sono neppure idonee ad eliminare le già sopra rilevate incongruenze dell’imposta medesima.
In ogni caso, l’obiezione fondata sull’asserita equiparabilità tra le quote di gettito delle imposte sui redditi attribuite alla Regione e il gettito del prelievo immobiliare regionale non giustifica certamente l’esclusione delle persone nate in Sardegna e dei loro coniugi e figli dal novero dei soggetti passivi dell’imposta regionale, non avendo detti soggetti alcun obiettivo collegamento con il territorio regionale e non essendo, quindi, assimilabili ai soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna.
7.6.2. – La Regione giustifica, altresí, le ampie esclusioni soggettive dall’imposta con la necessità: a) di disincentivare fiscalmente la costruzione di «seconde case ad uso turistico» nella fascia costiera per evitare un potenziale inquinamento ambientale provocato dalla presenza turistica; b) di colpire l’incremento di valore di dette unità immobiliari che si produce a séguito dei vincoli di inedificabilità imposti dal piano paesaggistico regionale anche in considerazione della vocazione turistica della fascia costiera.
Neppure tali argomentazioni valgono a eliminare la rilevata irragionevolezza dell’imposta oggetto della disposizione censurata.
Quanto all’obiettivo di disincentivare, a fini di tutela ambientale, la costruzione di «seconde case ad uso turistico» nella fascia costiera, va rilevato che esso andrebbe perseguito prevalentemente attraverso gli strumenti del governo del territorio. In ogni caso, sia sotto questo profilo che sotto quello fiscale, la realizzazione del medesimo obiettivo non potrebbe non riguardare anche le costruzioni realizzate da soggetti domiciliati o nati in Sardegna, le quali hanno un’uguale potenzialità inquinante e mettono perciò in pericolo un modello di turismo sostenibile.
Quanto, poi, all’asserito obiettivo di tassare l’incremento di valore delle unità immobiliari in questione, va osservato che esso dovrebbe essere perseguito sottoponendo a tributo anche il soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna e, comunque, non potrebbe realizzarsi attraverso l’imposta censurata, la cui base imponibile, essendo calcolata in relazione alla superficie, non è di per sé idonea a misurare detto incremento.
7.6.3. – Deve, infine, essere sottolineato che le rilevate discriminazioni sono particolarmente gravi nel caso di imprese che svolgono attività di locazione di immobili, in quanto l’esclusione dall’imposta per le sole imprese aventi domicilio fiscale in Sardegna (o, addirittura, il cui titolare sia nato in Sardegna) si traduce in un irragionevole beneficio fiscale, distorsivo della concorrenza.
7.6.4 – Per ciò che concerne la vigente formulazione della norma denunciata (introdotta dall’art. 3, comma 2, della legge regionale n. 2 del 2007), può ritenersi parimenti fondata, per analoghe ragioni, la censura proposta con il secondo ricorso. La norma mantiene, infatti, sostanzialmente immutata la struttura originaria del prelievo regionale, limitandosi ad eliminare l’esclusione dalla tassazione per i soggetti nati in Sardegna e i loro coniugi e figli.
Come per il primo ricorso, la censura formulata va interpretata nel senso che il ricorrente lamenta che la norma denunciata si pone in contrasto con i princípi di ragionevolezza e di capacità contributiva sotto il profilo della disparità di trattamento tra soggetti fiscalmente domiciliati nel territorio della Sardegna e soggetti che non hanno tali requisiti.
La fondatezza di tale censura deriva anche qui dal fatto che la norma non introduce un’imposta sull’uso turistico delle seconde case di abitazione, ma un’imposta patrimoniale sui fabbricati ubicati nella fascia costiera e non adibiti ad abitazione principale, che non si applica alla generalità dei “possessori” di tali immobili – come invece richiesto dai princípi generali del sistema tributario statale per tale tipo di imposte – e, pertanto, crea le ingiustificate disparità di trattamento denunciate nel primo ricorso e ribadite nel secondo.
7.7. – L’accoglimento delle censure riferite alla violazione dell’art. 8, lettera h) [già lettera i)], dello statuto speciale comporta l’assorbimento di tutte le altre censure di illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettate con ciascun ricorso con riguardo, rispettivamente, al testo originario di tale disposizione ed al testo sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007.
Nel dettaglio, tali ulteriori censure sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il primo ricorso (n. 91 del 2006), con riferimento all’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettando la violazione degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001: a) in via principale, perché non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; b) in via subordinata, perché l’imposta è determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre «la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l’imposta statale e per l’ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto analogo con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a secondo del pregio degli immobili». Le altre censure, parimenti assorbite, concernenti l’art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), prospettando la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l’oggetto dell’imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l’unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell’immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l’imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l’ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta, e perciò non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente. Con il medesimo ricorso, la difesa erariale lamenta, altresí, la violazione del principio di ragionevolezza, salvo che la disposizione censurata sia interpretata nel senso che «se il proprietario, o i titolari degli altri diritti reali, non sono nel possesso dell’immobile, l’imposta non è dovuta, né da loro (per mancanza del possesso) né dai possessori non titolari di quei diritti, perché non indicati tra i soggetti passivi».
8. – Vanno ora esaminate le questioni relative all’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario (che ha avuto effetto dal 13 maggio 2006 al 30 maggio 2007), sia in quello sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 (con effetto dal 31 maggio 2007, ai sensi dell’art. 37 di quest’ultima legge). La diversità dell’oggetto delle censure rende opportuno l’esame distinto di ciascun ricorso.
8.1. – L’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, istituisce, a decorrere dall’anno 2006, l’«imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto». L’imposta è applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, alla persona o alla società aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assumono l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (con l’esenzione dall’imposta delle navi adibite all’esercizio di attività crocieristica, delle imbarcazioni che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo e delle unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali) ed è dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell’aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto di cui al codice della nautica da diporto (decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171), per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.
8.1.1. – Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione impugnata con tre diversi gruppi di parametri costituzionali: a) con l’art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché l’oggetto dell’imposta non potrebbe essere ricondotto alla materia del turismo ed una piena esplicazione di potestà tributarie regionali non sarebbe ammissibile, in materie diverse dal turismo, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale e, comunque, sarebbero «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo; ovvero, alternativamente, con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, come già affermato nello stesso ricorso, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali non sarebbe ammissibile, in materie diverse dal turismo, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; ovvero, in ulteriore subordine, nel caso in cui «si potessero desumere i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt’ora in vigore», con i medesimi artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, con riguardo alle unità da diporto che effettuano lo scalo «in zona non attrezzata, in uno specchio di mare ridossato, dove l’ormeggio sia effettuato a terra, utilizzando la struttura naturale della spiaggia», la Regione ha individuato «come presupposto di imposta l’utilizzo di un bene naturale, sul quale non può esercitare poteri», cioè il mare, «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale»; b) con l’art. 53 Cost., sia perché, con riguardo agli aeromobili, vi sarebbe una «duplicazione di imposta di tutta evidenza» rispetto ai «diritti aeroportuali o diritto per l’uso degli aeroporti (legge n. 324/1976)», sia perché «lo svolgimento di un’operazione per la quale […] si paga un prezzo che copre il costo del servizio reso, con margine di utile», non costituirebbe indice di capacità contributiva; c) con gli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri, peraltro, non espressamente indicati), perché, con riguardo alle unità da diporto, l’imposta avrebbe «carattere regressivo», essendo dovuta annualmente, con la conseguenza che «piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l’onere dell’imposta». Tali censure, che vanno esaminate separatamente, non sono fondate.
8.1.2. – Quanto alla censura sub a), va preliminarmente rilevato che deve essere scrutinata esclusivamente la denunciata violazione dello statuto regionale, perché – come già rilevato al punto 5. – la normativa concernente il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni introdotta dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede forme di autonomia piú ampie rispetto a quelle previste dallo statuto della Regione Sardegna e pertanto, ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, trova nella specie applicazione esclusivamente lo statuto di autonomia.
Nel merito, sotto tutti i profili prospettati, la suddetta censura non è fondata.
In primo luogo, va ribadito (come già osservato al punto 5.6.) che è irrilevante se la suddetta imposta regionale sia o no riconducibile alla materia del turismo, perché il citato art. 8, lettera i), dello statuto della Sardegna attribuisce alla Regione una specifica competenza legislativa esclusiva nella materia non solo delle «imposte e tasse sul turismo», ma anche degli «altri tributi propri». Pertanto, anche ove potesse ritenersi (sia pure implausibilmente) che il periodo in cui lo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto nel territorio regionale è sottoposto a tributo (cioè il periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno, corrispondente al maggior afflusso turistico), nonché il domicilio fiscale dei soggetti passivi dell’imposta (fuori dal territorio regionale sardo), non siano elementi sufficienti a caratterizzare come tributo “sul turismo” la denunciata imposta, ciò non comporterebbe affatto la violazione dello statuto regionale. Infatti, il tributo sarebbe pur sempre qualificabile come «proprio» della Regione e, quindi, sarebbe da essa legittimamente stabilito in forza della competenza legislativa statutaria, purché fosse rispettata la condizione – richiesta dal medesimo art. 8, lettera i), dello statuto – dell’«armonia con i principi del sistema tributario dello Stato».
In secondo luogo – come già osservato al punto 5.3. e contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale –, la potestà legislativa della Regione Sardegna in materia di tributi propri non è condizionata dalla previa emanazione da parte dello Stato di una legge che fissi i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario.
In terzo luogo, il ricorrente non ha indicato i princípi del sistema tributario dello Stato rispetto ai quali la norma denunciata non si porrebbe «in armonia». La censura, pertanto, è prospettata in via del tutto generica. Né può farsi riferimento, quale principio del sistema tributario dello Stato che si asserisce violato, al “principio generale di coordinamento del sistema tributario” indicato dal ricorrente in via subordinata. Infatti – come già rilevato al punto 5.2. – i princípi del sistema tributario statale hanno natura e finalità essenzialmente diverse rispetto ai “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario”. In particolare, il ricorrente ha individuato, quale “principio fondamentale di coordinamento” concernente le unità per la navigazione da diporto, quello secondo cui il mare sarebbe «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale»: tuttavia, tale principio, per come è formulato dal ricorrente, non solo è estraneo al sistema tributario statale, ma non trova neppure fondamento nell’ordinamento vigente. Il mare, infatti, ben può essere oggetto della legislazione regionale; come avviene, ad esempio, per le Regioni a statuto ordinario, nell’àmbito della competenza concorrente in materia di porti o di grandi reti di navigazione; ovvero, per la Regione Sardegna – in forza dell’art. 3, lettera i), dello statuto –, nell’àmbito della competenza esclusiva in materia di pesca. Ove, poi, il ricorrente avesse solo inteso affermare che la Regione resistente non avrebbe potuto assumere a presupposto dell’imposta regionale l’utilizzazione del mare, la censura sarebbe, a tacer d’altro, inconferente, perché – diversamente da quanto ritenuto dalla difesa erariale – la disposizione denunciata precisa chiaramente che il presupposto dell’imposta regionale sulle unità da diporto non riguarda la mera utilizzazione del “mare”, ma «lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale», cioè l’utilizzazione di strutture poste all’interno del territorio sardo.
Con riferimento alle censure prospettate dal ricorrente in via subordinata evocando gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, va ribadito che esse sono inammissibili per le ragioni già esposte al punto 5.3.
8.1.3. – Con la censura sub b), il ricorrente afferma che la norma denunciata, con riguardo agli aeromobili, si pone in contrasto con l’art. 53 Cost., sia perché il tributo regionale costituisce una «duplicazione di imposta» rispetto a quanto previsto dalla legge statale in materia di diritti aeroportuali o per l’uso degli aeroporti, sia perché l’operazione di scalo non rappresenta un indice di capacità contributiva, dovendo l’utente degli aerodromi già pagare un prezzo per il servizio da lui goduto.
Anche tale censura non è fondata.
La difesa erariale muove da tre diverse premesse: che i suddetti diritti aeroportuali previsti dalla vigente legislazione statale siano classificabili come tributi; che l’imposta regionale sia dovuta in ragione dei servizi utilizzati nelle operazioni di scalo negli aerodromi; che i tributi propri della Regione Sardegna non possano prevedere presupposti identici o analoghi a quelli di tributi statali.
Tali premesse sono erronee.
Quanto alla prima, va rilevato che, ai sensi della norma interpretativa posta dall’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, i diritti aeroportuali previsti dalla legge 5 maggio 1976, n. 324 (Nuove norme in materia di diritti per l’uso degli aeroporti aperti al traffico civile) non costituiscono tributi, ma corrispettivi civilistici di alcuni servizi aeroportuali (in tal senso, Corte di cassazione, sentenza n. 379 del 2008, nonché la sentenza di questa Corte n. 51 del 2008). A ciò deve aggiungersi che il soggetto tenuto al pagamento dei diritti aeroportuali di approdo (oltre che di partenza, sosta o ricovero) non è l’esercente dell’aeromobile adibito a trasporto privato (come nell’imposta regionale in esame), ma il pilota dell’aeromobile, ove questo non svolga attività commerciale (artt. 2, secondo comma, e 3, secondo comma, della citata legge n. 324 del 1976).
Quanto alla seconda premessa, va osservato che l’imposta regionale prescinde dall’obbligo a carico del soggetto passivo di corrispondere i corrispettivi dovuti per i servizi utilizzati nello scalo dell’aeromobile, in quanto il tributo è dovuto dal soggetto passivo per il solo fatto che l’aeromobile da lui esercito ed adibito a trasporto privato effettui uno scalo in un aerodromo ubicato nel territorio sardo, indipendentemente dalla circostanza che l’aeromobile abbia in concreto usufruito di servizi aeroportuali o che detto soggetto passivo sia debitore di diritti aeroportuali (l’imposta è dovuta, ad esempio, anche se il soggetto passivo sia lo stesso gestore autorizzato a fornire i servizi aeroportuali).
Quanto alla terza premessa, è qui sufficiente ricordare le conclusioni sopra raggiunte, esposte al punto 5.3., circa l’inesistenza di un divieto per la Regione Sardegna di istituire e disciplinare tributi propri aventi lo stesso presupposto di tributi statali.
Ne consegue che: a) non sussistono due diverse imposte, una statale (i diritti aeroportuali) ed una regionale (l’imposta sull’aeromobile), ma soltanto l’imposta regionale; b) il presupposto dell’imposta regionale (lo scalo nel territorio sardo) è diverso dal fatto costitutivo dell’obbligo di corrispondere i diritti aeroportuali (godimento dei servizi aeroportuali); c) in ogni caso, un tributo proprio stabilito dalla Regione Sardegna non sarebbe illegittimo per il solo fatto di avere un presupposto identico o simile a quello di un tributo statale. È appena il caso di sottolineare, infine, che – contrariamente a quanto affermato dal ricorrente – non possono sussistere dubbi sul fatto che il presupposto d’imposta (cioè l’effettuazione di uno scalo in un aerodromo sito nel territorio sardo nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno) costituisce idoneo indice di capacità contributiva dell’esercente dell’aeromobile.
8.1.4. – Con la censura sub c), il ricorrente deduce, infine, che la norma denunciata, con riguardo alle unità per la navigazione da diporto, víola gli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost., perché, essendo l’imposta regionale dovuta annualmente in misura fissa con riferimento a ciascuna classe di lunghezza delle unità da diporto, «l’effetto è che, piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l’onere dell’imposta che, in questo modo, viene ad avere carattere regressivo».
La censura non è fondata.
In base alla norma denunciata, l’imposta non è dovuta per le unità per la navigazione da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali (oltre che per quelle adibite all’esercizio di attività crocieristica e per quelle che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo), mentre è dovuta annualmente per le unità che effettuano scalo (nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno) nei porti, approdi o punti d’ormeggio ubicati nel territorio regionale, nella misura: a) di € 1.000,00 per le imbarcazioni di lunghezza compresa tra 14 e 15,99 metri; b) di € 2.000,00 per le imbarcazioni di lunghezza compresa tra 16 e 19,99 metri; c) di € 3.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 20 e 23,99 metri; d) di € 5.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 24 e 29,99 metri; e) di € 10.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 30 e 60 metri; f) di € 15.000,00 per le navi di lunghezza superiore a 60 metri; g) della metà degli importi precedenti per le unità a vela con motore ausiliario. Da tale disciplina emerge che il legislatore regionale, nel prevedere l’imposta in misura fissa (per classi di lunghezza dell’imbarcazione) e nell’esentare dall’imposta medesima le unità da diporto che sostino tutto l’anno nei porti sardi, ha evidentemente perseguito l’intento di favorire una piú intensa utilizzazione delle suddette strutture da parte delle imbarcazioni, ritenendo preferibile, da un punto di vista economico complessivo, incentivare fiscalmente uno stabile collegamento dei soggetti passivi con il territorio. Tale ratio non è arbitraria, né irragionevole.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 53, secondo comma, Cost., è sufficiente ricordare che questa Corte ha costantemente affermato che «i criteri di progressività» debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi (ex plurimis, sentenza n. 128 del 1966). Ne deriva che, contrariamente alla tesi sostenuta dal ricorrente, la denunciata imposta regionale sulle unità da diporto non víola il citato parametro costituzionale per il solo fatto che l’ammontare del tributo è «regressivo», nel senso che non aumenta né proporzionalmente né piú che proporzionalmente all’utilizzazione degli scali nautici sardi.
8.2. – L’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 (con effetto dal 31 maggio 2007, ai sensi dell’art. 37 di quest’ultima legge), istituisce, a decorrere dall’anno 2006, l’«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto», riproducendo sostanzialmente l’originaria formulazione della disposizione (punto 8.1.) ed apportando, per quanto qui interessa, le seguenti modifiche: a) il soggetto passivo dell’imposta (cioè l’esercente dell’aeromobile o dell’unità da diporto, avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale) non è piú indicato come una «persona o […] società», ma come una «persona fisica o giuridica»; b) l’esenzione dall’imposta è prevista anche per le imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a raduni di barche d’epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all’Autorità marittima da parte degli organizzatori; nonché per la sosta tecnica degli aeromobili e delle imbarcazioni, limitatamente al tempo necessario per l’effettuazione della stessa; c) l’esenzione non è piú prevista per le navi adibite all’esercizio di attività crocieristica; d) l’imposta è dovuta non per le sole unità da diporto, ma anche per le «unità utilizzate a scopo di diporto»; e) l’imposta è dovuta anche per lo scalo nei «campi d’ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna».
8.2.1. – Con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione impugnata con diversi gruppi di parametri costituzionali: a) con i parametri da esso già evocati in relazione ai denunciati artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti dall’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. n. 2 del 2007, per «quanto si già è visto trattando dei commi precedenti» (cioè dei commi 1 e 2 dell’art. 3 della citata legge reg. n. 2 del 2007); b) con gli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., perché l’imposta investirebbe la materia della concorrenza, riservata alla competenza legislativa statale, incidendo, di conseguenza, sull’unità economica della Repubblica; c) con «l’art. 3, la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza»; d) con gli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché l’imposta regionale, applicandosi anche nel caso di scalo delle unità da diporto nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale, violerebbe il principio secondo cui i presupposti delle imposte regionali non possono «essere individuati fuori del […] territorio» della Regione (limitato dall’art. 1 dello statuto alla «Sardegna con le sue isole»); e) con gli artt. 3 e 53 Cost., espressivi del principio di ragionevolezza, perché: e.1.) «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta»; e.2.) l’imposta avrebbe carattere regressivo, in quanto il suo ammontare diminuisce proporzionalmente all’aumentare del numero dei passeggeri che l’aeromobile è abilitato a trasportare e della lunghezza delle unità da diporto ed in quanto, con riferimento a queste ultime, è pagata una sola volta per tutto l’anno, cosí che «piú scali si fanno, meno sarà in proporzione l’onere tributario»; e.3.) il tributo, con riferimento allo scalo degli aeromobili, costituirebbe una duplicazione dei diritti aeroportuali previsti dalla legge n. 324 del 1976, dovuti, per l’utilizzazione degli impianti aeroportuali, al gestore dell’aeroporto; e.4.) il medesimo tributo, sempre con riferimento allo scalo degli aeromobili, «non può essere definito imposta, perché colpisce i singoli atti di esercizio di un’impresa e non il risultato utile complessivo», né tassa, «perché riscossa da chi non ha nessun coinvolgimento nel servizio utilizzato»; f) con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all’art. 49 del Trattato CE, perché introdurrebbe «una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici e aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo», sia all’art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», perché avrebbe l’effetto di falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune, sia all’art. 87 del Trattato CE, perché istituirebbe un aiuto alle imprese con sede in Sardegna. Afferma, inoltre, che «delle questioni comunitarie dovrebbe essere investita la Corte di Giustizia».
Gli indicati motivi di illegittimità costituzionale vanno esaminati separatamente, lasciando per ultimo, secondo un ordine di priorità logica, lo scrutinio della dedotta violazione di norme dell’ordinamento comunitario.
8.2.2. – Prima di passare all’esame delle singole censure, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla resistente.
La Regione Sardegna sostiene che, riguardo all’imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili e unità da diporto, i rilievi del ricorrente – per cui non sarebbe consentito fissare l’imposta anche per gli scali di unità da diporto nei campi di ormeggio situati nel mare territoriale perché il mare territoriale non farebbe parte del territorio regionale – sono inammissibili, in quanto non proposti dal Governo nella deliberazione del Consiglio dei ministri del 27 luglio 2007.
L’eccezione va rigettata, perché la deliberazione governativa di impugnazione contiene il riferimento a tutti i parametri evocati nel ricorso e ciò è sufficiente – come già osservato al punto 6.3. – ai fini dell’ammissibilità di quest’ultimo (sentenza n. 533 del 2002).
8.2.3. – Le censure indicate sub a) si sostanziano nel mero rinvio, privo di qualsiasi specificazione, a quelle sollevate con il medesimo ricorso n. 36 del 2007 in relazione agli artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti, rispettivamente, dal comma 1 e dal comma 2 dell’art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007.
Le censure sono inammissibili, perché sono state prospettate in modo generico, senza l’indicazione di alcun elemento idoneo a renderle pertinenti all’imposta denunciata. La questione, infatti, pur riguardando l’«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto», è sollevata con un richiamo alle questioni riguardanti tributi radicalmente diversi (cioè l’«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico» e l’«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico») ed in termini talmente vaghi da lasciare inadempiuto l’onere del ricorrente di precisare i motivi dell’affermata illegittimità costituzionale con specifiche argomentazioni a sostegno delle proprie doglianze, come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze n. 38 del 2007; n. 233 e n. 139 del 2006; n. 360 e n. 336 del 2005).
8.2.4. – Con la censura sub b), il ricorrente deduce che la norma denunciata, in quanto investirebbe la materia della concorrenza, si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., introdotto con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione nell’àmbito della nuova disciplina del riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario.
La censura è inammissibile, perché il ricorrente non fornisce alcuna motivazione in ordine all’individuazione di tale parametro costituzionale. La difesa erariale, infatti, non chiarisce per quale ragione la competenza legislativa attribuita dallo statuto regionale alla Regione autonoma Sardegna in materia di tributi propri dovrebbe essere limitata da una disposizione della Costituzione dettata per disciplinare il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario. Come è noto, il piú volte richiamato art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 stabilisce che la disciplina costituzionale riguardante tale riparto di competenze, introdotta con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, è applicabile alle Regioni a statuto speciale solo nel caso in cui preveda forme di autonomia piú ampie di quelle previste dallo statuto, mentre, nella specie, lo stesso ricorrente afferma che l’applicazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., comporterebbe una limitazione dell’autonomia legislativa della Regione Sardegna quale prevista dallo statuto. Inoltre il ricorrente, in violazione del suo onere di specificare le proprie censure, non fornisce alcuna motivazione di merito sul perché la denunciata normativa regionale, emanata in forza della competenza legislativa esclusiva della Regione autonoma in materia di tributi propri, investirebbe «la materia della concorrenza». L’evocazione dell’art. 120 Cost. è parimenti generica. Tale censura, infatti, non ha alcuna autonomia rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto il ricorrente si limita ad affermare – senza ulteriori precisazioni – che la norma censurata, investendo la «materia della concorrenza», incide «di conseguenza sulla unità economica della Repubblica».
8.2.5. – Deve essere dichiarata inammissibile anche la censura sub c), perché il ricorrente, da un lato, non precisa il parametro costituzionale evocato, indicando «l’art. 3» di un non meglio specificato testo normativo, e, dall’altro, prospetta i motivi di illegittimità costituzionale in modo oscuro e generico, limitandosi ad affermare la violazione del suddetto art. 3, «la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza».
8.2.6. – Con la censura sub d), il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, affermando che l’imposta regionale, applicandosi anche nel caso di scalo delle unità da diporto nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna, violerebbe il principio secondo cui i presupposti delle imposte regionali non possono «essere individuati fuori del […] territorio» della Regione (limitato dall’art. 1 dello statuto alla «Sardegna con le sue isole»). Il ricorrente muove, pertanto, dalla premessa che i suddetti campi di ormeggio, in quanto ubicati nel mare territoriale, rientrano nel demanio marittimo statale e da tale premessa trae la conseguenza che la Regione resistente non ha competenza “territoriale” a stabilire un’imposta regionale sullo scalo in detti campi di ormeggio (lo stesso ricorrente, peraltro, non estende le sue censure all’analogo caso dell’imposta regionale sullo scalo in porti della Sardegna facenti parte del demanio marittimo statale).
La censura non è fondata, perché, nonostante sia esatta la premessa da cui muove il ricorrente, tuttavia non è corretta la conseguenza che ne viene tratta.
È indubbio che i menzionati campi di ormeggio, ubicati nel mare territoriale (come delimitato dall’art. 2 del codice della navigazione), devono essere considerati, in forza degli artt. 28 e 29 cod. nav., pertinenze del demanio marittimo, e cioè beni rientranti nel demanio statale. Il demanio marittimo, infatti, non è stato trasferito alla Regione resistente, perché il primo comma dell’art. 14 dello statuto di autonomia espressamente esclude, con riferimento a tale demanio, che la Regione Sardegna succeda nei beni e diritti dello Stato. Tuttavia, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, il fatto che i menzionati campi di ormeggio rientrino nel demanio marittimo non comporta che la Regione sia incompetente a stabilire un’imposta regionale sullo scalo in detti campi di ormeggio. Infatti, questa Corte ha già precisato che, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale dell’esercizio dei poteri legislativi della Regione Sardegna nell’àmbito del mare territoriale, «non importa se il mare territoriale sia demanio marittimo o meno e neppure se si tratti di acque del mare territoriale o di acque del demanio marittimo», in quanto occorre solo verificare i limiti della potestà normativa della Regione, con la conseguenza che «neppure può dirsi che il mare territoriale sia una nozione rilevante […] per stabilire i limiti territoriali dell’efficacia della legge regionale»; e ciò perché, «anche se il mare territoriale non facesse parte del territorio della Regione a tutti gli effetti della competenza regionale, l’attribuzione alla Regione dei poteri legislativi ed amministrativi» in una determinata materia «importa che la disciplina regionale […] debba estendere la propria efficacia fino all’estremo margine dello spazio marittimo che circonda il territorio e sul quale, sia pure a titolo accessorio, si esercita il potere dello Stato» (sentenza n. 23 del 1957, in tema di competenza della Regione Sardegna in materia di pesca nel mare territoriale).
Il mare territoriale, nel quale sono ubicati i suddetti campi di ormeggio, viene pertanto in rilievo come mero àmbito spaziale in relazione al quale la legge regionale è legittimata a prevedere fattispecie ed effetti giuridici, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle attribuzioni legislative della Regione.
In generale, non v’è dubbio che la Regione Sardegna, in forza sia dello statuto e del decreto attuativo di cui al d.P.R. 24 novembre 1965, n. 1627, riguardante il demanio marittimo e il mare territoriale, sia delle norme con le quali si è disposto il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni in materia (articolo 105, comma 2, lettera l, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 e successive modificazioni), è legittimata ad esercitare un complesso di poteri sullo stesso mare territoriale, che coesistono con quelli spettanti allo Stato: poteri, quindi, che prescindono da ogni problema relativo all’appartenenza del mare territoriale e che sono suscettibili di essere regolati anche dalla legge regionale (come rilevato dalla citata sentenza n. 23 del 1957).
In particolare, non v’è parimenti dubbio che, con riferimento al mare territoriale, lo statuto di autonomia e i princípi del sistema tributario statale richiamati dall’art. 8, lettera h), dello statuto medesimo non pongono alcun limite alla potestà impositiva della Regione. Invero, tra i princípi del sistema tributario statale il ricorrente correttamente menziona quello della “territorialità” dei tributi locali. La difesa erariale vuole tuttavia accreditare, a tale fine, un’accezione ristretta del termine “territorio” (comprensiva solo della “terraferma” e delle “acque interne”), senza fornire alcuna adeguata giustificazione di tale sua opzione ermeneutica e limitandosi a richiamare il testo dell’art. 1, primo comma, dello statuto, secondo cui «La Sardegna con le sue isole è costituita in Regione autonoma […]». Al contrario, né la lettera, né la ratio di detta disposizione autorizzano la dedotta interpretazione restrittiva della sfera spaziale di efficacia delle leggi regionali. Non la lettera, perché il citato art. 1 non utilizza il termine “territorio”; non la ratio, perché la norma ha solo la funzione di costituire la Regione autonoma e non quella di determinare la sfera spaziale delle sue competenze legislative e amministrative. È invece evidente che, alla luce di quanto affermato da questa Corte con la richiamata sentenza n. 23 del 1957, il territorio non va inteso nella ristretta, materiale accezione fatta propria dal ricorrente, ma nell’accezione piú ampia di àmbito in cui si esplica il legittimo potere normativo della Regione, compreso quello di istituire tributi. Tale potere può esplicarsi, dunque, anche con riferimento al mare territoriale, a condizione che la Regione resistente lo eserciti per tutelare interessi di rilevanza regionale, come l’interesse a regolare l’afflusso turistico anche attraverso lo strumento fiscale.
La norma impugnata soddisfa pienamente tale condizione, perché individua quale presupposto di imposta lo scalo in campi di ormeggio «ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna», e cioè in luoghi attrezzati che, pur non essendo materialmente e stabilmente connessi con la terraferma, tuttavia consentono di collegare il presupposto medesimo con la realtà turistico-ambientale regionale. Nella specie, questo collegamento è dato dal fatto che i menzionati campi di ormeggio, consentendo gli scali nel periodo di maggiore afflusso turistico da parte di imbarcazioni aventi una spiccata utilizzazione turistica (unità «da diporto» o comunque «utilizzate a scopo di diporto»), non solo rendono possibile l’immediata fruizione di beni turistico-ambientali, ma rappresentano anche la base per l’accesso di persone fisiche nelle isole sarde, con la conseguenza che la norma censurata, in quanto diretta a perseguire interessi tipicamente regionali e come tali espressamente valorizzati dallo statuto di autonomia, non è in contrasto con l’evocato parametro costituzionale.
8.2.7. – Con la censura sub e), il ricorrente denuncia, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., la violazione, sotto quattro profili, del principio di ragionevolezza.
Nessuno dei suddetti rilievi è fondato.
8.2.7.1. – Quanto al primo rilievo – secondo cui «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta» –, deve rilevarsi (come già osservato al punto 8.1.3.) che l’effettuazione dello scalo nel periodo di maggior afflusso turistico costituisce un indice adeguato della capacità contributiva dei soggetti passivi dell’imposta, non arbitrariamente prescelto dal legislatore. In particolare, l’applicazione dell’imposta a chi effettua lo scalo in quel periodo evidenzia che la norma ha, tra le sue rationes, quella di incentivare lo scalo negli altri periodi dell’anno, al fine di consentire una sostenibile distribuzione degli afflussi turistici (o, comunque, prevalentemente turistici) nel territorio sardo. Tale ratio si aggiunge a quella, primaria, di far partecipare i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna – che, differentemente dai soggetti fiscalmente domiciliati nella Regione, non pagano nella stessa Regione la maggior parte delle imposte, tasse e contributi erariali, regionali e locali – ai costi pubblici determinati dalla fruizione turistica del patrimonio ambientale-naturale e di quello storico-artistico (in ciò presentando un tratto comune con l’imposta regionale sul soggiorno, che sarà esaminata in séguito, in quanto oggetto di apposita censura).
8.2.7.2. – Quanto al secondo rilievo, concernente l’asserita regressività dell’imposta sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto, va ribadito che tale caratteristica è di per sé irrilevante ai fini della dedotta illegittimità costituzionale della norma denunciata. Come già osservato a proposito del primo ricorso (punto 8.1.4.), deve essere ricordato che, ai sensi dell’art. 53, secondo comma, Cost., «i criteri di progressività» debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi.
In particolare, in base alla norma censurata, l’imposta non è dovuta per le unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali, mentre è dovuta annualmente per lo scalo delle unità da diporto o comunque utilizzate a scopo di diporto (nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno), nella stessa misura fissata, per classi di lunghezza delle unità, dalla originaria formulazione dell’articolo (nel nuovo testo della disposizione si precisa che l’importo dovuto per i motorsailer è quello previsto per la particolare categoria delle unità a vela con motore ausiliario).
Come sopra sottolineato a proposito del primo ricorso (punto 8.1.4.), da tale disciplina emerge che il legislatore regionale ha evidentemente perseguito l’intento di favorire una piú intensa utilizzazione delle strutture portuali da parte delle imbarcazioni, ritenendo preferibile, da un punto di vista economico complessivo, incentivare fiscalmente uno stabile collegamento dei soggetti passivi con il territorio. Una tale ratio posta a fondamento della commisurazione del tributo non supera i limiti della non arbitrarietà e della ragionevolezza che la Regione resistente deve rispettare nell’esercizio della sua discrezionalità legislativa.
Analoghe considerazioni valgono per l’imposta sullo scalo turistico degli aeromobili, dovuta per gli aeromobili dell’aviazione generale adibiti al trasporto privato di persone, per ogni scalo effettuato negli aerodromi del territorio regionale nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno (esclusi i casi di sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l’effettuazione della stessa), nella misura: a) di € 150,00 per gli aeromobili abilitati fino al trasporto di quattro passeggeri; b) di € 400,00 per gli aeromobili abilitati al trasporto da cinque a dodici passeggeri; c) di € 1.000,00 per gli aeromobili abilitati al trasporto di oltre dodici passeggeri. Da tale disciplina emerge che il legislatore regionale, nel prevedere l’imposta in misura meno che proporzionale al numero dei passeggeri trasportabili, ha tendenzialmente inteso favorire, dal punto di vista fiscale, un minor afflusso di aeromobili a parità di passeggeri trasportati e, quindi, il decongestionamento del traffico aereo nel periodo tra il 1° giugno ed il 30 settembre. Una siffatta ratio non appare né arbitraria né irragionevole e, pertanto, la norma impugnata è esente dalle censure prospettate.
8.2.7.3. – Quanto al terzo rilievo, secondo cui l’imposta sullo scalo degli aeromobili costituirebbe una duplicazione dei diritti aeroportuali, data l’identità della questione, valgono anche qui le conclusioni già raggiunte in occasione dell’esame del primo ricorso (punto 8.1.4.) circa l’insussistenza della dedotta “duplicazione d’imposta”.
8.2.7.4. – Il quarto rilievo viene riferito dal ricorrente esclusivamente all’imposta sullo scalo degli aeromobili ed è basato sulla considerazione che detto prelievo sarebbe irragionevole, perché non definibile né come imposta né come tassa.
Neppure tale argomentazione è fondata. Il prelievo previsto dalla norma censurata, infatti, ha natura non di tassa (in quanto, come sopra sottolineato, non è collegato alla fruizione di servizi aeroportuali), ma di imposta, perché costituisce un prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva (cioè l’effettuazione di uno scalo in un aerodromo, nell’àmbito di un «trasporto privato di persone»).
Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che il prelievo censurato non costituirebbe un’imposta in quanto inciderebbe «sui singoli atti di esercizio di un’impresa e non sul risultato utile complessivo». Il tributo in esame, infatti, non costituisce un’imposta sul reddito d’impresa, per la quale soltanto potrebbe porsi un problema di valutazione del «risultato utile complessivo», come si esprime il ricorrente.
Inoltre, il tributo denunciato non presuppone necessariamente – come erroneamente ritiene il ricorrente – l’esercizio di un’attività di impresa di trasporti aerei. A tale ultima conclusione si giunge attraverso la ricostruzione del complesso quadro normativo in cui si inserisce la norma censurata, secondo la quale l’imposta si applica con riferimento agli «aeromobili dell’aviazione generale di cui all’articolo 743 e seguenti del codice della navigazione adibiti al trasporto privato di persone». In realtà, detti articoli del codice della navigazione, nel testo vigente al momento dell’entrata in vigore della disposizione denunciata, non fanno menzione né dell’«aviazione generale» né della distinzione degli «aeromobili privati» in tre categorie: a) «aeromobili da trasporto pubblico destinati a trasportare persone o cose mediante compenso di qualsiasi natura, ovvero anche senza compenso, se il trasporto è effettuato da una impresa di trasporti aerei»; b) «aeromobili da lavoro aereo, destinati a scopi industriali e commerciali o ad altra utilizzazione con compenso, che non siano di trasporto di persone o cose»; c) «aeromobili da turismo, destinati a scopo diverso da quelli indicati nei commi precedenti e senza compenso»; distinzione prevista solo dal previgente testo dell’art. 747 cod. nav. – anteriore, cioè, alla sua abrogazione ad opera dell’art. 5 del decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96 – e ripetuta quasi letteralmente dall’art. 137 del Regolamento per la navigazione aerea, approvato con regio decreto 11 gennaio 1925, n. 356, come modificato dall’art. 8 degli emendamenti approvati con regio decreto 15 aprile 1938, n. 1350. Il terzo comma dell’art. 743 cod. nav. statuisce invece, nella formulazione vigente, che «Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall’ENAC con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». Al corretto significato della norma censurata si perviene, perciò, solo attraverso l’esame di tali regolamenti. In particolare, l’art. 1 del regolamento dell’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC) del 30 giugno 2003 (denominato «Operazioni Ogni Tempo nello Spazio Aereo Nazionale») definisce le seguenti operazioni secondo l’impiego dell’aeromobile: a) «operazioni di trasporto aereo commerciale»: quelle che «comportano il trasporto di passeggeri, merci e posta dietro compenso» (art. 1.1.); b) «operazioni di lavoro aereo»: quelle effettuate da un «aeromobile utilizzato per attività specialistiche quali ad esempio aerofotografia, pubblicità aerea, sorveglianza ed osservazioni, spargimento sostanze, trasporto carichi esterni, ecc.)» (art. 1.2.); c) «operazioni dell’aviazione generale»: quelle «diverse dal trasporto aereo commerciale e dal lavoro aereo» (art. 1.3.). Analogamente, il regolamento del 21 ottobre 2003 (denominato «Regolamento per la costruzione e l’esercizio degli aeroporti») definisce: a) «trasporto aereo commerciale», il «traffico effettuato per trasportare persone o cose dietro remunerazione. Esso comprende quindi il trasporto aereo di linea, charter e aerotaxi»; b) «trasporto aereo non commerciale o di aviazione generale», il «traffico diverso dal trasporto aereo commerciale; esso comprende sostanzialmente l’attività degli aeroclub, delle scuole di volo, dei piccoli aerei privati ed i servizi di lavoro aereo».
In base a tale ricostruzione del quadro normativo, il «trasporto aereo privato di persone», da parte di aeromobili dell’aviazione generale, menzionato dalla norma censurata è solo quello effettuato con un aeromobile mediante operazioni di «aviazione generale», cioè mediante operazioni prestate senza compenso e diverse dal «lavoro aereo». Costituisce, perciò, «trasporto aereo privato di persone», soggetto all’imposta regionale, anche il trasporto effettuato senza compenso da un’impresa di trasporti aerei, che (come sopra ricordato) l’abrogato testo dell’art. 747 cod. nav. riconduceva, invece, al «trasporto pubblico». Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’applicazione della denunciata imposta regionale non presuppone mai l’esercizio dell’attività di impresa di trasporti, salvo che nella sopra indicata eccezionale ipotesi di trasporto effettuato senza compenso da parte di una impresa di trasporti aerei, rientrante nel piú generale caso, previsto dalla normativa comunitaria, di “aviazione generale di affari” (infra punto 8.2.8.4.).
8.2.8. – Infine, con la censura sub f), il ricorrente prospetta, con riferimento ai soggetti che esercitano attività d’impresa, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al Trattato CE, con riguardo agli artt. 49 (posto a tutela della libera prestazione dei servizi), 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10» (posti a tutela della concorrenza), 87 (riguardante il divieto di aiuti di Stato) e richiede, al riguardo, che sia effettuato il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234 del Trattato CE. Tale prospettazione impone di affrontare preliminarmente i seguenti problemi: 1) se sia ammissibile la censura con la quale si evocano, per il tramite del primo comma dell’art. 117 Cost., norme comunitarie come elementi integrativi del parametro di costituzionalità; 2) quali siano i limiti entro cui le norme comunitarie possono essere prese in considerazione da questa Corte come elemento integrativo del parametro in sede di giudizio di costituzionalità promosso in via principale; 3) se sussistano le condizioni perché questa Corte sollevi questione interpretativa pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE. Solo dopo la risoluzione di tali problemi, potrà procedersi allo scrutinio della non manifesta infondatezza e della rilevanza di detta questione pregiudiziale.
8.2.8.1. – Come piú volte affermato da questa Corte, l’art. 11 Cost., prevedendo che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 349 e n. 284 del 2007; n. 170 del 1984). Il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – nel disporre che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario […]» –, ha ribadito che i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario si impongono al legislatore nazionale (statale, regionale e delle Province autonome). Da tale quadro normativo costituzionale consegue che, con la ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme comunitarie vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei princípi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007, n. 170 del 1984).
Con specifico riguardo al caso, che qui interessa, di leggi regionali della cui compatibilità con il diritto comunitario (come interpretato e applicato dalle istituzioni e dagli organi comunitari) si dubita, va rilevato che l’inserimento dell’Italia nell’ordinamento comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale. Nel primo caso, le norme comunitarie, se hanno efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le leggi nazionali (comprese quelle regionali), ove le ritenga non compatibili. Nel secondo caso, le medesime norme «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost.» (sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004), o, piú precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario.
Questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi.
Davanti al giudice comune la legge regionale deve essere applicata ad un caso concreto e la valutazione della sua conformità all’ordinamento comunitario deve essere da tale giudice preliminarmente effettuata al fine di procedere all’eventuale disapplicazione della suddetta legge, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE – ove necessario – per l’interpretazione del diritto comunitario. Una volta esclusa tale disapplicazione, il giudice potrà bensí adire la Corte costituzionale, ma solo per motivi di non conformità del diritto interno all’ordinamento costituzionale e non per motivi di non conformità all’ordinamento comunitario. Ne consegue che, ove il giudice comune dubitasse della conformità della legge nazionale al diritto comunitario, il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE renderebbe non rilevante e, pertanto, inammissibile la questione di legittimità costituzionale da lui sollevata.
Davanti alla Corte costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione della conformità della legge regionale alle norme comunitarie si risolve, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale; con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma – come già osservato – ne dichiara l’illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes (ex multis, sentenza n. 94 del 1995).
In conclusione, alla luce di quanto sopra rilevato, la censura in esame deve ritenersi ammissibile, perché le norme comunitarie sono state correttamente evocate dal ricorrente nel presente giudizio, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di costituzionalità.
8.2.8.2. – Quanto ai limiti entro cui dette norme possono essere prese in considerazione come elemento integrativo del parametro in sede di giudizio di costituzionalità promosso in via principale, va osservato che questa Corte non può esaminare violazioni diverse da quelle denunciate dal ricorrente, riguardanti gli artt. 49, 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», e 87 del Trattato CE.
Secondo l’interpretazione costantemente data da questa Corte al combinato disposto degli artt. 23, 27 e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (per cui, anche nei giudizi in via principale, la Corte costituzionale dichiara quali sono le disposizioni legislative illegittime, nei limiti dei parametri costituzionali e dei motivi di censura indicati nell’atto introduttivo del giudizio), il giudizio di legittimità costituzionale ha la peculiare caratteristica di essere vincolato al thema decidendum posto dall’atto introduttivo, in ordine all’oggetto, al parametro e ai motivi di censura. Questa Corte, in particolare, non ha il potere di dichiarare che la norma censurata è illegittima per la violazione di parametri costituzionali diversi da quelli indicati nell’atto introduttivo. Può, invece, prendere in considerazione norme costituzionali non evocate a parametro solo ove in esse rinvenga il fondamento giustificativo della norma censurata. Tale limitazione del principio iura novit curia (il quale è applicabile in misura ben piú ampia nei giudizi comuni) opera anche per le disposizioni integrative del parametro costituzionale evocate a sostegno dell’illegittimità della norma denunciata e, quindi, anche nel caso di specie, in cui viene dedotta la violazione dei suddetti articoli del Trattato CE, in relazione al primo comma dell’art. 117 Cost.
8.2.8.3. – Poste tali premesse, occorre ora verificare se sussistano le condizioni perché questa Corte, al pari del giudice comune, possa sollevare davanti alla Corte di giustizia CE – nel caso in cui la questione di conformità alla normativa comunitaria non sia manifestamente infondata – questione pregiudiziale sull’interpretazione del diritto comunitario ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE (secondo il quale, «La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull’interpretazione del presente trattato […]. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia»).
La risposta, al riguardo, è positiva, perché questa Corte, pur nella sua peculiare posizione di organo di garanzia costituzionale, ha natura di giudice e, in particolare, di giudice di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione: art. 137, terzo comma, Cost.). Essa pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, è legittimata a proporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE.
Tale conclusione è confermata dalle seguenti considerazioni.
In primo luogo, la nozione di «giurisdizione nazionale» rilevante ai fini dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale deve essere desunta dall’ordinamento comunitario e non dalla qualificazione “interna” dell’organo rimettente. Non v’è dubbio che la Corte costituzionale italiana possiede requisiti individuati a tal fine dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE per attribuire tale qualificazione.
In secondo luogo, nell’àmbito dei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale, questa Corte è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi in ordine al loro oggetto, in quanto – come già sopra osservato – manca un giudice a quo abilitato a definire la controversia, e cioè ad applicare o a disapplicare direttamente la norma interna non conforme al diritto comunitario. Pertanto, non ammettere in tali giudizi il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234 del Trattato CE comporterebbe un’inaccettabile lesione del generale interesse all’uniforme applicazione del diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE.
8.2.8.4. – Quanto alle violazioni del diritto comunitario denunciate dal ricorrente, questa Corte ritiene opportuno sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, esclusivamente con riguardo alle violazioni degli artt. 49 e 87 del Trattato CE, riservando al prosieguo del giudizio ogni decisione sulla violazione dell’art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», anche in relazione alla pertinenza di tale combinato disposto con la norma censurata.
Venendo ora all’esame della non manifesta infondatezza delle suddette questioni pregiudiziali di interpretazione delle norme comunitarie evocate, riguardanti l’applicazione dell’imposta sullo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto, va premesso che, in base alla disposizione censurata, tale imposta si applica: a) alle imprese esercenti unità da diporto (o, comunque, utilizzate a scopo di diporto) non fiscalmente domiciliate in Sardegna, e, in particolare, alle imprese la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere dette unità a disposizione di terzi; b) alle imprese esercenti «aeromobili dell’aviazione generale […] adibiti al trasporto privato di persone», cioè alle imprese che effettuano operazioni di trasporto aereo (diverse dal «lavoro aereo»), senza compenso, e, quindi, nell’àmbito della cosiddetta “aviazione generale di affari”, definita dall’art. 2, lettera l), del Regolamento (CEE) n. 95/93 del Consiglio, del 18 gennaio 1993 (Norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità), come attività di aviazione generale effettuata dall’esercente con trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività di impresa (il quadro normativo concernente gli aeromobili dell’aviazione generale è ricostruito supra, al punto 8.2.7.4.).
Riguardo a tali imprese, non può escludersi che il loro assoggettamento a tassazione nel solo caso in cui non abbiano domicilio fiscale in Sardegna crei una discriminazione e un conseguente aggravio di costi rispetto a quelle che, pur svolgendo la stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di avere domicilio fiscale in Sardegna. In entrambi i casi – e cioè, con riferimento tanto all’ampio mercato dell’utilizzazione commerciale delle unità da diporto, quanto al piú ristretto mercato delle imprese che effettuano direttamente trasporti aerei aziendali di persone senza remunerazione – può ipotizzarsi, infatti, che l’applicazione della censurata imposta regionale di scalo dia luogo a un aggravio selettivo del costo dei servizi resi dalle imprese “non residenti”, che assume rilevanza per l’ordinamento comunitario sia come restrizione alla libera prestazione dei servizi (art. 49 del Trattato CE), sia come aiuto di Stato alle imprese con domicilio fiscale in Sardegna (art. 87 del Trattato CE), con effetti discriminatori e distorsivi della concorrenza.
Avverso tale conclusione potrebbero invero addursi le stesse ragioni che, secondo questa Corte (punto 8.2.7.1.), giustificano l’applicazione dell’imposta sullo scalo solo ai soggetti non imprenditori non aventi domicilio fiscale in Sardegna (ragioni che, come si vedrà in séguito al punto 9.1.2., valgono anche per l’imposta di soggiorno). Potrebbe, cioè, opporsi che la tassazione delle sole imprese “non residenti” è giustificata, sul piano della politica economico-fiscale della Regione, dal fatto che dette imprese, nell’effettuare lo scalo, fruiscono dei servizi pubblici regionali e locali, ma non concorrono – a differenza delle imprese “residenti” – al loro finanziamento con il pagamento dei già esistenti tributi. Questa giustificazione del prelievo regionale sarebbe rafforzata, secondo la difesa della Regione, da quella fondata sulla necessità di compensare, attraverso la tassazione delle imprese fiscalmente non domiciliate in Sardegna, i maggiori costi sostenuti dalle imprese ivi domiciliate, in ragione delle peculiarità geografiche ed economiche legate al carattere insulare della Regione.
Le due suddette giustificazioni traggono peraltro il loro fondamento da circostanze attinenti alla sostenibilità dello sviluppo turistico regionale e dall’esigenza di riequilibrare la situazione economica dei soggetti “non residenti” rispetto a quella dei soggetti “residenti”. Esse, quindi, non tengono conto del fatto che l’insularità non appare, di per sé, un elemento idoneo a incrementare i costi sostenuti dalle imprese con riferimento allo scalo turistico e, soprattutto, del fatto che, nel caso in cui il soggetto passivo del tributo sia un imprenditore, la circostanza di farlo partecipare – in quanto non avente domicilio fiscale in Sardegna – ai costi aggiuntivi determinati dal turismo potrebbe non essere sufficiente a rendere inoperante, nella specie, il principio comunitario di non discriminazione e, conseguentemente, inapplicabili le connesse disposizioni del Trattato CE sulla libertà di prestazione di servizi e sul divieto di aiuti di Stato.
Tale principio è, infatti, di generale applicazione nell’ordinamento interno e fornisce una tutela delle imprese “non residenti” – sotto il profilo della concorrenza e delle libertà economiche fondamentali –, la cui delimitazione è rimessa non a regole di diritto interno, ma al diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE anche con riferimento ad “enti infrastatali” che, come la Regione resistente, sono dotati di autonomia statutaria, normativa e finanziaria (Corte di giustizia, sentenza 6 settembre 2006, C-88/03, Repubblica portoghese c. Commissione).
In questa materia vi è un’incertezza interpretativa che richiede l’intervento della Corte di giustizia CE, come risulta evidente dall’esame della giurisprudenza di tale Corte. Essa si è in piú occasioni occupata di fattispecie analoghe alla denunciata imposta di scalo e ha affermato che sussiste una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel caso in cui una determinata misura renda le prestazioni transfrontaliere piú onerose delle prestazioni nazionali comparabili (sentenze 11 gennaio 2007, C-269/05, Commissione c. Repubblica ellenica; 6 febbraio 2003, C-92/01, Stylianakis; 26 giugno 2001, C-70/99, Commissione c. Portogallo). Quei casi avevano, però, ad oggetto tasse che discriminavano tra voli nazionali e voli internazionali o tra voli aventi percorrenza superiore e inferiore ad una determinata distanza o, ancora, tra trasporti infranazionali e internazionali. Non veniva dunque in rilievo una possibile discriminazione – pur astrattamente rilevante per il diritto comunitario – tra imprese aventi o no domicilio fiscale in una regione di uno Stato membro.
Per quanto attiene, poi, alla dedotta violazione dell’art. 87 del Trattato CE, si pone anche il problema se il vantaggio economico concorrenziale derivante alle suddette imprese “residenti” in Sardegna dal loro non assoggettamento all’imposta regionale sullo scalo rientri nella nozione di aiuto di Stato, considerato che detto vantaggio deriva non dalla concessione di un’agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo da esse sopportato rispetto alle imprese “non residenti” (analogamente alla fattispecie, per alcuni versi simile, esaminata dalla Corte di giustizia CE con la sentenza del 22 novembre 2001, C-53/00, Ferring SA). In proposito è appena il caso di sottolineare che il suddetto problema interpretativo prescinde, ovviamente, dalla valutazione della compatibilità della misura di aiuto con il mercato comune, spettante alla competenza esclusiva della Commissione CE, che agisce sotto il controllo dei giudici comunitari.
Sussiste, pertanto, un dubbio circa la corretta interpretazione – tra quelle possibili – delle evocate disposizioni comunitarie, tale da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, perché questa accerti: a) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da loro stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di “aviazione generale d’affari” (cioè trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività d’impresa); b) se la norma censurata, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se la norma censurata, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna.
Il rinvio pregiudiziale in ordine a tali questioni, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, appare altresí opportuno al fine di evitare il pericolo di contrasti ermeneutici tra la giurisdizione comunitaria e quella costituzionale nazionale, che non giovano alla certezza e all’uniforme applicazione del diritto comunitario.
8.2.8.5. – Le suddette questioni pregiudiziali sono, inoltre, rilevanti, perché: a) l’interpretazione richiesta alla Corte di giustizia è necessaria per pronunciare la sentenza di questa Corte, in quanto le questioni sono ricomprese nell’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale proposto in via principale; b) la fondatezza dei profili di illegittimità costituzionale dedotti dal ricorrente con riguardo a questioni diverse da quelle oggetto del rinvio pregiudiziale è stata già esclusa da questa Corte per le ragioni esposte ai punti da 8.2.3. a 8.2.7. e, quindi, la legittimità costituzionale della norma censurata non può essere scrutinata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., senza che si proceda alla valutazione della sua conformità al diritto comunitario. Come già disposto al punto 8.2.8.4., va riservata al prosieguo del giudizio ogni decisione sulla violazione dell’art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10».
8.2.8.6. – Al fine dell’indicata rimessione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, è opportuno separare, nell’àmbito del giudizio introdotto con il ricorso n. 36 del 2007, il giudizio concernente la questione riguardante l’«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto» – disciplinata dall’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 – e relativa all’assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili o unità da diporto. Il giudizio avente ad oggetto la questione cosí delimitata e separata va sospeso in forza dell’art. 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, sino alla definizione delle questioni interpretative pregiudiziali rimesse, con la separata ordinanza n. 103 del 2008, alla Corte di giustizia CE.
9. – Occorre ora procedere all’esame delle questioni concernenti l’art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007 sollevate con il secondo ricorso (n. 36 del 2007). La disposizione censurata istituisce l’imposta regionale di soggiorno, da destinare ad interventi nel settore del turismo sostenibile, che i Comuni hanno la facoltà di applicare, nell’àmbito del proprio territorio a decorrere dall’anno 2008 a coloro che non risultano iscritti nell’anagrafe della popolazione residente nei Comuni della Sardegna, per il soggiorno nel periodo dal 15 giugno al 15 settembre, nelle aziende ricettive di cui alla legge regionale 14 maggio 1984, n. 22 (Norme per la classificazione delle aziende ricettive), nelle strutture ricettive extra-alberghiere di cui alla legge regionale 12 agosto 1998, n. 27 (Disciplina delle strutture ricettive extra-alberghiere), nelle strutture ricettive di cui alla legge regionale 23 giugno 1998, n. 18 (Nuove norme per l’esercizio dell’agriturismo), nelle unità immobiliari adibite ad abitazioni principali, cosí come definite dall’articolo 8, comma 2, del decreto legislativo n. 504 del 1992, concesse in comodato o in locazione, nelle unità immobiliari non adibite ad abitazioni principali (con l’esclusione, per queste ultime, del proprietario, del coniuge, degli affini e dei parenti in linea retta, dei collaterali fino al terzo grado, e degli ospiti che soggiornano unitamente ad almeno uno dei componenti la famiglia del proprietario), con l’esenzione dall’imposta dei lavoratori dipendenti che soggiornano per ragioni di servizio attestate dal datore di lavoro, degli studenti che soggiornano per ragioni di studio o per periodi di formazione professionale attestati dalle rispettive università, scuole od enti di formazione, dei minori di diciotto anni, dei lavoratori autonomi che soggiornano per ragioni di lavoro documentabili. L’imposta si applica, per persona e per ogni giornata di soggiorno, nella modesta misura di un euro o, per i soggiorni negli alberghi a quattro stelle e superiori, di due euro.
9.1. – In particolare, il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione censurata con tre diversi parametri costituzionali: a) con l’art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché la Regione avrebbe violato il divieto per le Regioni di istituire imposte comunali, costituente un principio del sistema tributario dello Stato; ovvero, alternativamente, con l’art. 119 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la Regione non può stabilire un’imposta comunale senza lasciare ai Comuni nessun margine di autonomia se non la scelta se istituire o no l’imposta; b) con l’art. 3 Cost., perché sarebbe irragionevole non assoggettare ad imposta i residenti in Sardegna, pur avendo, rispetto ai non residenti, una «posizione […] identica se rapportata al presupposto dell’imposta»; c) con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all’art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell’Unione europea subirebbero una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, sia all’art. 49 dello stesso Trattato, perché «la libertà di prestazione dei servizi all’interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri». Tali censure vanno esaminate separatamente.
9.1.1. – Quanto alla censura sub a), va in via preliminare rilevato che deve essere scrutinata esclusivamente la denunciata violazione dello statuto regionale, perché – come già chiarito al punto 5.3. – la normativa risultante dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede una forma di autonomia piú ampia di quella dello statuto della Regione Sardegna e pertanto, ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, trova applicazione soltanto lo statuto.
Nel merito, la censura non è fondata.
Riguardo alla asserita esistenza, nel sistema tributario dello Stato, del principio secondo cui è vietato alla Regione di istituire imposte comunali, va rilevato che tale principio non sussiste. In base allo statuto di autonomia è, infatti, attribuita alla Regione la potestà legislativa di disciplinare tributi propri, sempre che sia assicurata l’«armonia» di tali tributi con i princípi del sistema tributario dello Stato. Nell’àmbito di detta potestà la Regione può discrezionalmente modulare l’autonomia tributaria dei Comuni e, quindi, può anche limitarsi a rimettere ad essi la sola decisione di istituire o no i suddetti tributi. Del resto, la piena discrezionalità della Regione nel fissare la misura di autonomia – piú o meno ampia – che intende riservare al potere regolamentare tributario degli enti sub-regionali giustifica che nella specie sia stata lasciata all’autonomia dei Comuni la sola scelta se istituire o no un’imposta interamente disciplinata dalla legge regionale, senza giungere ad attribuire loro l’ulteriore potere di determinare l’aliquota del tributo entro i limiti minimo e massimo fissati dalla legge stessa (come avviene, invece, per la maggior parte dei tributi locali). Anche sotto l’aspetto meramente letterale, va poi osservato che l’articolo denunciato definisce espressamente, al comma 1, l’imposta di soggiorno come «regionale» (e non “comunale”, come sostenuto dalla difesa erariale). E precisa, al comma 18, che il gettito dell’imposta riscosso da ciascun Comune è attribuito alla Regione per il 50 per cento, «ai fini dell’istituzione di un fondo di riequilibrio e solidarietà, destinato agli investimenti nel settore turistico delle aree interne», e solo per il restante 50 per cento al Comune, che dovrà destinarlo, ai sensi del citato comma 1, «ad interventi nel settore del turismo sostenibile con particolare riguardo al miglioramento dei servizi rivolti ai turisti e alla fruizione della risorsa ambientale».
9.1.2. – Il ricorrente deduce, con la censura sub b), la violazione dell’art. 3 Cost., affermando che la norma denunciata sarebbe irragionevole perché non assoggetta ad imposta i residenti in Sardegna, pur avendo questi, rispetto ai non residenti, una «posizione […] identica se rapportata al presupposto dell’imposta».
Anche tale censura non è fondata, perché il ricorrente erroneamente ritiene che la situazione dei soggetti residenti in Sardegna sia omogenea rispetto a quella dei non residenti.
Il presupposto della denunciata imposta regionale è individuato dalla legge nel soggiorno, da parte di soggetti non iscritti nell’anagrafe della popolazione residente nei comuni della Sardegna (con alcune esenzioni), nelle aziende o strutture ricettive o unità immobiliari specificate dalla stessa legge, nel periodo compreso tra il 15 giugno ed il 15 settembre di ogni anno a partire dal 2008. I suddetti soggetti passivi, proprio per effetto del soggiorno, necessariamente fruiscono sia di servizi pubblici locali e regionali, sia del patrimonio culturale e ambientale sardo, senza concorrere al finanziamento dei primi e alla tutela del secondo a mezzo di tributi. I soggetti residenti in Sardegna, invece, già concorrono, nella generalità dei casi, alle spese pubbliche connesse a tali servizi e beni mediante la corresponsione di svariati tributi e contributi, che entrano a vario titolo nel bilancio della Regione ai fini della valorizzazione dell’ambiente e dell’ottimizzazione del governo del territorio regionale (si pensi, ad esempio, alle quote dei tributi erariali connessi al territorio regionale riservate alla Regione Sardegna dall’art. 8 dello statuto).
Appare, quindi, corretto – sotto il profilo fiscale – distinguere tali soggetti da quelli non residenti in Sardegna, perché questi ultimi, diversamente dai residenti, non solo non sopportano alcun prelievo il cui gettito sia specificamente diretto ai suddetti fini, ma, con il loro soggiorno nella Regione in coincidenza con il periodo di maggior afflusso turistico, causano costi pubblici aggiuntivi rispetto a quelli programmabili dalla Regione in base al gettito delle imposte già corrisposte dai soggetti residenti. I soggiornanti non residenti, perciò, incidono anche sulla complessiva sostenibilità del fenomeno turistico nell’isola (v., al punto 8.2.8.5., l’analoga ratio della previsione dell’imposta sullo scalo a carico dei soli soggetti non aventi domicilio fiscale in Sardegna). Il legislatore regionale, pertanto, nel porre l’imposta di soggiorno, in una misura non sproporzionata, a carico solo dei soggetti non residenti in Sardegna, tratta diversamente e in modo adeguato situazioni giuridiche diverse e, quindi, non supera i limiti della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Né tale ragionevolezza può essere messa in dubbio dalla considerazione – fatta propria dal ricorrente – che l’attribuzione a ciascun Comune del potere di «applicare», accertare, liquidare e riscuotere l’imposta di soggiorno «nell’àmbito del proprio territorio» imporrebbe l’assoggettamento a detta imposta anche dei soggiornanti residenti in altro Comune della Sardegna. Al contrario, la rilevata natura regionale del tributo comporta che questo, ancorché applicato dai Comuni nell’àmbito dell’autonomia ad essi attribuita dalla legge regionale, deve essere pagato solo da quei soggetti che, non essendo residenti nella Regione, non contribuiscono – come già osservato – al finanziamento delle indicate spese pubbliche connesse ai servizi e beni culturali e ambientali sardi; e, simmetricamente, non deve essere pagato da coloro che, essendo residenti nella Regione, hanno già contribuito a tale finanziamento.
Al riguardo, va sottolineato che, coerentemente con la sua natura regionale, l’imposta ha, come si è visto, lo scopo di finanziare il complesso delle spese connesse alla tutela dell’ambiente ed alla promozione del turismo sostenibile nell’intera Regione, con gli opportuni aggiustamenti compensativi tra le varie zone. Ne deriva che il legislatore regionale non irragionevolmente valuta l’intera Regione Sardegna come un’unica – anche se non omogenea – area culturale ed ambientale, come tale complessivamente valorizzata dal bilancio regionale, cosí da giustificare un prelievo fiscale a carico soltanto dei soggiornanti non residenti nell’isola.
9.1.3. – Il ricorrente deduce, infine (con le censure sub c), la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all’art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell’Unione subirebbero una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, sia all’art. 49 dello stesso Trattato, perché «la libertà di prestazione dei servizi all’interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri».
Le censure non sono fondate.
Al riguardo, va preliminarmente osservato che non sussiste una specifica normativa comunitaria in materia di imposte di soggiorno. Tali imposte sono o sono state previste dalla legislazione di vari Stati dell’Unione europea, ad esempio: la Kurtaxe tedesca; la taxe de séjour francese; l’impuesto sobre las estancias en empresas turísticas de alojamiento già vigente nella Comunità autonoma delle Isole Baleari; l’impôt sur les chambres d’hôtels et de pensions a Bruxelles; l’imposta di soggiorno di cui alla legge del Trentino Alto-Adige 29 agosto 1976, n. 10, ancora parzialmente applicabile nella Provincia autonoma di Bolzano; l’imposta di soggiorno già prevista in Italia con il decreto-legge 24 novembre 1938, n. 1926, convertito dalla legge 2 giugno 1939, n. 739, e soppressa, con effetto dal 1° gennaio 1989, dal decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144. Occorre poi sottolineare che, come anche rilevato dalla Commissione CE, l’imposta di soggiorno non è stata oggetto di armonizzazione in sede di Comunità europee e che, di conseguenza, gli Stati membri possono definire i criteri della sua applicazione, a condizione che siano rispettati i princípi del diritto comunitario e, in particolare, che non siano introdotte misure discriminatorie nell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato CE.
Nella specie, la dedotta discriminazione tra i residenti in Sardegna e gli altri cittadini dell’Unione europea non è fondata, perché il ricorrente erroneamente ritiene che la situazione dei primi sia omogenea a quella dei secondi. Al contrario, per le stesse ragioni già rilevate al punto 9.1.2. con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., le situazioni poste a raffronto dal ricorrente sono eterogenee e giustificano l’esclusione dall’imposta per i soggetti residenti nel territorio sardo.
Per quanto attiene alla libera circolazione dei servizi (art. 49 del Trattato CE), non risulta che l’imposta censurata colpisca i soggiornanti in maniera discriminatoria o sproporzionata, cosí da ledere la libertà dei medesimi soggiornanti di recarsi in un altro Stato membro per beneficiare di un servizio. Del resto, lo stesso ricorrente non ha precisato in cosa si sostanzierebbe la lamentata discriminazione in ordine alla fruizione o alla libera circolazione dei servizi, tanto piú che la denunciata imposta di soggiorno ha proprio la funzione di rendere sostenibile il contingente afflusso di soggiornanti non aventi residenza anagrafica in Sardegna. Ciò è sufficiente per escludere anche il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE ai sensi dell’art. 234 del suddetto Trattato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo originario e in quello sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario e in quello sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in via subordinata, con il ricorso n. 91 del 2006, in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione);
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 91 del 2006, in riferimento all’art. 8, lettera i) (nel testo anteriore a quello sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 3 e 53 Cost.;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento ai parametri evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, quali sostituiti dall’art. 3, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna, n. 2 del 2007, agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., nonché all’art. 3 di un non specificato testo normativo;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento agli artt. 1, 3, 8, lettera h) (quale sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 3 e 53 Cost.;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento all’art. 8, lettera h) (quale sostituito dal comma 834 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006), dello statuto della Regione Sardegna, all’art. 3 Cost. e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 49 del Trattato CE;
8) dispone la separazione del giudizio concernente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81 e 87 del Trattato CE, e riguardante l’assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili o unità da diporto;
9) riserva alla separata ordinanza n. 103 del 2008 di sottoporre alla Corte di giustizia CE, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, le seguenti questioni di interpretazione degli artt. 49 e 87 dello stesso Trattato: a) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, quale quella prevista dall’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari; b) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, quale quella prevista dallo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna;
10) riserva all’ordinanza di cui al punto precedente di sospendere il giudizio, come sopra separato, sino alla definizione di dette questioni pregiudiziali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio 2008.