Sez. 3, Sentenza n. 10484 del 2004
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DARSENA FONTANELLE s.a.s. di CEZZA MARIA ELISABETTA (già MARINA DI FONTANELLE s.r.l.), in persona del suo legale rappresentante pro- tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUIGI BOCCHERINI 3, presso lo studio dell’avvocato FERNANDO MANCINI, difeso dall’avvocato MARCELLO MARCUCCIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
ADILARDI D’AQUINO GIUSEPPE MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GRAMSCI 20, presso lo studio dell’avvocato GUIDO CONTI, difeso dall’avvocato CLAUDIO DELL’ANTOGLIETTA, giusta delega in atti;
– controricorrente –
e contro
PIRTOLI LUIGI, PIRTOLI MANFREDO, LAPICCIRELLA MARIA CARMELA, in proprio e quali eredi del Dott. Nicola Pirtoli, elettivamente domiciliati in ROMA VIA FEDERICO CESI 21, presso STUDIO TORRISI MASSIMILIANO & ALESSANDRO, difesi dall’avvocato RODOLFO PETRUCCI, giusta delega in atti;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 478/00 della Corte d’Appello di LECCE, sezione 2^ Civile emessa il 7/7/00, depositata il 03/10/00; RG. 457/1998;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/04 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;
udito l’Avvocato MARCUCCIO MARCELLO;
Udito l’Avvocato DELL’ANTOGLIETTA CLAUDIO;
udito l’Avvocato PETRUCCI RODOLFO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per accoglimento del 1^ motivo, assorbiti gli altri.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 14.12.1980,Giuseppe Mario Adilardi D’Aquino conveniva in giudizio davanti al tribunale di Lecce la s.r.l. Marina di Fontanelle per sentirla condannare al risarcimento del danno conseguito alla distruzione della propria imbarcazione ormeggiata presso la banchina di detta società, a seguito della rovina della diga foranea nella notte tra il 31.12.1979 e l’1.1.1980, nel corso di una violenta tempesta.
Analoga domanda contro la stessa società, ma con autonomo atto, proponevano Pirtoli Nicola, Luigi e Manfredo, nonché Lapiccirella Maria Carmela, quali comproprietari di altra imbarcazione da diporto, andata distrutta nella stessa occasione.
Si costituiva la convenuta, che resisteva alle domande. Il tribunale, riuniti i giudizi, con sentenza depositata il 13.2.1998, condannava la convenuta al risarcimento del danno nei confronti degli attori, liquidato in L. 77.688.400 per l’Adilardi ed in L. 89.640.500 per gli altri, oltre interessi e rivalutazione. Avverso questa sentenza proponeva appello la convenuta. La corte di appello di Lecce, con sentenza depositata il 3.10.2000, rigettava l’appello.
Riteneva la corte di merito che il contratto di ormeggio è un contratto atipico, che può essere disciplinato dalle norme sulla locazione (con riguardo alla messa a disposizione della struttura portuale) o da quelle sul deposito, a seconda se esista anche un obbligo della custodia; che nella fattispecie era ravvisabile ha responsabilità della convenuta in entrambi i casi; che, essendo provato per facia concludentia l’esistenza di un contratto di ormeggio, anche se il contenuto dello stesso fosse stato solo di godimento del “posto barca”, la responsabilità della convenuta si fondava sull’art. 1578 c.c., per vizio della cosa locata, in quanto la diga foranea, realizzata dalla convenuta, era crollata sotto la furia del mare.
Riteneva, inoltre, la Corte comunque di aderire all’interpretazione del contratto, come contenente anche l’obbligo di custodia delle barche.
Infatti riteneva la corte di merito che dal fatto noto provato per testi dell’esistenza di una guardiania fissa, dal ricovero in una darsena di imbarcazioni di piccolo cabotaggio, prive di equipaggio a bordo, si doveva risalire al fatto ignoto dell’obbligo di custodia da parte del concessionario dell’ormeggio, senza che ciò potesse costituire praesumptio de praesumpto. Ciò emergeva anche dal comportamento successivo al contratto dei dipendenti della società e del loro rappresentante, i quali nell’occasione effettuarono alcuni tentativi per evitare danni alle imbarcazioni.
Riteneva, poi, la corte di merito, che esattamente il tribunale non aveva ritenuto idonea l’opera di protezione alla darsena realizzata dalla società appellante, perché assolutamente sottodimensionata rispetto a quella progettata ed approvata, come risultava dalla c.t.u.; che nella fattispecie non esisteva ne’ il caso fortuito, essendo prevedibile sulla base di ben 14 pregressi analoghi episodi metereologici nell’ultimo ventennio, che il mare potesse raggiungere quella forza, ne’ la forza maggiore atteso che la diga foranea era stata realizzata con una riduzione a meno di un decimo rispetto a quella progettata.
Secondo la corte di appello la consulenza del c.t.u. era immune da vizi logici o tecnici.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la Darsena Fontanelle s.a.s. di Cezza Maria Elisabetta.
Resistono con controricorsi gli attori.
I Pirtoli hanno presentato memoria.
I resistenti-attori hanno anche presentato memorie di udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1575 n. 1, 1578, 1766, 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché la motivazione illogica e contraddittoria, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c..
Ritiene la ricorrente che nel contratto di ormeggio può sussistere un obbligo risarcitorio a carico del titolare del porto nel caso di danni all’imbarcazione solo nell’ipotesi in cui il contratto di ormeggio assuma i connotati tipici del deposito e non nel caso in cui assuma quelli della locazione – che erratamente – la sentenza impugnata ha equiparato l’ormeggio-locazione all’ormeggio deposito, poiché nel primo caso va garantito solo l’accesso al posto barca senza impedimenti.
Lamenta poi. la ricorrente che nessuna prova nella fattispecie era stata fornita in merito al contenuto del contratto di ormeggio e che la prova testimoniale non supportava la convinzione che fosse stato assunto un obbligo di custodia; che la sentenza impugnata aveva fatto ricorso alla prova presuntiva, ma che questa era adottabile solo nel caso in cui non fosse possibile fornire la prova di un fatto storico; che nella fattispecie la sentenza impugnata erratamente aveva fatto ricorso ad una praesumptio de praesumpto. Infine la ricorrente lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha fatto riferimento all’art. 1362 c.c., in quanto mancando la prova certa dell’esistenza di un contratto, non era consentito sopperire a tale deficienza mediante il ricorso a canoni ermeneutici di cui alla predetta norma, non essendoci un referente negoziale.
2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Anzitutto va osservato che non sussistono le lamentate violazioni degli artt. 1575, 1578 e 1766 c.c..
Con il moltiplicarsi delle imbarcazioni da diporto, si sono sempre più estesi i c.d. porti turistici con i quali, fruendo della concessione dello Stato su beni demaniali, quali lidi, spiagge, rade e mare territoriale, vengono predisposte strutture, più o meno complesse, aLte a consentire l’ormeggio e la sosta. Tali strutture, cui è spesso collegata la prestazioni di ulteriori servizi (quali la fornitura di notiziari sullo stato del mare, il rimorchio, l’ormeggio vero e proprio, etc.), sono normalmente predisposte e gestite da società con fini di lucro, ovvero da associazioni costituite dagli stessi utenti, ed il loro uso è limitato, in tal caso, agli associati.
Il c.d. contratto di ormeggio non trova alcuna specifica regolamentazione ne’ nel codice civile ne’ in quello della navigazione, che si limita a dettare norme sulla professione di ormeggiatore (art. 116 c. 1^ n. 4 c. n. e 208 ss. reg. nav. mar.), sicché costituisce un contratto “atipico”, che il diritto non può non riconoscere, in quanto diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela (art. 1322 c. 2^ c.c.).
Tale contratto atipico non può, tuttavia, essere equiparato, sic et simpliciter, analogamente a quanto è stato ritenuto per il contratto di parcheggio delle autovetture (per il quale Cfr., fra le tante, Cass. n. 10892 del 1999, Cass. n. 16079 del 2002; Cass. n. 8615 del 1990), al deposito, sì da doversi ritenere applicabili analogicamente le disposizioni di cui agli artt. 1766 ss. c.c., potendo avere un oggetto più vario ed articolato, in dipendenza delle attrezzature e dell’organizzazione del porto turistico ed, alla fine, degli accordi tra le parti, nell’espletamento della propria autonomia contrattuale (all’affermazione non contraddice la lontana sentenza di questa Corte del 22.10.1970, n. 2094, relativa alla diversa e specifica fattispecie del temporaneo affidamento ad un cantiere navale).
2.2. L’oggetto del contratto in esame può limitarsi, infatti, da una parte alla messa a disposizione delle strutture, e dall’altra ala loro utilizzazione al solo fine dell’ormeggio e della sosta dell’imbarcazione, senza alcuna ulteriore prestazione. In tal caso lo stesso presenta una sostanziale affinità con la locazione (può riscontrarsi una analogia con la locazione del c.d. “posto macchina”), in cui, secondo la definizione che ne da l’art. 1571 c.c., “una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo” senza che tale qualificazione osti la presenza di personale del concedente, al fine di regolare gli arrivi e di riscuotere i corrispettivi. Il contratto può invece dar luogo ad un affidamento del natante agli addetti alla struttura, e, attraverso essi, all’altro contraente (eventualmente in applicazione degli artt. 2203 ss. c.c.), che comporta l’obbligo della sua custodia, sì da renderlo assimilabile ad deposito (artt. 1766 ss. c.c.) e da rendere applicabili le relative disposizioni.
2.3. Pertanto il contratto di ormeggio, pur rientrando nella categoria dei contratti atipici, è sempre caratterizzato da una struttura minima essenziale (in mancanza della quale non può dirsi realizzata la detta convenzione negoziale), consistente nella semplice messa a disposizione ed utilizzazione delle strutture portuali con conseguente assegnazione di un delimitato e protetto spazio acqueo. Il suo contenuto può, peraltro, del tutto legittimamente estendersi anche ad altre prestazioni (sinallagmaticamente collegate al corrispettivo), quali la custodia del natante e/o quella delle cose in esso contenute, ed il relativo accertamento si esaurisce in un giudizio di merito che, adeguatamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 02/08/2000, n. 10118; Cass. 21/10/1994, n. 8657).
In tal senso incombe a colui che fonda un determinato diritto (o la responsabilità dell’altro contraente) sulla struttura del contratto, fornire la prova dell’oggetto e del contenuto, la prova, cioè, che il contratto ha avuto ad oggetto non la semplice utilizzazione delle strutture, ai fini dell’attracco e della sosta, ma altresì la custodia dell’imbarcazione. Trattandosi di contratto (o di contratti) per il quale non è richiesta alcuna forma, la relativa prova può essere data anche attraverso testimoni e può, eventualmente, essere tratta da presunzioni che presentino i connotati della gravità, della precisione e della concordanza (art. 2729 c.c.) . 2.4. Nella fattispecie la corte di merito ha fatto corretta applicazione di detti principi.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente la sentenza impugnata, correttamente interpretata, non contrappone l’ormeggio- locazione all’ormeggio-custodia, ma ritiene che nella fattispecie, oltre agli obblighi tipici della locazione del “posto barca”, vi fosse anche quello dell’obbligo di custodia.
2.5. In ogni caso ha ritenuto la sentenza impugnata che, se anche il contratto di ormeggio in questione avesse come contenuto solo quello della locazione delle strutture per consentire l’ormeggio al riparo dei venti e delle burrasche, con esclusione di ogni obbligo di custodia, egualmente sussisterebbe la responsabilità risarcitoria della convenuta a norma dell’art. 1578, e 2, c.c., in quanto la diga foranea e le altre strutture predisposte per consentire l’ormeggio avevano ceduto rovinosamente, determinando l’affondamento delle imbarcazioni.
È errata, pertanto, la doglianza della ricorrente, secondo cui se l’ormeggio ha il solo contenuto della locazione, non può in ogni caso configurarsi un’ipotesi risarcitoria per danni subiti dall’imbarcazione, non assumendo il titolare del porto alcun obbligo di garantire l’integrità dell’imbarcazione.
2.6. Infatti costituiscono vizi della cosa locata quelli che incidono sull’idoneità della stessa all’uso pattuito ed il locatore è tenuto al risarcimento di detti danni, se non prova di aver senza sua colpa ignorato i vizi stessi al momento della consegna (art. 1578, c. 2, c.c.).
Nella ricostruzione fattuale operata dalla corte di merito, questa ha ritenuto che l’affondamento delle imbarcazioni fu dovuto al fatto che la diga foranea cedette di fronte alla furia del mare, ma che ciò fu dovuto al sottodimensionamento di detta diga, realizzata in misura pari a solo un decimo di quella progettata e mai collaudata. In altri termini, la corte di merito ha ritenuto che il danno sia stato causato da un vizio di realizzazione dell’opera portuale, che rendeva la stessa inidonea all’uso, in presenza di determinate condizioni di forza del vento e del mare.
3.1. Quanto alla censura relativa al vizio motivazionale nell’interpretazione del contratto, la sentenza impugnata non viola nè le norme in tema di presunzioni, ne’ quelle in tema di interpretazione del contratto, ne’ adotta una motivazione insufficiente o contraddittoria.
Va, anzitutto, rilevato che la sentenza impugnata, quanto al contratto con i germani Pirtoli, ritiene che lo stesso fosse provato sulla base della deposizione del teste Alemanno, nonché delle presunzioni emergenti dai fatti di cui alla deposizione del teste Nocera; quanto al rapporto con l’Adilardi, ritiene la corte di merito che esso risulta provato sulla base delle presunzioni derivanti dalle circostanze testimoniate dai testi, da cui emergeva che la barca fu condotta nella darsena sin dal settembre 1979; che l’Adilardi era coadiuvato da personale della società convenuta, la quale aveva messo a disposizione anche una piccola imbarcazione e che gli stessi testimoni della convenuta non negavano che la barca si trovasse ivi ormeggiata almeno da un mese. Sulla base di tali elementi, la corte di merito ha ritenuto che presuntivamente fosse provata l’esistenza di un contratto di ormeggio.
Inoltre, sulla base di altri fatti noti (e quindi non attraverso una praesumptio de paesumpto, come ritenuto dai resistenti) e cioè sulla base del fatti noto della presenza sulla banchina di una guardiania fissa e del fatto che si trattava di imbarcazioni di piccolo cabotaggio, prive di stabile equipaggio a bordo, segnatamente nel periodo invernale, e sulla base del comportamento del rappresentante della società e dei suoi dipendenti, che nell’occorso effettuarono alcuni tentativi per evitare danni alle imbarcazioni, la sentenza impugnata ha ritenuto di poter presumere che i contratti di ormeggio in questione prevedessero a carico della società convenuta anche gli obblighi della custodia e, quindi, del deposito.
3.2. Osserva questa Corte che, anzitutto, la prova presuntiva, contrariamente a quanto pare sostenere la ricorrente, non è una prova residuale, di valenza inferiore rispetto a quella testimoniale. Infatti in mancanza di una gerarchia di efficacia dei mezzi probatori, che ponga la prova per presunzioni in una posizione inferiore rispetto alle altre prove, il giudice, ai fini della formazione del proprio convincimento, può fare ricorso alle presunzioni semplici, rifiutando la prova testimoniale che sia offerta da alcuna delle parti (Cass. 3 febbraio 1999, n. 914). 3.3. Inoltre l’art. 116, 1 c. c.p.c. consacra il principio generale del libero convincimento del giudice, per cui lo stesso deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.
La norma in questione sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale dell’efficacia della prova, conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale, e la formula del “prudente apprezzamento” allude alla ragionevole discrezionalità del giudice nella valutazione della prova, che va compiuta tramite l’impiego di massime di esperienze.
3.4. Va poi osservato che è devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato; conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, ne’ a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 6 settembre 1995, n. 9384). 3.5. In particolare, poi, allorché la prova addotta sia costituita da presunzioni, come nella fattispecie, rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici ed, in particolare ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale (Cass. 13.12.1982, n. 6850).
Ne consegue che la sentenza impugnata che ha fondato la propria decisione in parte sulle prove testimoniali raccolte ed in parte sulle prove presuntive, valutate globalmente, sfugge al sindacato di legittimità di questa Corte sulla motivazione.
4.1. Infondata è anche la censura di violazione dei canoni ermeneutici in tema di interpretazione del contratto. La sentenza fa riferimento all’art. 1362 c.c. e correttamente si avvale per interpretare il contratto in questione del comportamento successivo delle parti.
Osserva questa Corte che, come principio generale,a norma dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. L’elemento letterale e quello del comportamento delle parti devono porsi, pertanto, in posizione paritaria, onde il giudice non può sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto (Cass. 23 dicembre 1993, n. 12758).
4.2. Sennonché, una volta pacificamente ammessa la possibilità di conclusione di un contratto anche per facta concludentia, ove non sia richiesta la prova scritta ad substantiam, non vi è ragione di escludere (nè tanto è previsto dalla legge) che anche a detto contratto si applichino i canoni ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e segg. per ogni tipo di contratto, sia pure con le necessarie peculiari limitazioni, connesse oggettivamente alla modalità di conclusione del contratto (segnatamente non possono trovare applicazione le norme di cui agli artt. 1363, 1364, 1365, 1367, 1369 e 1370, c.c.).
Ne consegue che anche per tali contratti opera, come principale criterio ermeneutico, quello di individuazione della volontà delle parti, con la peculiarità che andrà desunta non dal “senso letterale delle parole”, in assenza di queste, ma dal comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto.
5.1. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la motivazione illogica e contraddittoria e l’omesso esame di un punto decisivo della controversia, prospettato in sede di appello, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.. Lamenta la ricorrente il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza nella parte in cui ha escluso l’imprevedibilità o l’inevitabilità dell’evento ed ha nel contempo ritenuto l’inidoneità dell’opera di difesa del porto realizzata da essa società.
Secondo la ricorrente la sentenza impugnata, avendo affermato la pretesa inadeguatezza delle opere di difesa marittima, avrebbe erratamente affermato la responsabilità della società in re ispa, indipendentemente dalla comprovata eccezionalità del fenomeno verificatosi il 31.12.1979, che causò la distruzione di numerosi porti pugliesi.
Lamenta la ricorrente che il giudice di appello avrebbe fatto proprie acriticamente le conclusioni del c.t.u.; che non risultava provato che la scogliera principale era difforme da quella progettata; che il c.t.u. aveva fatto riferimento alla scogliera secondaria e che le dimensioni effettive della diga foranea erano state valutate senza procedere ad immersioni. Secondo la ricorrente l’evento burrascoso del 31.12.1979 fu eccezionale, a carattere di uragano con mare forza 10, come risultava dalla nota del 4.1.1980 del Genio civile di Lecce all’assessorato ai lavori pubblici della regione Puglia; che il vento cambiò numerose volte direzione, come risultava dai bollettini metereologici, in contrasto con le previsioni, che non prevedevano un vento spirante da NW.
5.2. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 40, 41 e 2043 c.c., in relazione all’art. 2043 c.c., nonché l’omesso esame di un punto decisivo della controversia, prospettato dalla convenuta, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. Lamenta la ricorrente che, data eccezionalità dell’uragano, non solo per intensità ma anche per durata, questo ha assunto un ruolo di causa efficiente esclusiva nel determinare l’evento dannoso in questione, interrompendo il nesso eziologico tra l’asserita insufficienza strutturale della darsena ed i danni subiti dallo imbarcazioni; che questa doglianza, già prospettata in sede di appello, non era stata valutata dalla corte. 6.1. Ritiene questa Corte che i due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vadano esaminati congiuntamente. Essi sono infondati e vanno rigettati.
Va, anzitutto, osservato che nella specie è inconferente la censura di assunta violazione dell’art. 2043 c.c., poiché gli attori hanno agito per responsabilità contrattuale della convenuta ed a tale titolo la stessa è stata condannata dai giudici di merito. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza impugnata non ha affermato la responsabilità contrattuale della ricorrente, ritenendo che essa fosse in re ipsa, per gli obblighi discendenti dal deposito, indipendentemente da ogni valutazione sull’eccezionalità dell’evento.
Infatti, ed in buona sostanza, il nucleo centrale della ratio decidendi della sentenza impugnata consiste nell’aver ritenuto l’inadempimento contrattuale della convenuta per non aver predisposto idonea diga foranea al porto turistico, costituendo ciò inadempimento contrattuale sia in relazione al contratto di ormeggio, nella misura minimale, cioè come sola locazione del posto-barca (poiché la cosa locata presentava il vizio di essere inidonea alla funzione di riparo dell’imbarcazione dalle mareggiate di quella forza), sia in relazione al contratto di ormeqgio che prevedesse l’obbligo anche della custodia (ipotesi a cui ha aderito la corte territoriale),poiché in questo caso era mancata la restituzione del barca, per fatto imputabile alla società e consistente sempre nel non aver predisposto idonei ripari alle mareggiate. La sentenza impugnata, anche in relazione a quest’ultima ipotesi ricostruttiva-argomentativa, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto, non ritenendo la responsabilità della convenuta in re ipsa, come sostenuto erratamente dalla ricorrente. 6.2. Osserva preliminarmente questa Corte che risulta superata la distinzione che la più risalente giurisprudenza effettuava sulla diligenza nella custodia nell’ipotesi in cui la custodia costituiva prestazione principale o prestazione accessoria (Cass. 23 gennaio 1986, n. 430; Cass. 27.10.1981, n. 5618)).
Infatti sia nel caso in cui l’obbligo di custodia è prestazione accessoria e funzionalmente voluta dalla legge per l’esecuzione della prestazione principale – art. 1177 c.c., – sia quando esso è l’effetto tipico del relativo contratto – art. 1766 c.c. – la diligenza richiesta all’affidatario è comunque quella del buon padre di famiglia (Cass. 10 dicembre 1996, n. 10986).
6.3. Sennonché detta diligenza del buon padre di famiglia da parte del comodatario comporta non solo che egli eviti azioni od omissioni personali che possano disperdere o deteriorare la cosa, ma anche, in esplicazione del c.d. dovere di protezione, che egli predisponga quanto necessario per prevenire gli accadimenti esterni, che possano determinarne la perdita, il perimento, o il deterioramento della cosa in custodia (cfr. Cass. 17.5.1969, n. 1702). Poiché detta prestazione grava sul depositario, grava sullo stesso, secondo i principi che regolano la ripartizione dell’onere della prova in tema di inadempimento contrattuale (Cass. S.U. n. 13533/01 cit.), fornire la prova della non imputabilità della perdita, per essere stato l’accadimento esterno, con le modalità con cui si è verificato, imprevedibile. È vero che correntemente si sostiene che, in caso di avaria, deterioramento o distruzione della cosa depositata, il depositario non si libera della responsabilità ex recepto provando di avere usato nella custodia della res la diligenza del buon padre di famiglia prescritta dall’art. 1768 c.c., ma deve provare a mente dell’art. 1218 c.c. che l’inadempimento sia derivato da causa a lui non imputabile (Cass. 8 agosto 1997, n. 7363; Cass. n. 6592/95). Il principio, indubbiamente esatto, va condiviso per ogni obbligazione di custodire (e quindi anche per l’obbligo di custodia che abbia eventualmente assunto dal concessionario del posto barca), per quanto il combinato disposto degli artt. 1176 e 1177 c.c. faccia riferimento solo all’uso della diligenza de buon padre di famiglia. 6.4. Ciò non comporti a, però, che il fatto esterno debba avere necessariamente i requisiti del caso fortuito o della forza maggiore, poiché in questo caso si finirebbe in un’ipotesi di presunzione di responsabilità, mentre nella fattispecie si versa solo in ipotesi di presunzione di colpa, ponendo l’art. 1218 c.c. a carico del debitore la prova che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità a lui non imputabile e cioè, come sostiene correntemente la dottrina, che egli non sia colpevole dell’inadempimento.
Nello stesso contratto di deposito la responsabilità per inadempimento dell’obbligo di custodia è sempre fondata sulla colpa (art. 1768, c. 2, c.c.).
Pur ritenendo che le obbligazioni che gravano sul concessionario di ormeggio, con obbligo di custodia, siano anche quelle della custodia, conservazione e restituzione delle cose ricevute, cosicché il rapporto fra i contraenti, in materia di responsabilità per inadempimento e di colpa presunta “ex recepto”, è disciplinato essenzialmente dalle norme codicistiche del deposito, questo comporta in relazione alla responsabilità per accadimento esterno, che impedisca la restituzione del bene depositato, che è raggiunta la prova liberatoria a carico del concessionario dell’ormeggio (con obbligo di custodia), se questi dimostri di avere adottato tutte le precauzioni che le circostanze suggerivano secondo un criterio di ordinaria diligenza, per evitare la distruzione delle cose depositate.
6.5. Solo se detto concessionario dell’ormeggio, con obbligo di custodia,(come qualunque altro obbligato ex recepto) si rende conto (o avrebbe dovuto rendersi conto) al momento dell’adempimento della prestazione di custodia, che il soddisfacimento dell’interesse creditorio non è configurabile senza la produzione di uno sforzo maggiore rispetto a quello che ordinariamente comporterebbe la diligenza del buon padre di famiglia, è tenuto comunque a produrre tale sforzo particolare, versando altrimenti in colpa cosciente, se non proprio in dolo eventuale, nonostante che egli abbia custodito con la diligenza del buon padre di famiglia. Ed è solo in questi termini che ha un senso ritenere che la sola prova della diligenza del buon padre di famiglia nell’espletamento dell’attività di custodia, di cui al combinato disposto degli artt. 1176-1177 ed art. 1768 c.c. , non è idonea ad escludere la responsabilità per inadempimento del custode ex art. 1218 c.c., in caso di accadimento esterno, che rimane pur sempre una responsabilità per colpa. 6.6. Nella fattispecie la sentenza impugnata, facendo esatta applicazione dei suddetti principi, non solo ha escluso che l’evento dannoso della distruzione delle barche degli attori fosse stato causato da caso fortuito o forza maggiore, ma ha anche ritenuto che il comportamento della società convenuta fosse colpevole.
Infatti la corte di merito ha escluso il caso fortuito, avendo rilevato che dal 1951 al 1979, come risultava dalle indagini del c.t.u. si erano verificati ben 14 casi in cui il mare aveva raggiunto la stessa forza sia per direzione che per intensità ed ha escluso la forza maggiore, rilevando, sempre sulla base della consulenza tecnica d’ufficio che la società convenuta aveva realizzato la diga foranea, realizzando in meno di un decimo le strutture rispetto a quelle progettate, senza mal poi farle collaudare. La corte di merito ha ritenuto che detto comportamento della convenuta fosse colpevole ed ha individuato in esso l’inadempimento degli obblighi contrattuali derivanti dal contratto di ormeggio, poiché chi ricoverava barche all’interno di una darsena doveva preoccuparsi di realizzare opere idonee ad affrontare siffatti eventi meteorici.
7. Così ricostruita da parte della sentenza impugnata la situazione fattuale e la sequenza causale,è inconsistente l’assunta violazione dei principi in tema di nesso causale, infatti l’ambito del danno risarcibile per inadempimento contrattuale è circoscritto dal criterio della cosiddetta regolarità causale, nel senso che sono risarcibili i danni diretti ed immediati, ed inoltre i danni mediati ed indiretti che rientrano nella serie delle conseguenze normali del fatto, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza; alla regola secondo cui in presenza di un evento dannoso tatti gli antecedenti senza i quali esso non si sarebbe verificato debbono essere considerali come sue cause (abbiano essi agito in via diretta e prossima ovvero in via indiretta e remota) fa eccezione il principio di causalità efficiente, in base al quale la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e Le altre cause antecedenti. L’accertamento di tale nesso di causalità è riservato ai giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi (Cass., 06/03/1997, n. 2009).
8. Infondate sono anche le censure relative all’assunto vizio motivazionale sia in relazione alla ritenuta non eccezionalità ed imprevedibilità della burrasca sia in relazione al ritenuto sottodimensionamento della diga foranea.
Quanto alla prima censura il giudice di appello si è riportato agli accertamenti effettuati dal c.t.u. presso le stazioni meteorologiche di Ginosa, S.Maria di Leuca e Brindisi, rilevando che risultavano ben 14 eventi analoghi dal 1954 al 1991, per cui l’episodio della notte in questione non poteva ritenersi eccezionale.
Il giudice di appello si è anche fatto carico della nota proveniente dall’ufficio del Genio civile di Lecce ed ha ritenuto che la stessa proveniva da un organo che non aveva specifiche competenze in materia di forza del vento e del mare e che essa era stata probabilmente adottata ad altri tini.
Quanto alle censure attinenti all’assunto sottodimensionamento della diga foranea, va osservato che la corte di merito si è riportata alle conclusioni cui è giunto il c.t.u. ed ha valutato anche le osservazioni critiche mosse dall’appellante (attuale ricorrente), disattendendole, con motivazioni immuni da censure in questa sede di sindacato di legittimità.
Infatti le censure sui predetti punti, mosse dalla ricorrente, mirano ad una diversa valutazione fattuale da parte di questa Corte ed esse non sono, pertanto, ammissibili in questa sede.
9. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1224 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c, nonché la motivazione illogica e contraddittoria in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.. Assume la ricorrente che erratamente il giudice di appello ha valutato il danno subito dall’Adilardi, in quanto esso non superava L. 5 milioni.
Lamenta poi la ricorrente che la corte di appello ha riconosciuto in favore degli attori il danno da svalutazione monetaria, mentre nella fattispecie, trattandosi di danno da inadempimento contrattuale, doveva applicarsi il principio nominalistico e, quindi l’art. 1224 c. 2, per cui detto danno da svalutazione era dovuto solo se provato dal creditore.
10.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Quanto alla prima doglianza va osservato che il danno è stato liquidato sulla base delle conclusioni cui era pervenuto il c.t.u. e la censura si risolve in una diversa valutazione di merito prospettata dalla ricorrente, che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
10.2. Egualmente è infondata la censura relativa all’assunta violazione dell’art. 1224, c. 2, c.c., in tema di svalutazione monetaria.
L’obbligazione di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale costituisce – al pari dell’obbligazione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale ed aquiliana – un debito non di valuta ma di valore,salvo che la prestazione dovuta e non adempiuta avesse fin dall’origine natura pecuniaria, indipendentemente dal punto se essa fosse stata già liquidata o meno (cfr. Cass. 7.12.1994, n. 10493; Cass. 16/10/1995, n. 10772; Cass. 27/12/1995, n. 13108). Solo in quest’ultimo caso, data la natura di debito di valuta, esso è soggetto al principio nominalistico, ed è sottoposto alla disciplina di cui all’art. 1224 c.c., per cui la rivalutazione monetaria non può essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere adeguatamente dimostrato il pregiudizio patrimoniale risentito a causa del ritardato pagamento del credito (Cass. 26/02/2002, n. 2823). Nelle altre ipotesi di inadempimento contrattuale, invece, in sede di liquidazione dei danni, deve tenersi conto – anche d’ufficio – della svalutazione monetaria frattanto intervenuta e quindi anche di quella maturata tra il primo ed il secondo grado, senza necessità che il creditore alleghi o dimostri il danno maggiore ai sensi dell’art. 1224 comma 2 c.c. (danni nelle obbligazioni pecuniarie). Su tale somma rivalutata decorrono gli interessi legali compensativi (secondo i principi di cui alla sentenza delle S.U. n. 1712/1995), atteso che la rivalutazione e gli interessi adempiono funzioni diverse – poiché mentre la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale essa era prima dell’evento pregiudizievole, i secondi hanno natura compensativa – e sono, quindi, giuridicamente compatibili.
Solo con il passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione di detto danno di valore, esso si converte in debito di valuta, come tale non suscettibile “ex se” di ulteriore rivalutazione (Cass. 17/05/1995, n. 5412).
10.3. Nella fattispecie, quindi, avendo la corte di appello esattamente ritenuto che la prestazione dovuta per il contratto di ormeggio non avesse natura pecuniaria e che il danno da inadempimento contrattuale fosse consistito nella perdita delle due barche, ha riconosciuto il danno da svalutazione monetaria in favore dei creditori attori.
La censura, che invoca nella fattispecie la disciplina di cui all’art. 1224 c.c., è quindi infondata.
11. In definitiva il ricorso va rigettato ed la ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione sostenute dalle parti resistenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione sostenute dalle parti resistenti, liquidate per ciascuna in E. tremilacento, di cui E. tremila per onorario.
Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2004.
Depositato in Cancelleria il 1^ giugno 2004