Corte di Cassazione – Sentenza del 07.01.2008 n. 166
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA sul ricorso proposto da: P. F. A.,
avverso la sentenza emessa il 25 marzo 2005 dalla corte d’appello di Milano; udita nella pubblica udienza del 28 settembre 2007 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Francesco Salzano, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 5 dicembre 2002 il giudice del tribunale di Milano dichiarò P. F. A. colpevole del reato di cui agli artt. 56 e 517 cod. penale, per avere, nella qualità di legale rappresentante della spa Vetrerie di E., tentato di mettere in commercio prodotti industriali con segni distintivi nazionali atti ad indurre in errore il consumatore, ed in particolare oggetti di vasellame per uso domestico in ceramica recanti la dicitura «Griffe M. M.» mentre erano stati invece prodotti in Cina.
La corte d’appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, confermò la sentenza di primo grado.
L’imputato propone ricorso per cassazione deducendo: 1) erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 517 cod. pen. e mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Lamenta che la corte d’appello, pur avendo aderito alla interpretazione secondo cui il concetto di provenienza comprende anche le ipotesi in cui il prodotto sia lavorato da terzi su commissione del titolare del marchio, ha poi ritenuto che non vi sarebbe la prova del legarne dei prodotti in sequestro con il produttore Vetrerie di E. , titolare del marchio «Griffe M. M.». Al contrario era stato provato che i prodotti in questione erano stati commissionati dall’imputato ed eseguiti secondo le sue direttive sia nella scelta della porcellana sia nel tipo del decoro. 2) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla applicazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il collegio che il primo motivo del ricorso sia fondato.
Va preliminarmente ricordato che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che la garanzia assicurata dall’art. 517 cod. pen. riguarda l’origine e la provenienza della merce non già da un determinato luogo bensì da un determinato produttore; cioè da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione (Sez. III, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Fro s.r.l., m. 231110; Sez. III, 17.2.2005, Acanfora; Sez. III, 19.4.2005, Tarantino; Sez. III, 2 marzo 2005, Dewar). Infatti, ciò che é generalmente rilevante per l’ordine economico come sopra specificato non è l’origine o la provenienza geografica, bensì la fabbricazione da parte di un determinato imprenditore, il quale, coordinando giuridicamente, economicamente e tecnicamente il processo produttivo, assicura la qualità del prodotto. Come sottolinea la sentenza Thum «la induzione in inganno di cui all’art. 517 c.p. riguarda l’origine, la provenienza o qualità dell’opera o prodotto; ma i primi due elementi sono funzionali al terzo, che è in realtà il solo fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso». Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. Com’è noto, la funzione tradizionale del marchio è triplice, perché indica la provenienza imprenditoriale, assicura la qualità del prodotto e agisce come richiamo per la clientela ovverosia come suggestione pubblicitaria. Orbene questa triplice funzione del marchio non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintiva (Sez. III, 17.2.2005, Acanfora). Il marchio, quindi, rappresenta il collegamento tra un determinato prodotto e l’impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel senso che è il solo responsabile verso l’acquirente; sicché non è richiesto dalla disciplina del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l’imprenditore l’obbligo di informare che egli non fabbrica direttamente i prodotti (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Fro s.r.l.).
Nel caso di specie si tratta di fatti avvenuti nel 2001, e quindi non è comunque applicabile il sopravvenuto art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004, che ha inteso soprattutto proteggere e promuovere i prodotti fabbricati in Italia, o «made in Italy», «anche attraverso la regolamentazione dell’indicazione di origine o l’istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte nel territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine» (comma 61), stabilendo al riguardo guardo la necessità di un apposito regolamento governativo (comma 63), che peraltro non risulta ancora emanato. Nell’ambito di questa finalità, il citato art. 4, comma 49, ha anche previsto strumenti di tutela penale dell’ordine economico, disponendo, nel primo periodo, che «l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale». In seguito, l’art. 1, comma 9, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con legge 14 maggio 2005, n. 80, ha inserito, nel citato comma 49, dopo le parole «fallaci indicazioni di provenienza» quelle «o di origine».
Questa Corte ha più volte ritenuto che con tale disposizione, anche dopo la modifica introdotta con il d. l. 35/2005, il legislatore ha inteso meglio definire l’ambito della illecita vendita di prodotti con segni mendaci, senza però fissare una definizione di «origine» o di «provenienza» che si discosti da quella costantemente enunciata dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina, secondo la quale, ai sensi dell’art. 517 cod. pen., salvo espresse indicazioni contrarie, per origine o provenienza di un prodotto deve intendersi la provenienza del prodotto stesso da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (Sez. III, 21 ottobre 2004, s.r.l. Fro; Sez. III, 17 febbraio 2005, Acanfora; Sez. III, 2 marzo 2005, Dewar; Sez. III, 19 aprile 2005, Tarantino; Sez. III, 15 marzo 2007, Contarini).
Le ricordate pronunce riguardavano per la gran parte fattispecie di prodotti fabbricati all’estero per conto di un produttore o importatore italiano – che sovrintendeva, organizzava e dirigeva il processo produttivo, assumendosene la responsabilità giuridica, economica e tecnica, o comunque assumendo la garanzia della qualità della merce – prodotti sui quali era indicato soltanto il nome del produttore italiano ed eventualmente la località in cui esso aveva sede, ma senza specificazione del luogo in cui il prodotto era stato fabbricato. La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro sempre evidenziato che diverso é invece il caso nel quale sul prodotto non sia stato inserito soltanto il nome e la sede del produttore italiano, ma anche o solo la scritta «prodotto in Italia» o «made in Italy». In questa ipotesi, invero, attraverso l’apposizione di tale scritta, si fornisce al consumatore una indicazione normalmente atta ad essere intesa nel senso che il prodotto è stato interamente fabbricato in Italia, cioè una indicazione che – qualora invece il prodotto sia stato invece fabbricato all’estero – è sicuramente falsa circa l’origine del prodotto stesso. In tale ipotesi la circostanza che il prodotto sia stato fabbricato all’estero per conto di un produttore italiano e che assicuri la qualità propria di quel produttore é irrilevante, atteso che il consumatore ben potrebbe determinarsi ad acquistare un prodotto soltanto in quanto effettivamente «prodotto in Italia» (o non «prodotto in Italia») o prodotto in qualche altra località, e ciò in base alle più svariate considerazioni soggettive, non necessariamente attinenti alla qualità del prodotto stesso.
L’apposizione di una scritta o etichetta recante la dicitura «prodotta in Italia» o «made in Italy» su un prodotto fabbricato all’estero, non importa se per conto di un produttore italiano, è quindi sicuramente idonea a trarre in inganno il consumatore (Sez. III, 15 aprile 2005, Tarantino) e tale comportamento integrava già il reato di cui all’art. 517 cod. pen., a prescindere dalla previsione dell’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Sez. III, 15 marzo 2007, Contarini), il quale peraltro assume ora rilievo in quanto ha normativamente fissato le condizioni che devono ricorrere per stabilire quando un prodotto possa qualificarsi come fabbricato o non fabbricato in Italia.
Venendo al caso in esame, la corte d’appello ha correttamente affermato il principio che la garanzia che la legge ha inteso assicurare al consumatore riguarda l’origine e la provenienza del prodotto non già da un determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge) ma da un determinato produttore, che si assume la garanzia della qualità del prodotto stesso, sicché la mancata indicazione del luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall’art. 517 cod. pen.. Sennonché, ha poi fatto una applicazione di questo principio manifestamente illogica o comunque immotivata e perplessa, perché non ha esaminato il punto cruciale della questione – ossia se l’imprenditore aveva in qualche modo garantito che si trattava di oggetti fabbricati in Italia, mentre gli stessi provenivano dalla Cina – ma ha ritenuto sussistente il reato perché, in concreto, la qualità degli oggetti (a prescindere dalla provenienza e dal luogo di fabbricazione) non corrispondeva alla qualità promessa dall’imprenditore (ossia per un fatto che, a ben vedere, non era nemmeno contenuto nel capo di imputazione). La motivazione con la quale è giunta a questa affermazione, però, è, a parere del collegio, incompleta ed apodittica, perché non solo non sono state prese in considerazione e valutate le considerazioni svolte dalla difesa – la quale aveva eccepito che dai documenti da essa presentati emergeva la prova che i prodotti erano stati commissionati ed eseguiti secondo le direttive del P., sia nella scelta della porcellana, sia nel tipo di decoro da parte di subproduttori da lui conosciuti ed apprezzati in luoghi tecnicamente qualificati – ma anche perché non è stato in alcun modo indicato in quali elementi e sotto quali profili gli oggetti messi in commercio non corrispondevano alla qualità promessa al pubblico dal venditore. La corte d’appello si è invero limitata a ritenere che il reato era integrato solo perché mancava la prova che il processo di produzione fosse avvenuto secondo la caratteristiche qualitative pattuite con l’esecutore ed in particolare mancava la prova che l’imputato avesse dato istruzioni alla ditta estere e avesse direttamente controllato il processo produttivo. Con ciò però, a prescindere da ogni considerazione sull’onere della prova, si è dato immotivatamente rilievo a circostanze che potrebbero di per se stesse essere irrilevanti, qualora non incidano concretamente sulla qualità del prodotto.
Va però anche rilevato che nel caso in esame l’accusa, del tutto correttamente, non aveva contestato all’imputato (e quindi nemmeno chiesto di provare) di non avere dato istruzioni all’esecutore materiale o di non avere controllato il procedimento di fabbricazione o che gli oggetti non avessero oggettivamente determinati livelli di qualità, bensì aveva contestato che sugli oggetti di vasellame prodotti in Cina era stato apposta la dicitura «G. M. Milano», con la quale in sostanza le Vetrerie di E. avevano falsamente assicurato al consumatore che si trattava di oggetti fabbricati in Italia, traendolo quindi in inganno sull’origine del prodotto. E ciò – come emerge dalla sentenza di primo grado – non già perché tale dicitura fosse di per se sola idonea a trarre in inganno il consumatore sull’origine del prodotto, bensì perché l’imputato attraverso tutto il materiale pubblicitario che accompagnava gli oggetti, aveva espressamente assicurato i consumatori che i prodotti contrassegnati con il marchio «G. M. M.» erano oggetti «creati con sapienza e gusto dai migliori artigiani italiani … realizzati con tecniche tradizionali, sia per la forma che per le decorazioni manuali», ossia, in sostanza, aveva assicurato che si trattava di oggetti fabbricati in Italia, da artigiani italiani.
Ora, sembra che la corte d’appello abbia travisato il significato dell’accusa, perché, di fronte alla detta contestazione ciò che bisognava accertare – con un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito e che non potrebbe quindi essere compiuto in questa sede di legittimità – era la circostanza se realmente, con il materiale pubblicitario che accompagnava gli oggetti sequestrati, l’imprenditore aveva assicurato che gli oggetti recanti la dicitura «G. M. M.» erano oggetti fabbricati in Italia da artigiani italiani, mentre in realtà si trattava di oggetti fabbricati in Cina. Ed infatti, se è vero che l’imprenditore non ha l’obbligo di indicare sull’oggetto quale sia il luogo di fabbricazione dello stesso, sicché la mancata indicazione di tale luogo non integra di per sé il reato, dato che il luogo di fabbricazione non incide necessariamente sulla qualità oggettiva del bene, è anche vero che quando invece l’imprenditore indichi il luogo di fabbricazione o comunque assicuri il consumatore che si tratta di prodotto fabbricato (o non fabbricato) in un determinato luogo, allora la falsità di questa indicazione é idonea di per sé sola a trarre in inganno sull’origine del prodotto il consumatore, che può essere indotto, sulla base delle più diverse ragioni non necessariamente collegate alla qualità, a comprare o non comprare l’oggetto proprio perché prodotto o non prodotto in un determinato luogo.
La corte d’appello avrebbe quindi dovuto accertare se nel caso in esame l’imputato aveva effettivamente garantito ai consumatori che il vasellame in questione era stato fabbricato in Italia da artigiani italiani, perché questo solo elemento sarebbe stato di per sé sufficiente ad integrare il reato, mentre era irrilevante la circostanza che l’imprenditore avesse o meno concordato con il fabbricante le caratteristiche qualitative, avesse scelto la porcellana ed i disegni, dato istruzioni sulle modalità di fabbricazione, seguito e controllato il processo di fabbricazione. Infatti, anche se tutti questi adempimenti vi fossero stati, ugualmente sussisterebbe il reato contestato, che sarebbe integrato dal solo fatto che era stato falsamente garantito che la merce era stata prodotta in Italia da artigiani italiani. Al contrario, la mancanza di tali adempimenti potrebbe essere di per sé irrilevante, se non ha inciso in concreto sulla qualità del prodotto garantita dall’imprenditore. La corte d’appello invece non ha esaminato questo punto decisivo. E poiché la garanzia al consumatore sulla fabbricazione in Italia, secondo la contestazione, non era contenuta dalla dicitura apposto sugli oggetti ma nel materiale pubblicitario che li accompagnava, materiale che la sentenza impugnata ha completamente omesso di valutare ed esaminare, il collegio ritiene che tale valutazione, attenendo al merito e non emergendo dalla motivazione della sentenza impugnata, non possa essere compiuta in questa sede ma vada rimessa al giudice del merito. La sentenza impugnata deve quindi essere annullata per vizio di motivazione con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Milano per nuovo giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 7 GENNAIO 2008