Corte costituzionale – Sentenza 4 giugno 2010, n. 196
1.- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125.
RITENUTO IN FATTO
1.1.- Il remittente premette, in punto di fatto, di dover decidere in ordine alla richiesta di emissione di decreto penale di condanna, avanzata dal pubblico ministero in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza – per un fatto commesso nel gennaio 2008 – ed alla contestuale richiesta di confisca del veicolo a carico dell’imputato, ai sensi del già citato art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
Detta norma, infatti, nel testo novellato dall’art. 4 del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito con modificazioni nella legge n. 125 del 2008, prevede che sia «sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato», in caso di condanna tanto per la fattispecie criminosa di guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, purché sia stato accertato a carico del conducente un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro di sostanza ematica, quanto per la fattispecie criminosa (art. 187 del codice della strada) di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti.
La circostanza che nel vigente testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada sia espressamente richiamato l’art. 240, primo comma, cod. pen., non dovrebbe lasciare dubbi – secondo il remittente – che, «sotto l’aspetto formale, tale confisca debba essere qualificata come misura di sicurezza patrimoniale», per la quale, quindi, opera il principio – in forza del rinvio all’art. 200, primo comma, cod. pen. contenuto nell’art. 236 del medesimo codice – secondo cui «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». Ne consegue, pertanto, che la misura della confisca del veicolo appare destinata ad applicarsi pure «nei riguardi di coloro che, imputati del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool (o di quello di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti), risultino destinatari di una sentenza di condanna o di una sentenza di patteggiamento, anche se il reato venne commesso in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 92 del 2008».
Sottolinea, inoltre, il giudice a quo che tale «soluzione ermeneutica» risulta «conforme al pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità». Essa, «con riferimento ad analoghe forme di confisca, ha sempre affermato» – diversamente da parte della dottrina, secondo cui la previsione dell’art. 200, primo comma, cod. pen. andrebbe riferita esclusivamente all’ipotesi in cui le modifiche legislative concernenti le misure di sicurezza riguardino le loro modalità di esecuzione – «che per tali misure, qualificabili come misure di sicurezza e non come pene accessorie o pene sui generis, non opera il principio di irretroattività», sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., norma concernente «esclusivamente la pena» (richiama, sul punto: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza del 15 gennaio 2009, n. 8404; sezione terza penale, sentenza del 15 ottobre 2002, n. 40703; sezione prima penale, sentenza del 19 maggio 2000, n. 7045; sezione prima penale, sentenza del 19 maggio 1999, n. 3717; sezione seconda penale, sentenza del 3 ottobre 1996, n. 3655; sezione sesta penale, sentenza del 17 novembre 1995, n. 775).
1.2.- Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che le norme censurate, «interpretate in conformità al “diritto vivente” di origine giurisprudenziale», siano in contrasto con l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato».
Il suddetto art. 7 – sottolinea il remittente – si pone come «norma interposta», ovvero come disposizione «subcostituzionale», che finisce «per integrare e dare contenuto» al dettato dell’art. 117, primo comma, Cost., sicché la sua violazione da parte di norma di legge ordinaria integra un contrasto con tale parametro costituzionale. Conclusione, questa, proposta «dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007», pronunce che hanno «definitivamente chiarito» – si nota ancora nell’ordinanza di rimessione – «che il giudice è tenuto a valutare la compatibilità costituzionale di ciascuna norma di legge ordinaria, anche nelle materie penalistiche, con le norme della Cedu», le quali, peraltro, rilevano non «in sé considerate», bensì «come prodotto della interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo nelle sue sentenze».
Orbene, «proprio con riferimento al principio fissato dall’art. 7 della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha puntualizzato» – osserva sempre il remittente – che nell’individuazione del concetto di pena è necessario «andare al di là delle apparenze» per valutare «se una data misura costituisca pena ai sensi di tale norma», verificando se essa «sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato», per poi attribuire rilievo ad altri elementi, come «la natura e lo scopo della misura in questione; la sua qualificazione nel diritto interno; le procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione». Tali affermazioni, fatte dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 9 febbraio 2005, resa nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito (che, come rammenta il remittente, ha riconosciuto la violazione dell’art. 7 della Convenzione proprio «in un caso di applicazione retroattiva della confisca di beni disposta nei riguardi di un trafficante di droga condannato a non ridotta pena detentiva»), sono state ulteriormente precisate dalla sua successiva giurisprudenza. Essa, infatti, ha specificato che la garanzia sancita dall’art. 7, in quanto «elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’art. 15 non autorizza alcuna deroga», sicché la sua interpretazione ed applicazione deve avvenire «in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», giacché, se la norma de qua «vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reati, impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a pregiudizio dell’imputato» (in tal senso, v. la sentenza del 20 gennaio 2009, resa nella causa 75909/2001, Fondi s.r.l. ed altri contro Italia).
1.3.- L’applicazione di tali principi, destinati ad integrare – prosegue il remittente – «il dettato normativo dell’art. 117 Cost.», dovrebbe comportare, «in un’ottica di definitivo superamento della precedente, diversa, soluzione privilegiata dalla Consulta con l’ordinanza n. 392 del 1987», l’illegittimità costituzionale delle norme censurate.
In tale prospettiva, si sottolinea, in primo luogo, che «la confisca del veicolo», piuttosto che «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva». Lo confermerebbe la duplice circostanza «che la misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua applicazione «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché, «al di là della “etichetta” formale, la confisca in argomento si traduce in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, dunque parificabile, ai fini sopra indicati, alla sanzione penale».
In secondo luogo, si evidenzia che l’efficacia retroattiva «della nuova disciplina che ha introdotto tale forma di confisca comporterebbe un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio».
Né, infine, andrebbe trascurata la circostanza – osserva il giudice a quo – che la confisca del veicolo «va disposta anche nei riguardi del conducente che abbia rifiutato di sottoporsi all’esame alcolemico del sangue», ciò che ne confermerebbe la natura di provvedimento repressivo.
1.4.- La correttezza di tali rilievi – secondo il remittente – sarebbe confermata dall’ordinanza n. 97 del 2009 della Corte costituzionale (erroneamente indicata, peraltro, come n. 92 del 2009) che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la confisca “per equivalente” di cui all’art. 322-ter cod. pen. e all’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008).
La citata pronuncia, difatti, ha evidenziato che «la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 c.p.», pervenendo a tale conclusione in base al duplice rilievo che «il secondo comma dell’art. 25 Cost. vieta l’applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto in contrasto con l’art. 7 della Convenzione l’applicazione di una sanzione riconducibile proprio ad un’ipotesi di confisca per equivalente» (si tratta della già citata sentenza del 9 febbraio 2005, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito).
1.5.- Su tali basi, quindi, il remittente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 200 e 236 cod. pen. e degli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada.
Dedotta, così, la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., il remittente – non senza osservare che la questione è rilevante, essendo il decreto penale parificato, ad ogni effetto, alla sentenza di condanna, ed essendo stato accertato a carico dell’imputato il superamento del limite di 1,50 del tasso alcolemico fissato dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate «nella parte in cui consentono il sequestro preventivo e, in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, la confisca obbligatoria del veicolo, non appartenente a terzo estraneo, con il quale è stato commesso il reato di guida sotto l’influenza dell’alcool o il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, anche quando tali reati siano stati commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore del suddetto decreto-legge».
2.- Non è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), articoli, questi ultimi, censurati dal remittente nel testo modificato, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125.
1.1.- In particolare, il giudice remittente – essendo stata richiesta dal pubblico ministero, nel giudizio principale, l’emissione di decreto penale di condanna, in relazione alla fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – rimarca il fatto di dover applicare all’imputato, retroattivamente, la misura della confisca del veicolo, non essendo questa prevista all’epoca del commesso reato.
Difatti, in forza di quanto stabilito dall’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, in caso di condanna dell’imputato per la fattispecie criminosa oggetto del giudizio a quo (e per quella di cui all’art. 187 del codice della strada, norma, per tale motivo, anch’essa coinvolta dal remittente nell’incidente di costituzionalità), «è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato». Orbene, proprio il riferimento all’articolo da ultimo citato avrebbe l’effetto di rendere operativa, nella specie, la previsione di cui all’art. 200, primo comma, cod. pen. (cui rinvia, quanto alle misure di sicurezza patrimoniali, l’art. 236, secondo comma, del medesimo codice), in base alla quale «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione».
1.2.- Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ritiene le norme suddette in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.
Sarebbe, infatti, violato l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»; norma interpretata dalla Corte di Strasburgo come applicabile anche nei riguardi della misura della confisca (è richiamata la sentenza pronunciata dalla Grande Chambre il 9 febbraio 1995, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito).
In particolare, la confisca del veicolo adoperato per commettere i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada, lungi dal «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe – secondo il remittente – «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva».
Lo confermerebbero, per un verso, la circostanza che la misura de qua è destinata a ricevere applicazione «anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») ed inoltre, per altro verso, la constatazione che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva».
Ne conseguirebbe, così, che, al di là della qualificazione formale, la confisca in argomento si tradurrebbe in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, da parificare – in base alla citata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – «alla sanzione penale» e, dunque, non suscettibile di efficacia retroattiva, se non in violazione del citato art. 7 della CEDU.
Inoltre, la retroattività della misura in esame – sempre secondo il giudice a quo – sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima per il fatto di comportare «un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio».
2.- In via preliminare, dovendo questa Corte vagliare la conformità delle norme censurate all’art. 7 della CEDU, è necessario verificare se ricorrano le condizioni in presenza delle quali, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), uno scrutinio siffatto può essere effettuato.
Ed invero, in particolare la seconda di tali sentenze ha affermato che «questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU», deve preliminarmente accertare l’esistenza del contrasto «e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana» (così la sentenza n. 349 del 2007).
Più di recente, questa Corte – con una decisione intervenuta, tra l’altro, in materia di confisca di beni – ha ribadito che «in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa», giacché soltanto «ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge» (sentenza n. 239 del 2009).
2.2.- Nel caso in esame, tuttavia, deve escludersi che il contrasto denunciato potesse essere superato dal remittente in via interpretativa.
2.2.1.- Difatti, la pressoché unanime giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada (nel testo novellato dall’art. 4, comma 1, lettera b, del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008) si applica anche alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009, n. 38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986).
È rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione della stessa Corte secondo cui il «richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (contenuto nel testo dell’art. 186, comma 2, lettera c, del codice della strada) avrebbe «solo l’intento di rimarcare l’obbligatorietà della confisca e non quello di affermare che il caso disciplinato rientri tra quelli che detta disposizione contempla», ciò che renderebbe, pertanto, «non estensibile» alla misura qui in esame «la regola dettata dall’art. 200 cod. pen.», vale a dire quella dell’applicazione retroattiva della misura di sicurezza (così sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916).
In queste condizioni, pertanto, è preclusa a questa Corte la possibilità di una soluzione del tipo di quella che è stata proposta, di recente, con riferimento ad analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto – ancora in relazione all’art. 7 della CEDU – la cosiddetta “confisca per equivalente”, ex art. 322-ter del codice penale.
È stata, infatti, proprio la constatazione di quanto «affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad aver permesso a questa Corte di riconoscere a tale ipotesi di confisca «una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen.». Su tali basi questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza, per erroneità del presupposto interpretativo, della questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009).
2.2.2.- Né è senza rilievo, nella medesima prospettiva, la diversa formulazione letterale dell’art. 322-ter cod. pen. rispetto all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
La prima di tali norme, infatti, si limita a stabilire che, nei casi di condanna o applicazione della pena su richiesta per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 cod. pen., anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, cod. pen., «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato», senza, dunque, contenere alcun riferimento all’art. 240 cod. pen.
Anche il dato testuale, pertanto, impone a questa Corte di affermare che il denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e la norma sub-costituzionale invocata dal remittente, come parametro interposto, «sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenza n. 311 del 2009).
3.- L’esame nel merito della presente questione di legittimità costituzionale impone, tuttavia, una ulteriore precisazione preliminare, anche nella prospettiva di una più specifica delimitazione del thema decidendum ora sottoposto al vaglio di questa Corte.
3.1.- Occorre, infatti, muovere dalla constatazione che una pur risalente giurisprudenza costituzionale ha affermato che «la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica», giacché, se il suo contenuto consiste sempre nella «privazione di beni economici», essa «può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varia finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione o di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa» (sentenza n. 29 del 1961).
La necessità di tenere nettamente distinte le singole ipotesi di confisca è, del resto, anche conseguenza della differenza esistente – in campo penale – tra le nozioni di pena e di misura di sicurezza, i cui riflessi, oltretutto, si riverberano nella differente disciplina, fissata dai commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., del fenomeno della successione, nel tempo, delle norme relative ai due istituti.
3.1.1.- Difatti, con la sentenza n. 53 del 1968, questa Corte ha rilevato come «la inserzione della pena e della misura di sicurezza nell’ambito di una categoria unica» (quella generale di sanzione, intesa come «reazione dell’ordinamento alla inosservanza della norma») non abbia avuto come effetto di eliminare «quelli che sono i caratteri particolari dei due mezzi di tutela giuridica». «Nessuno sforzo di accostamento», prosegue la citata sentenza, «potrà infatti valere ad eliminare la differenza, essenziale e di natura, che nettamente si manifesta: la differenza cioè fra la reazione contro un fatto avvenuto, propria della pena, e l’attuazione, propria della misura di sicurezza, di mezzi rivolti ad impedire fatti di cui si teme il verificarsi nel futuro».
Da tale premessa la citata sentenza ha fatto discendere «altre fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica». Tra di esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano, la scelta di individuare «la norma valida per la misura di sicurezza», diversamente da quanto previsto per la pena, in «quella del tempo della sua applicazione».
È in questi termini, dunque, che viene spiegata la formulazione non omogenea dei commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., giacché «soltanto per la pena», l’uno «ribadisce il cosiddetto principio di stretta legalità, disponendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”», mentre l’altro «lascia ferma nell’ordinamento la disposizione dell’art. 200 del Codice penale, in forza della quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”; cioè non da un imperativo giuridico anteriore al fatto punibile, ma da quelle disposizioni che via via l’ordinamento riconoscerà più idonee ad una efficace lotta contro il pericolo criminale» (citata sentenza n. 53 del 1968).
3.1.2.- A giustificare, pertanto, la ritenuta retroattività delle misure di sicurezza, con riguardo soprattutto a quelle di natura personale, è la finalità, loro propria, di assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di sicurezza di minore gravità).
In altri termini, tale retroattività risulta connaturata alla circostanza che le misure di sicurezza personali costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità; funzione che esse assolvono con i mezzi che dalle differenti scienze, chiamate specificamente a fornirli, potranno essere desunti.
3.1.3.- Nondimeno, la presa d’atto proprio delle peculiari caratteristiche e funzioni che, rispetto alle pene, presentano le misure di sicurezza ha portato la dottrina a sottolineare la necessità, a fronte di ogni reazione ad un fatto criminoso che il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza, di un controllo in ordine alla sua corrispondenza non solo nominale, ma anche contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva di detti strumenti. Ciò, al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene.
3.1.4.- Una preoccupazione analoga – e cioè quella di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU, nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale – è, del resto, alla base dell’indirizzo interpretativo che ha portato la Corte di Strasburgo all’elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.
In particolare, la Corte europea ha attribuito alternativamente rilievo, a tal fine, o alla natura stessa dell’illecito – da determinare, a propria volta, sulla base di due sottocriteri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione – ovvero alla gravità, o meglio al grado di severità, della sanzione irrogata.
3.1.5.- Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.
Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato.
D’altronde, questa Corte non solo ha affermato che, per le misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto, sussiste «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), ma anche precisato come la necessità «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967).
A ciò è da aggiungere che anche la disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi depenalizzati – recata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ha stabilito che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (art. 1, primo comma), dettando, così, una regola che si pone come principio generale di quello specifico sistema.
3.2.- Orbene, alla luce delle suindicate premesse, occorre verificare se l’ipotesi di confisca prevista dall’art. 186 del codice della strada – secondo la prospettiva indicata dal giudice remittente – costituisca una misura di carattere sanzionatorio e, dunque, se la sua applicazione retroattiva, ponendosi in contrasto con la descritta interpretazione che dell’art. 7 della CEDU ha fornito la Corte dei diritti dell’uomo, integri una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
4.- Tale evenienza ricorre – nei limiti di seguito meglio precisati – nel caso di specie, donde la fondatezza, negli stessi limiti, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
4.1.- Preliminarmente deve essere chiarito che il riconoscimento della natura di misura sanzionatoria, propria della confisca in esame, comporta l’inammissibilità delle questioni che investono gli artt. 200 e 236 cod. pen.
Una volta escluso, come si specificherà meglio nel prosieguo, che nel caso in esame venga in rilievo una misura di sicurezza, risulta irrilevante, nel giudizio a quo, la questione relativa alla compatibilità con l’art. 7 della CEDU delle norme suddette, giacché esse hanno la funzione di regolare l’applicazione delle misure di sicurezza in senso proprio e non di misure, in senso lato, sanzionatorie.
4.2.- Del pari inammissibile deve essere considerata la questione di costituzionalità relativa all’art. 187, comma 1, ultimo periodo, del codice della strada, pure sollevata dal remittente, trattandosi di una norma che – estendendo la previsione della confisca del veicolo, stabilita a carico del responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, anche all’autore del reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti – non viene in rilievo nel giudizio a quo.
5.- La natura essenzialmente sanzionatoria della confisca – prevista dall’art. 186 del codice della strada – deve essere affermata, innanzitutto, sulla base degli esatti rilievi formulati dal giudice remittente.
5.1.- Questi, difatti, sottolinea come la confisca che dovrebbe essere applicata nel giudizio a quo, al di là della sua qualificazione formale, presenti «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva» e non invece preventiva. A tale conclusione il remittente perviene sulla base della duplice considerazione che tale «misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché la misura della confisca si presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione è stata concepita.
5.2.- D’altra parte, il carattere sanzionatorio, proprio di tale misura, risulta confermato da quanto ritenuto da questa Corte in relazione alla confisca di ciclomotori o motoveicoli, prevista dall’art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, allorché detti mezzi siano «utilizzati per commettere un reato».
Questa Corte – nel ritenere «non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l’uso di ciclomotori o motoveicoli» – ha qualificato come «sanzione accessoria» tale forma di confisca (sentenza n. 345 del 2007, in particolare il punto 5. del Considerato in diritto).
Né, infine, vanno trascurate le peculiari circostanze con riferimento alle quali la citata sentenza è pervenuta a tale conclusione, essendosi questa Corte pronunciata relativamente ad un’ipotesi di confisca disposta proprio «nel caso contemplato dall’art. 186 del codice della strada», rispetto al quale si è riconosciuto «un rapporto di necessaria strumentalità tra l’impiego del veicolo e la consumazione del reato», giustificando, così, anche su queste basi, l’affermazione della natura sanzionatoria della confisca del mezzo (sentenza n. 345 del 2007, ancora al punto 5. del Considerato in diritto).
6.- In conclusione, da quanto sopra consegue che, per rendere compatibile con l’art. 7 della CEDU – e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. – il novellato testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, è sufficiente limitare la declaratoria di illegittimità costituzionale alle sole parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dalle quali soltanto deriva l’applicazione retroattiva della misura in questione.
Tale esito è, infatti, sufficiente a recidere il legame che – in contrasto con le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza tanto di questa Corte, quanto di quella di Strasburgo – l’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, ha inteso stabilire tra detta ipotesi di confisca e la disciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali contenuta nel codice penale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale, limitatamente alle parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dell’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e dell’articolo 187, comma 1, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo n. 285 del 1992, nel testo novellato dall’art. 4, comma 2, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, sollevate – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.