Cass. 1654/2008 – diritto all’inquadramento nel livello e categoria superiori
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-06-2008, n. 16504
Svolgimento del processo T.V. dipendente dell’Università degli Studi di Basilicata ha convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro, chiedendo che previa declaratoria di illegittimità del proprio inquadramento nella categoria C posizione economica C 4 prevista dal CCNL del comparto Università stipulato il 9 agosto 2000 fosse riconosciuto il suo diritto al superiore inquadramento nella categoria D posizione economica D1.
Esponeva di esser stato inquadrato, quale vincitore di concorso pubblico nel 7^ livello qualifica professionale di collaboratore tecnico, svolgendo sempre mansioni proprie della 7^ qualifica funzionale e di esser stato escluso dalla superiore categoria e posizione economica rivendicate, per effetto di una clausola del menzionato contratto, secondo la quale detto inquadramento era riservato ai lavoratori che avessero acquisito la 7^ qualifica a seguito di concorso per la partecipazione al quale era richiesto il diploma di laurea. Deduceva che, così disponendo, il contratto aveva determinato una discriminazione contraria al principio di eguaglianza ed agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché agli artt. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 e chiedeva che, previa declaratoria di nullità della clausola in questione, fosse disposto il suo inquadramento nella categoria D posizione economica D1. Deduceva ancora di aver esercitato mansioni superiori a quelle di inquadramento e chiedeva che gli fosse riconosciuto il diritto alle relative differenze retributive. L’Università resisteva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso sul rilievo che le clausole relative all’inquadramento, frutto di scelta delle parti collettive, non sindacabile dal giudice, erano legittime, non avendo comportato dequalificazione né in astratto né in concreto.
Il Tribunale di Potenza, ritenuto che la controversia riguardava la validità di una clausola del CCNL sottoscritto per la parte pubblica, dall’ARAN, ha attivato il procedimento di interpretazione autentica regolato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64 all’esito del quale ha ricevuto dall’ARAN un testo di accordo denominato di “interpretazione autentica” con il quale erano confermate le disposizioni contrattuali escludendosi profili di illegittimità delle stesse. Il Tribunale ha quindi considerato che vi fossero le condizioni per decidere con sentenza la sola questione della validità delle clausole e ne ha dichiarato la nullità con sentenza, disponendo al contempo per il prosieguo della causa.
In sintesi, il Tribunale ha così giustificato la propria decisione. Il giudice può sindacare le scelte della contrattazione collettiva, senza tuttavia poter radicalmente modificare gli equilibri raggiunti dalle parti, anche in sede di accordo interpretativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64 tanto più in una materia quale quella degli inquadramenti e mansioni, dove le parti collettive, dotate di specifica esperienza, hanno la visione di insieme dei rapporti. Vincoli alla contrattazione collettiva sono posti tuttavia da norme imperative e in particolare nella specie dagli artt. 36 e 97 Cost.. Il primo, in particolare, con il criterio di proporzionalità fra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, rende invalido un sistema di inquadramento che prescinda dalla qualità della prestazione ossia dal contenuto delle mansioni svolte, espressione oggettiva della professionalità dei lavoratori, Poiché a tale elemento centrale se ne possono aggiungere, altri quali il livello di istruzione scolastica, i precedenti lavorativi, l’anzianità di lavoro o di servizio, non è consentito al giudice di sindacare il peso assegnato a ciascuno, salvo però il caso di assoluta inconsistenza del criterio utilizzato come eventuale elemento di differenziazione. Infatti, anche nel rapporto di lavoro privato, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla sentenza cost. n. 103 del 1989, è da ritenere che il potere dell’imprenditore di determinare, a parità di mansioni, diversi livelli o categorie di inquadramento non ha carattere di pura discrezionalità e tantomeno di arbitrio ma deve trovare fondamento in una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento. Del resto, il divieto di atti discriminatori nell’impiego del lavoratore, nell’organizzazione del lavoro e nella gestione del rapporto, anche con specifico riguardo all’assegnazione delle mansioni, è sancito legislativamente negli artt. 15 e 16 dello Statuto dei lavoratori, ed al giudice è rimesso il controllo dell’inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni svolte. Inoltre anche nei rapporti privati il diniego originario del principio di parità di trattamento nei rapporti privati, ha subito attenuazioni, essendosi ritenuto in varie pronunzie di legittimità che le eventuali disparità sono legittime solo se ragionevoli e conformi a buona fede. Nel rapporto di pubblico impiego poi va considerata la finalizzazione dell’attività della p.a. al soddisfacimento delle esigenze di imparzialità e buon andamento, predeterminate dalla legge sulla base dei principi costituzionali, ancorché questi non impediscano di distinguere fra la regolazione pubblicistica dell’organizzazione e quella privatistica del rapporto, riservata al contratto collettivo. Dall’art. 97 Cost. deriva pertanto il divieto implicito, anche in sede collettiva, di irragionevoli discriminazioni tali da compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione mortificando senza valide ragioni un determinato gruppo di lavoratori. La peculiarità del contratto collettivo del pubblico impiego va ravvisata infatti proprio nel suo esser funzionale all’interesse pubblico sancito dall’art. 97 Cost..
Del resto il principio di parità di trattamento nel rapporto di lavoro pubblico, espresso dal D.Lgs. n. 165 del 2001, va inteso non solo come obbligo per il datore pubblico di conformarsi alle previsione della contrattazione collettiva ma come obbligo imposto alle stesse parti sociali cui è demandato il compito di definire mediante il contratto il trattamento economico fondamentale ed accessorio. Il suddetto principio comporta che nel caso di trattamenti differenziati l’elemento di discriminazione deve risultare in concreto idoneo a giustificare una disciplina diversa. Ne deriva, per quanto attiene all’inquadramento, che a parità di mansioni svolte deve corrispondere la stessa qualifica, a meno che vi sia una ragione idonea a giustificare la differenza.
Nel caso di specie si è in presenza di una discriminazione non sorretta da alcun motivo plausibile. Infatti l’art. 74 del ccnl non definisce una procedura di avanzamento in carriera ma solo un criterio di inquadramento. Esso pone a base del trattamento differenziato la precedente modalità di accesso alla qualifica funzionale, ossia una circostanza obiettivamente irrilevante a definire il valore della prestazione lavorativa e del lavoratore, il quale fra l’altro potrebbe aver conseguito la laurea successivamente o non essersi avvalso della stessa ai fini dell’accesso alla qualifica. Da ciò una ingiustificata discriminazione fra appartenenti alla medesima 7^ qualifica, che pur espletando, come era risultato pacifico, le medesime mansioni prima e dopo il nuovo inquadramento sono stati classificati in posizione deteriore rispetto ai loro colleghi.
Né del resto le parti sociali hanno fornito delucidazioni in proposito nel corso (o all’esito) del procedimento di interpretazione autentica. Peraltro, in situazione analoga, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che una progressione non può esser legittimamente condizionata dal possesso di un titolo di studio la cui mancanza è stata superata nel precedente inquadramento. In particolare secondo tale orientamento il possesso della laurea può esser determinante solo per l’inquadramento di chi accede per la prima volta ad una qualifica, ma non per l’inquadramento più favorevole di coloro che, provenendo dalla medesima qualifica per l’accesso alla quale era richiesto (a regime, id est in via normale) il titolo, ne fossero sprovvisti. In sostanza, le norme contrattuali di inquadramento sono mille perchè contrastanti con il principio inderogabile della parità di trattamento sancito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, il quale mira ad assicurare l’efficienza e l’imparzialità dell’azione amministrativa anche attraverso il riconoscimento del diritto al pari trattamento economico in favore dei pubblici dipendenti a parità di mansioni e di inquadramento.
L’Università di Basilicata ha impugnato questa sentenza con ricorso del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64 fondato su un unico motivo. L’intimato resiste con controricorso, illustrato anche da memoria.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso è denunziata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 265 del 2001; violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 97 Cost. violazione e falsa applicazione degli artt. 74 e 75 del ccnl Comparto Università del 9 agosto 2000. Insufficiente motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia. Si addebita alla sentenza impugnata di aver ritenuto, in modo illogico e contraddittorio, di poter sindacare la legittimità e validità delle clausole del ccnl impugnate senza tener conto che il contratto collettivo è estrinsecazione del potere delle associazione sindacali ed è quindi frutto di trattative e patteggiamenti, punto di incontro e coordinamento di configgenti interessi, hi tal modo la sentenza avrebbe trascurato di considerare che la ragionevolezza delle scelte effettuate dalla contrattazione collettiva è intrinseca, derivando dalla composizione del conflitto sindacale e che un controllo esterno di tali scelte è inammissibile, non essendo consentito al giudice valutare la razionalità del regolamento collettivo di interessi realizzato dalle parti sociali, disciplina articolata e complessa dove gli svantaggi di alcune soluzioni possono trovare compenso nei vantaggi acquisiti dalle parti sotto altri aspetti.
Si addebita poi alla sentenza impugnata di non aver considerato che, secondo costante giurisprudenza, le clausole generali di correttezza e buona fede non trovano applicazione nei casi di diversità di trattamento non riconducibili alle ipotesi legali e tipizzate di discriminazioni vietate, e che nell’ambito del lavoro alle dipendenze della p.a., analogamente a quanto avviene nel lavoro, privato, non esiste un principio di parità di trattamento. Si addebita ancora alla sentenza l’arbitraria estrapolazione dei principi affermati dalla sentenza 103/1989 della Corte Costituzionale, e l’omessa considerazione delle peculiarità del contratto di lavoro pubblico, quali l’efficacia erga omnes e il suo collegamento funzionale con l’interesse pubblico tutelato dall’art. 97 Cost.. Si sostiene poi la ragionevolezza delle scelte effettuate nella specie dalle parti collettive, sulla base di una lettura oculata e non decontestualizzata della norma collettiva di riferimento. Questa avrebbe infatti carattere transitorio e costituirebbe solo una anticipazione della progressione economica verticale prevista dall’art. 57 del contratto nei confronti di una parte del personale. Non vi sarebbe alcuna preclusione per il personale proveniente dalla stessa 7^ funzionale inquadrato in C4 all’accesso nella categoria D mediante procedure selettive, ma sarebbe stato realizzato un contingentamento dei passaggi alla categoria superiore, con definizione, in via transitoria, di un modo di accesso prioritario, in base al titolo posseduto. Diversamente, sarebbe stato necessario consentire una progressione economica generalizzata in conflitto con le previsioni di organico e di bilancio.
La Corte deve anzitutto verificare l’ammissibilità del ricorso, tenendo conto della circostanza che il Tribunale ha ritenuto di dover decidere con sentenza, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64 la sola questione di validità del cit. art. 74 del CCNL di comparto, dopo che l’ARAN e le OO.SS., avevano sottoscritto un testo di accordo denominato quale accordo di “interpretazione autentica”, dove, come meglio si vedrà, erano confermate le disposizioni contrattuali escludendosi profili di illegittimità delle stesse. Il Tribunale ha ritenuto in sostanza che quello raggiunto non configurava un accordo idoneo ad impedire la decisione sulla sola validità della clausola.
Il ricorso è ammissibile.
E’ costante insegnamento giurisprudenziale, ribadito anche di recente, che l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va fatta in base alla qualificazione data dal giudice all’azione proposta, alla controversia e alla sua decisione, con il provvedimento impugnato, a prescindere dalla sua esattezza, restando irrilevante il tipo di procedimento adottato (per tutte, Cass. Sez. un. 1 febbraio 2008, n. 2434). Nell’ipotesi regolata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, comma 3 per l’applicazione di tale principio occorre considerare quale sia l’elemento dalla cui qualificazione da parte del giudice dipende il tipo di decisione che egli deve emettere. Tale elemento, come risulta dal testo della norma, è l’intervento di un accordo di interpretazione autentica sulla clausola controversa. Una volta che il giudice abbia constatato l’inesistenza di un tale accordo, egli deve pronunziare, con sentenza, sulla sola questione di interpretazione. Tale pronunzia essendo impugnabile “solo” con ricorso per cassazione non è evidentemente appellabile. Né in tal modo si valorizza il procedimento adottato dal giudice, in contrasto con il ricordato orientamento giurisprudenziale, poiché il procedimento è meramente consequenziale alla ritenuta inesistenza dell’accordo interpretativo, ossia alla qualificazione dell’elemento decisivo della fattispecie. La eventuale inesattezza della valutazione del giudice sulla esistenza o non di tale accordo non può esser fatta valere con l’appello, proprio per il principio che collega il tipo di impugnazione proponibile alla qualificazione contenuta nel provvedimento impugnato. Ciò premesso va tuttavia precisato che la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sulla impugnazione, può certamente constatare che la sentenza impugnata, in quanto emessa in difetto del necessario presupposto non rientra fra quelle direttamente impugnabili e provvedere di conseguenza (v., per un’ipotesi analoga, concernente l’art. 420 bis c.p.c., Cass. 3770/2007 seguita da numerose altre conformi) in tal modo peraltro il controllo di tale pronunzia avviene in modo più diretto (con ricadute anche sulla celerità del processo, entrata ormai nel circuito dei valori costituzionalmente rilevanti: v. art. 111 Cost.) mentre in caso contrario, anche alla luce dei limiti del principio di consumazione dell’impugnazione evidenziati nell’esame del primo motivo, si determinerebbe una moltiplicazione delle sedi di verifica con non trascurabili rischi di esiti contraddittori. Deve, a questo punto, esser affrontata la questione se, attivato lo speciale procedimento stabilito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64 in ipotesi di ritenuta, dal giudice di merito, invalidità della clausola controversa, il giudice possa o no emettere la sentenza sulla questione di validità o sia vincolato a considerare raggiunto l’accordo ogni qualvolta le parti collettive attestino tale conclusione a prescindere dal contenuto concreto dell’atto conclusivo del procedimento.
In proposito, la Corte osserva quanto segue.
L’accordo contemplato nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, commi 2 e 3 è accordo sull’interpretazione ovvero sulla modifica della clausola contrattuale controversa. Secondo il significato proprio delle parole accordo “sull’interpretazione o sulla modifica” vuol dire accordo che attribuisca al testo controverso un determinato significato. Per stabilire se via sia o no un tale accordo non è rilevante l’autoqualificazione dell’atto, ma il suo effettivo contenuto (v. fra le molte, per tale principio, in relazione alle leggi di interpretazione autentica, Cass. 677/2008). Il testo, sottoscritto il 9 agosto 2000, che le parti hanno rimesso al giudice definendolo quale interpretazione autentica dell’art. 74 del ccnl 1998/2001 per il personale non dirigente del comparto università è del seguente tenore;
“Con l’art. 74 del CCNL sottoscritto in data 09.08.2000 le parti hanno legittimamente delineato il sistema di inquadramento del personale nelle nuove categorie, ne può configurarsi un contrasto tra la citata norma contrattuale e il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 trattando quest’ultimo la disciplina delle mansioni svolte dal lavoratore, e non l’inquadramento in categorie contrattuali. Da una corretta applicazione della stessa normativa contrattuale, infatti, e non da una sua presunta illegittimità, possono trovare adeguata soluzione le singole posizioni individuali dei ricorrenti, e ciò sulla base delle funzioni che siano state legittimamente assegnate a ciascuno dei ricorrenti medesimi”. In tale testo la proposizione essenziale è quella secondo cui “Con l’art. 74 del ccnl … le parti hanno legittimamente delineato il sistema di inquadramento del personale nelle nuove categorie, né può configurarsi un contrasto tra la citata norma contrattuale e il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52”. Così, di fronte alla richiesta del giudice di “promuovere interpretazione autentica in ordine a possibili profili di inefficacia invalidità e interpretazione diversa da quella letterale dello stesso” le parti hanno risposto manifestando al giudice il loro comune avviso che l’accordo, nell’interpretazione che secondo il giudice dava adito a dubbi di validità, fosse invece valido.
Non è necessario dilungarsi per mostrare che le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata (tale essendo per quel che qui rileva il potere contrattuale speso con la stipula del ceni e del successivo accordo ora in esame) possono modificare per il futuro o, eventualmente anche con la tecnica dell’interpretazione autentica, per il passato, il contenuto del contratto ma non possono in alcun modo incidere sulla validità delle relative clausole mediante un accordo che tale validità si limiti semplicemente ad affermare o negare, dal momento che, in ogni caso, una convenzione siffatta non si sottrarrebbe essa stessa alla necessaria verifica di validità (arg. ex art. 1423 c.c.) e, perciò, non risolverebbe alcun problema ma ne sposterebbe la soluzione. Una conferma di tale assunto si ricava, del resto, dalla lettura coordinata del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 64 e 49, ultima parte, quest’ultimo espressamente richiamato nel comma 2 del primo.
L’accordo di interpretazione autentica o di modifica della clausola, raggiunto nel corso del procedimento giudiziario, per effetto della richiesta di interpretazione autentica da parte del giudice, produce gli effetti contemplati nell’art. 49, il che vuol dire che la clausola, come interpretata o modificata sostituisce la clausola originaria fin dal vigore di quest’ultima. In tal modo, la clausola risultante dall’accordo fornisce al giudice la nuova regola di giudizio del caso portato al suo esame.
Ciò consente di desumere il criterio in base al quale valutare se il prodotto del procedimento interpretativo attivato in base al cit. art. 64 sia o no un effettivo accordo di interpretazione o modifica. Lo è se in base ad esso viene fornita al giudice una clausola contrattuale (interpretata o modificata) che permetta la decisione del caso, mentre non lo è in caso contrario.
La generalità di questo criterio richiede peraltro alcune specificazioni, ancorate, del resto, alla fattispecie in esame. Deve quindi esser puntualizzato che quando il giudice prospetti un dubbio interpretativo segnalando fra le possibili alternative anche una lettura della clausola strettamente aderente al suo tenore testuale, costituisce senz’altro accordo di interpretazione quello che privilegi una siffatta alternativa e perciò restituisca al giudice il testo fissandone il significato in tali sensi, in tal caso il testo alla stregua del quale deve decidersi la controversia è il medesimo sia prima che dopo il procedimento interpretativo, ma quest’ultimo ha contribuito a ridurre l’area dei possibili significati del testo ad uno solo, ad esclusione di ogni altro ed ha quindi fornito la specifica regola di valutazione del caso controverso. Del tutto diversa è invece l’ipotesi in cui – come nel caso in esame, sia prospettato dal giudice un dubbio sulla validità della clausola, da lui interpretata in sostanziale adesione al testo contrattuale, e le parti collettive restituiscano al giudice non una lettura diversa del testo alla cui stregua riuscirebbe superato il dubbio di validità ma lo stesso testo contrattuale nella stessa lettura fattane dal giudice con l’ordinanza di rimessione, integrato, in sostanza, dalla attestazione che entrambe le parti contrattuali giudicano infondato il dubbio di validità formulato dal rimettente.
La prima soluzione, ovvero la nuova formulazione del testo onde renderlo conforme alle norme imperative, è appunto il risultato prefigurato dal legislatore con il prevedere un procedimento interpretativo anche per le questioni di “validità” oltre che di interpretazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. art. 64, comma 1) ragione per cui non è condivisibile, nella sua radicalità, l’orientamento di Cass. 15135/04, che dalla esatta premessa che le clausole contenute nei contratti collettivi nazionali che si pongono in contrasto con norme imperative sono mille, desume la non accoglibilità di una richiesta di attivazione della procedura di interpretazione di un contratto collettivo D.Lgs. n. 29 del 1993, ex art. 68 bis (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64) qualora l’interpretazione propugnata si ponga in contrasto con norme imperative, visto che la proposta interpretativa delle parti della controversia non coincide necessariamente con il risultato del procedimento interpretativo affidato alle parti collettive. Quanto alla seconda ipotesi, risulta chiaro, per le considerazioni sviluppate in precedenza, che al giudice non viene offerta una regola di giudizio diversa da quella da lui già implicitamente scartata attraverso il quesito sulla validità e, in realtà, non viene offerta nessuna regola di giudizio fra quelle che rientrano nella disponibilità delle parti. Queste hanno solo contrapposto a quella del giudice non una diversa interpretazione della clausola ma una diversa valutazione della sua validità, esercitando quindi un potere loro non riconosciuto dall’ordinamento.
Correttamente pertanto il Tribunale di Potenza ha ritenuto sussistere il presupposto per decidere con sentenza del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64, comma 3 sulla validità della clausola in questione.
Possono quindi essere esaminate le censure mosse dal ricorrente alla statuizione di nullità della clausola in esame, non avendo fondamento le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate nel controricorso in relazione alla circostanza che non sarebbe stato censurato l’iter argomentativo seguito dal giudice e non sarebbe stato rispettato il principio di autosufficienza mediante trascrizione del testo dell’accordo interpretativo.
La prima censura non considera infatti il potere di diretto esame del contratto collettivo attribuito a questa Corte dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5. La seconda non tiene conto anzitutto che l’accordo interpretativo, ove fosse veramente tale, avrebbe lo stesso rango della clausola interpretata, sicché varrebbe il rilievo appena formulato, e che inoltre, nel caso di specie, l’accordo concretamente raggiunto ha operato, per le ragioni sopra illustrate, come presupposto per la emanazione della sentenza interpretativa così rientrando fra gli elementi che questa Corte, dovendo giudicare dell’ammissibilità dell’impugnazione e, a tale fine, della natura del provvedimento impugnato, può direttamente conoscere a prescindere dalla loro riproduzione nel ricorso. La Corte giudica nella sostanze fondate le censure mosse dalla parte ricorrente alla sentenza impugnata e ritiene che la clausola controversa non confligga con alcuna norma imperativa. Non vi anzitutto alcun contrasto con il cd. principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 perchè per quanto qui rileva tale principio vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede. Non è ipotizzabile nel caso di specie un contrasto delle clausola con il principio di non discriminazione, non avendo tale principio valenza di clausola aperta, idonea a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categoria di lavoratori, rilevando sotto tale profilo le specifiche previsioni normative contenute nell’ordinamento, quali ad es., quelle desumibili dall’art. 15 dello Stat. Lav..
Né un siffatto principio può esser affermato sulla base delle indicazioni della sentenza costituzionale n. 103/1989, che all’autonomia organizzativa non illimitata del datore di lavoro contrappone proprio il potere di classificazione professionale dei lavoratori demandato ai contratti collettivi. Ma le scelte compiute in proposito dalla contrattazione collettiva non sono suscettibili di sindacato da parte del giudice, mancando il parametro di giudizio cui rapportare tale sindacato.
In definitiva, deve essere affermato che la clausola di cui all’art.74, comma 4, del CCNL Comparto Università 9 agosto 2000, non è affetta da nullità. Pertanto il ricorso va accolto, e la sentenza impugnata va cassata con rimessione degli atti allo stesso Tribunale che la ha pronunziata. La Corte stima opportuno compensare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Potenza. Compensa le spese del giudizio di legittimità. Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2008