Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 22 novembre 2007 – 3 gennaio 2008, n. 14
Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’Appello di Roma Z. Pasquale, ex dipendente dell’Ente Ferrovie dello Stato e beneficiario di pensione, chiedeva l’equa riparazione del danno sofferto per la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, promosso nel 1994 con ricorso alla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, per ottenere la revisione della pensione. Tale processo, sebbene non richiedesse alcuna istruttoria, era stato deciso in primo grado soltanto in data 15.12.2001 con sentenza che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso, perché non preceduto da silenzio – rifiuto, confermata dalla sezione centrale d’appello della Corte dei Conti con sentenza n. 68 del 2004.
La Corte d’Appello di Roma, ritenuto che, nel caso di specie, poteva ritenersi ragionevole la durata di tre anni per ognuno dei due gradi di giudizio e così, in totale, sei anni, sicché il ritardo risultava irragionevole in misura di quattro anni, e ritenuto sussistente, l’asserito danno non patrimoniale, condannava la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con decreto 6.12.2004, al pagamento della somma complessiva di Euro 800,00 (ritenendo dovuti con liquidazione equitativa 200,00 Euro per ciascuno dei quattro anni di ritardo in considerazione della modesta posta in gioco), con esclusione della rivalutazione monetaria e degli interessi pregressi, essendo stata detta somma liquidata ai valori odierni.
Avverso tale decreto Z. Pasquale ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi illustrati con memoria. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2729 e segg. c.c., motivazione illogica ed insufficiente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). La corte territoriale avrebbe affermato immotivatamente che la somma richiesta con il ricorso pensionistico era assai lieve, quando invece si ricaverebbe da detto ricorso l’esatto contrario, sia pure facendo uso di presunzioni, considerando le numerose domande con lo stesso proposte (perequazioni automatiche riassorbite, competenze accessorie non computate, ultimo aumento contrattuale del Ccnl 90/92 non corrisposto, interessi e rivalutazione non corrisposti sui conguagli per differenze tra acconti di pensione e pensione definitiva età). Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la L. n. 848 del 1955, nonché dei parametri adottati dalla Corte Europea in materia di indennizzo del danno non patrimoniale. Insufficiente ed illogica motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Deduce il ricorrente che, nel liquidare l’equo indennizzo, la corte d’appello non avrebbe rispettato i seguenti parametri Cedu costituiti: dagli anni di durata del processo, che era stata di dieci anni, mentre ne aveva calcolati soltanto quattro; dalla natura dello stesso, che, essendo pensionistico, avrebbe comportato la elevazione della misura indennitaria ad Euro 2.000,00 per ogni anno di durata del procedimento; dalla complessità del procedimento, nel caso inesistente, riferibile all’istruttoria e non al merito. La corte, considerati i parametri indicati dalla Cedu, avrebbe dovuto liquidare Euro 2000,00 per ognuno dei 10 anni di durata della causa pensionistica e, quindi, globalmente Euro 20.000,00 o, quanto meno, Euro 2000,00 per ognuno degli anni eccedenti una durata ragionevole della causa non superiore a 3 anni complessivi e, quindi, globalmente Euro 14.000,00.
La misura liquidata dalla corte territoriale sarebbe, pertanto, inadeguata e puramente simbolica, per cui risulterebbe immotivata.
Andavano, infine, liquidati la rivalutazione e gli interessi sulle somme rivalutate, dalla data della domanda, pur se non richiesti.
Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 375 c.p.c., nei termini di cui all’art. 378 c.p., il ricorrente deduce che la Cedu, con sentenza del primo novembre 2004, ha stabilito che è indennizzabile ogni anno del procedimento, interpretando in tal senso l’art. 6 della Convenzione EDU. Solleva, pertanto, eccezione di incostituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2, per violazione dell’art. 117 Cost., nel punto in cui ammette l’indennizzo solo per gli anni eccedenti la durata ragionevole, diversamente dalla Cedu, che, come detto, l’ammette per ogni anno del procedimento, non potendo il legislatore nazionale con legge ordinaria derogare alla Costituzione, al diritto comunitario e alle convenzioni internazionali.
Il ricorso è fondato per quanto di ragione.
Preliminarmente deve essere esaminata la eccezione di illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, essendo rilevante ai fini della decisione della presente controversia. Appare opportuno precisare che più decisioni della Corte Europea, emesse a carico dell’Italia in data 10 novembre 2004, hanno affermato che il termine, da prendere in considerazione ai fini della liquidazione dell’indennizzo per la eccessiva durata del processo, è quello della intera durata del procedimento. Tra queste in particolare le pronunce sul ricorso n. 62361/00, proposto da Riccardi Pizzati c. Italia e sul ricorso n. 64897/01 proposto da Z. c. Italia. In tutte le sentenze in questione la Corte Europea, dopo aver constatato l’eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari oggetto del giudizio, ha, altresì, rilevato che, già in passato, in numerose occasioni, aveva avuto modo di riscontrare l’esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione, costituita dall’affastellamento di violazioni dell’art. 6. Ha ritenuto, pertanto, che ove si riscontri una violazione di questo articolo, come avvenuto nei casi in esame, detta prassi costituisca un’aggravante della violazione stessa.
Dopo avere ricordato che ogni sentenza che accerta una violazione obbliga lo Stato convenuto a porre termine alla violazione stessa e ad eliminarne le conseguenze e che, se la normativa nazionale non prevede altro che una parziale eliminazione, l’art. 41 Cedu consente alla Corte di accordare al ricorrente una soddisfazione in via equitativa, ritenuto che il risarcimento concesso in sede nazionale non costituisse una riparazione appropriata e sufficiente, la Corte, in applicazione del citato art. 41, ha condannato lo Stato Italiano al pagamento di ulteriori somme, prendendo quale base per la liquidazione del danno morale la intera durata del procedimento e non il periodo di ritardo (rispetto al termine da ritenersi ragionevole) per la sua definizione. Passando all’esame della sollevata eccezione di incostituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a) il collegio ritiene di doverla dichiarare manifestamente infondata per le seguenti considerazioni. Il parametro costituito dall’art. 117 Cost., comma 1, nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, – il quale dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – per come è strutturato, diventa concretamente operativo – al fine del giudizio di costituzionalità della norma sopra indicata – solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali”, che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni (cfr. sentenze n. 348 e 349 della Corte Costituzionale del 22-24.10.2007).
Nel caso di specie, la funzione di dare concreta consistenza agli obblighi internazionali dello Stato e, quindi, di integrare e rendere operativo detto parametro, viene assolta dalle norme della Cedu (che in tal caso operano quali “fonti interposte” tra la Costituzione e la norma ordinaria, occupando così una posizione intermedia, che porta a riconoscere loro il rango di norme sub-costituzionali).
Va precisato subito, però, che non vengono in considerazione, come fonti interposte, le disposizioni della Cedu in sé e per sé considerate, ma queste nel significato loro attribuito dalla Corte Europea, di cui all’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed attuazione e dotata, quindi, di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti, con la sottoscrizione e ratifica della Cedu, hanno riconosciuto alla stessa (cfr. le succitate sentenze della Corte Costituzionale). Il principio che le norme della Cedu vivono nella interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte Europea non puo’ essere, ovviamente, inteso nel senso che la giurisprudenza di questa Corte si riferisce a tali norme in modo generico, ma nel senso che ogni singola norma vive nella specifica interpretazione che ne da la corte. Il che implica di indagare, al fine di stabilirne la portata, qual è la norma o quali sono le norme, se più, che vengono interpretate ed applicate in ogni singolo giudizio; quindi, con riferimento al caso che ne occupa, quale norma Cedu deve ritenersi vivente nella interpretazione datane dalle sentenze del 10 novembre 2004, la dove affermano che il periodo da prendersi in considerazione, al fine del risarcimento del danno per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, è l’intero periodo di durata del processo presupposto.
Con l’eccezione di incostituzionalità proposta, il ricorrente indica, quale fonte intermedia, integrativa dell’art. 117 Cost., l’art. 6 della Convenzione, assumendo ovviamente che questa è la norma che viene in considerazione, nella interpretazione datane dalla Corte Europea, affermando – con riferimento al criterio utilizzabile per la liquidazione dell’indennizzo dovuto per la violazione del termine ragionevole di durata del processo – “che, una volta superata la durata ritenuta ragionevole, ogni anno del procedimento va indennizzato, non potendosi esentare gli anni di una durata ragionevole che non è stata”.
A seguito di tale affermazione il citato art. 6 della Convenzione dovrebbe ritenersi violato dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, in quanto, al comma 3, lett. a), tale norma dispone che per determinare l’entità della riparazione “rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1”. Ma vi sono seri argomenti per escludere che, nelle sentenze del 10 novembre 2004, la Corte Europea abbia elaborato, perché imposto dall’oggetto del giudizio, il summenzionato criterio con riferimento all’art. 6 della Convenzione (nella sentenza Ernestina Z. c. Italia, al paragrafo 4, si afferma testualmente: “La ricorrente ha addotto la violazione dell’articolo 6 paragrafo 1 della Convenzione in merito alla lunghezza dei procedimenti civili di cui era parte in causa.
Successivamente, la ricorrente indicava che non stava contestando il modo in cui la Corte d’appello aveva valutato i ritardi, ma l’ammontare irrisorio del risarcimento accordatole”). L’art. 6 della Cedu dispone che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile”. Com’è agevole constatare in base alla sua chiara formulazione, l’art. 6 della convenzione riconosce il diritto ad un processo equo ed enuncia le caratteristiche che questo deve possedere per essere tale e, stabilendone così il contenuto, individua anche quali sono gli obblighi cui gli Stati contraenti devono conformarsi nell’organizzare il loro sistema giudiziario, sicché le varie richieste di giustizia possano avere risposta a mezzo di un processo che, rispondendo alle caratteristiche imposte da detta norma, possa ritenersi equo. Questa disposizione individua, dunque, qual è il contenuto del diritto ad un equo processo e, conseguentemente, le modalità delle sue possibili violazioni; non disciplina certo le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro riparazione. La riparazione della violazione trova, invece, la sua disciplina di principio: nell’art. 41 della Cedu, sull’equa soddisfazione, il quale dispone che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”; nonché nell’art. 13 della Convenzione, sul diritto ad un ricorso effettivo, il quale dispone che “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. Tenendo conto del contenuto delle disposizioni su riportate e della loro portata, si può logicamente e fondatamente ritenere che sia riferibile all’art. 6 la giurisprudenza della Corte che individua i termini di durata del processo, superati i quali si verifica la violazione del termine ragionevole di durata dello stesso (ad es. riguarda certamente la interpretazione dell’art. 6 l’avere stabilito che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e quello di due anni per la durata del giudizio di secondo grado), ma non certo la giurisprudenza che individua i criteri da utilizzare per determinare l’ammontare del risarcimento, riguardando questa non la violazione del diritto all’equo processo, ma la determinazione di un’equa soddisfazione. Se così è, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), – che, nella complessiva disciplina dettata dalla legge citata sull’equa riparazione, si limita solamente ad indicare il criterio da utilizzare per determinare l’importo della riparazione dovuta per la violazione del termine ragionevole di durata del processo presupposto – non può fondatamente ritenersi – dato il campo di applicazione, che, giova ripeterlo non è quello dell’accertamento della violazione, ma quello consecutivo della sua riparazione – in contrasto con la norma interposta costituita dal predetto art. 6 della Convenzione e, quindi, con l’art. 117 Cost..
Con le decisioni del 10 novembre 2004, che qui vengono in considerazione, la Corte Europea ha solamente affermato, come detto, la inadeguatezza dell’indennizzo, che può essere liquidato dal giudice nazionale, facendo applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, senza però escludere la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001, a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, essendo stata detta attitudine riconosciuta dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, proposto da Scordino c. Italia (cfr. in tal senso Cass. n. 8603 del 2005; cass. n. 8568 del 2005), ed avendo questa affermato, addirittura nella citata sentenza Z. , che vari tipi di ricorso possono correggere la violazione in modo adeguato: uno tendente ad accelerare la procedura e l’altro di natura indennitaria (cfr. par. 79); che gli Stati possono anche scegliere di dare vita soltanto al ricorso per indennizzo, come ha fatto l’Italia, senza che questo ricorso possa essere considerato come mancante di efficacia (cfr. par 80); che, quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso per indennizzo, la Corte deve lasciargli un più grande margine di valutazione, perché possa organizzare questo ricorso interno in modo coerente con il suo sistema giuridico e le sue tradizioni e in conformità con il tenore di vita del paese (cfr. par. 82). Giova rilevare, altresì, che la citata L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), costituisce particolare applicazione dell’art. 111 Cost., il quale, dopo aver recepito pienamente i canoni del giusto processo fissati dall’art. 6, p. 1, della Convenzione, dispone “che la legge ne assicura la ragionevole durata”, così sancendo che, nello stabilire quale durata debba ritenersi ragionevole, non si possa prescindere da quella minima imposta da una corretta applicazione, da parte del giudice, della disciplina che lo struttura.
Atteso quanto precede, deve necessariamente ritenersi che il diverso parametro di calcolo dell’equa riparazione, introdotto dalla Corte Europea – una volta esclusa la fondatezza della denuncia di incostituzionalità del parametro di calcolo di cui al più volte citato articolo 2 – produce il solo effetto di aprire, alla “vittima” della violazione, la via sussidiaria dell’applicabilità dell’art. 41 della CEDU sull’equa soddisfazione, il quale dispone, come già su riferito, che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. Il collegio ritiene, pertanto, che ai fini dell’indennizzo del danno non deve aversi riguardo, come pretende il ricorrente, ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata (cfr. per tutte Cass. n. 21597 del 2005), essendo il giudice nazionale tenuto, nella ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), non potendo darsi alla giurisprudenza della Cedu, in questione, diretta applicazione nell’ordinamento giuridico italiano con il disapplicare la norma nazionale su indicata (come invece sarebbe possibile per la normativa comunitaria), avendo la Corte Costituzionale chiarito, con le citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione EDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri Cedu, esclusi i casi, come quello di specie, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omesso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.
Il giudice a quo ha, pertanto, correttamente applicato il criterio secondo cui rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.
Ha violato, però, i parametri indicati dalla Cedu per l’accertamento del periodo di ragionevole durata del processo presupposto (la Cedu ha indicato in tre anni per il primo grado ed in due anni per il secondo grado il termine di durata da ritenersi ragionevole), statuendo che, dei dieci anni di durata, il periodo da considerarsi indennizzabile, perché eccedente la ragionevole durata del processo presupposto, è di anni quattro, dovendosi ritenere ragionevoli il termine di anni tre, per la durata del giudizio di primo grado, e di anni tre, per la durata del giudizio di secondo grado. Il giudice a quo, avendo liquidato per ogni anno di ritardo soltanto Euro 200,00, ha, inoltre, violato i parametri Cedu da utilizzarsi per la valutazione del danno morale, avendo la Corte indicato, quale base di calcolo, una somma variabile tra i 1000,00 ed i 1.500,00 Euro annui.
Per quanto precede, ritiene il collegio che il ricorso possa essere accolto per quanto di ragione con conseguente cassazione della sentenza impugnata e decisione nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., determinando in anni cinque (tre+due) il periodo ragionevole di durata e nei residui anni cinque il periodo di durata non ragionevole ed in Euro 1.000,00 l’indennizzo per ogni anno eccedente la ragionevole durata, non ritenendo il collegio che le ragioni indicare nel ricorso possano ritenersi valide al fine di adottare una base di calcolo superiore a quella rappresentata dal parametro minimo. Conseguentemente la Presidenza del Consiglio dei Ministri va condannata a pagare al ricorrente la somma di Euro 5.000,00 (ottenuta moltiplicando 5 anni – che sono quelli da ritenersi eccedenti la durata ragionevole – per Euro 1000,00), con gli interessi come per legge dalla domanda all’effettivo soddisfo, oltre alla refusione delle spese sia del giudizio di merito che di quello di legittimità – da distrarsi in favore dei difensore avv. Mario C. , che se ne è dichiarato antistatario – che appare giusto liquidare per il giudizio di merito in complessivi Euro 675,00, comprensivi di rimborso spese generali, oltre ad Iva e Cpa, e per il giudizio di legittimità in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
PQM
La Corte, dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri a corrispondere a Z. Pasquale la somma di Euro 5.000,00 (cinquemila), con gli interessi dalla domanda al saldo, ed alle spese dell’intero giudizio che per quello di merito liquida in complessivi Euro 675,00, comprensivi di rimborso spese generali, oltre ad Iva e Cpa, e per quello di legittimità in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, spese da distrarsi a favore dell’avv. Mario C., che se ne è dichiarato antistatario.