Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 12 maggio 2008, n. 11589
Ritenuto in fatto e diritto
A. Noris si rivolse al Tribunale del lavoro di Crema perché fosse accertata la natura subordinata della prestazione di lavoro svolta alle dipendenze della Confezioni S. s.p.a. quale impiegata tecnica, con condanna del datore alle differenze retributive. La domanda era accolta solo in punto di esistenza della subordinazione e di inquadramento, ma non per le richieste differenze retributive.
Proponeva appello la Confezioni S. deducendo l’erronea valutazione delle prove acquisite e la mancata considerazione – a riprova della natura autonoma del rapporto – della circostanza che, nonostante tutte le richieste, la A. aveva sempre rifiutato la “regolarizzazione” del rapporto. Proponeva appello incidentale la dipendente in punto di spese.
Con sentenza 9-28.6.05 la Corte di appello di Brescia rigettava entrambi gli appelli. Quanto a quello principale, che qui interessa, la Corte individuava i parametri che qualificano il rapporto di lavoro subordinato e, previa valutazione delle risultanze istruttorie, accertava che le modalità di svolgimento della prestazione erano ad essi corrispondenti, assegnando nel contempo rilievo, come indice della consapevolezza del datore circa la natura subordinata del rapporto, alla circostanza che alla dipendente fosse stato richiesto di acconsentire alla “regolarizzazione” del rapporto con atto di formale assunzione.
Proponeva ricorso per cassazione la Confezioni S. s.p.a. deducendo: a) carenza di motivazione in quanto il giudice non avrebbe considerato che la volontà delle parti, risultante dall’atteggiamento dell’attrice, era quella di assegnare il nomen iuris di lavoro autonomo al rapporto in atto; b) consequenziale violazione degli artt. 2094 e 2222 c.c. quanto alla qualificazione giuridica del rapporto. L’intimata notificava controricorso. Rilevata l’opportunità della trattazione ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulle conclusioni del Procuratore generale sopra indicate, il ricorso è stato esaminato in camera di consiglio nella data odierna. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il ricorso è infondato.
La Corte di merito dopo una corretta individuazione degli indici che caratterizzano la subordinazione (assoggettamento del lavoratore alle direttive del datore, nonché al suo potere disciplinare di controllo e vigilanza) ed averne graduato la intensità in relazione all’attività esercitata dalla A. , con un’attenta lettura del materiale istruttorio ha accertato che la prestazione si è svolta con i requisiti della subordinazione.
Quanto al rifiuto opposto dalla A. alla “regolarizazione” del rapporto mediante formale assunzione, anche a voler trarne la conclusione (cui peraltro non è giunto il giudice di merito) dell’esistenza di una comune volontà contrattuale di mantenere il rapporto nell’alveo della libera collaborazione, deve, comunque, rilevarsi che la giurisprudenza di questa Corte ritiene che “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l’iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen iuris nn costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l’accertamento di una nuove diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista” (Cass. 27.10.03 n. 16199).
Nel caso di specie parte ricorrente non risulta aver offerto la prova del momento in cui sarebbe intervenuto il preteso “accordo”, di modo che è incongrua la tesi oggi sostenuta che il rapporto sarebbe stato caratterizzato da una precisa volontà di escluderne la natura subordinata. Sembra, invece, congrua e logicamente articolata la motivazione, adottata dalla Corte di merito in relazione al dato di fatto della proposta di assunzione, che il datore fosse ben consapevole del carattere subordinato della prestazione, al punto da potersene trarre elemento di ulteriore convincimento.
Questo motivo deve essere, dunque, ritenuto infondato, di modo che, assorbito il secondo, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in € 30,00 per esborsi ed in € 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.