Cass. 18813/2008 – Risarcimento del danno derivato dalla perdita di professionalità
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-07-2008, n. 18813
Svolgimento del processo
Con ricorso del 20 giugno 2001 C.S. esponeva di essere dipendente della Telecom Italia S.p.a. con mansioni di assistente ad attività specialistiche, ricomprese nel 5^ livello del C.C.N.L S.I.P. del 30 giugno 1992, e che, prima del processo di privatizzazione, il suo inquadramento era nel 7^ livello con mansioni di revisore tecnico coordinatore. Sosteneva che, nel periodo transitorio coevo all’attuazione del processo di privatizzazione, era passato temporaneamente alle dipendenze della Iritel S.p.a.(società, poi, incorporata nell’attuale Telecom S.p.a.), che gli aveva assegnato le mansioni di assistente ad attività specialistiche tecniche con inquadramento nel 5^ livello. In data 25 luglio 1994 inspiegabilmente era stato, tuttavia, retrocesso ed adibito a mansioni appartenenti al livello inferiore a quello di sua appartenenza, ossia al livello 6^, fermo restando il formale inquadramento nel 5^ livello ed il relativo trattamento retributivo.
Concludeva, pertanto, che venisse dichiarato il proprio diritto ad essere assegnato alle effettive mansioni superiori di “assistente ad attività specialistica” corrispondente al 5^ livello C.C.N.L. 28.6.2000, con reintegrazione nelle mansioni corrispondenti o equivalenti presso la unità di Oristano nella quale prestava attività da svariati anni. Chiedeva, inoltre, la condanna della Telecom S.p.a al risarcimento del danno derivatogli dalla perdita di professionalità e dalla menomazione morale in misura corrispondente ad una quota della retribuzione mensile, da determinarsi in via equitativa, commisurata alla durata della dequalificazione.
La convenuta contestava la domanda di cui chiedeva il rigetto, assumendo, altresì, che le pretese retributive dovevano ritenersi prescritte. Premessa una ricostruzione storica e giuridica dei mutamenti strutturali del Settore delle Telecomunicazioni, la convenuta sottolineava che, per effetto degli accordi 15.3.1993 ed 8.41993, il ricorrente era passato dalla categoria 7 (ricoperta presso l’Azienda di Stato per i Servizi Telefonici – ASST-) al livello 5^ C.C.N.L. SIP, inizialmente come “assistente ad attività specialistiche” e, poi, come “lavoratore addetto ad attività specialistiche di tecniche numeriche”. Precisava che, nel caso di specie, non trovava applicazione l’art. 2103 c.c., con riferimento alla dequalificazione ed al demansionamento denunciati dal ricorrente e che la declaratoria contrattuale del 5^ livello C.C.N.L. SIP, attribuita al C., successivamente al transito in Intel S.p.a., trovava esatta rispondenza in quella della 7 categoria da lui rivestita presso TASSI, ivi compresa la “responsabilità ed autonomia” per l’attività svolta. Si opponeva, infine, a qualsiasi pretesa risarcitoria evidenziando che l’esistenza del danno andava rigorosamente documentata e provata tanto nella sua esistenza che nel suo ammontare, mentre, nella specie, il ricorrente non aveva nemmeno indicato quali fossero i criteri generali di riferimento per la verifica della sussistenza del danno.
Istruita la causa con produzione di documenti e prova testimoniale, il Tribunale di Oristano, in funzione di Giudice del Lavoro, con sentenza 4 luglio 2003, respinta preliminarmente l’eccezione di prescrizione, accoglieva la domanda dichiarando il diritto del C. ad essere assegnato alle effettive mansioni superiori di “assistente ad attività specialistiche” corrispondenti al 5^ livello del C.C.N.L. 28.6.2000, ordinando alla Telecom S.p.a, di adibire il lavoratore a dette mansioni o a mansioni equivalenti presso l’unità di Oristano, condannandola, altresì, al risarcimento del danno subito dal C. valutato, equitativamente, in una somma pari ad un terzo della retribuzione globale netta per tutto il periodo del demansionamento (dall’1.7.1994 alla data di reintegra nelle mansioni corrispondenti al suo livello). Avverso tale decisione appellava la Telecom Italia S.p.a. con ricorso 4 agosto 2003, cui resisteva il C. deducendone l’inammissibilità ed, in subordine, chiedendone il rigetto.
Con sentenza del 13 ottobre – 10 dicembre 2004, la Corte d’appello di Cagliari, ritenuto che il lavoratore non aveva fornito la prova del danno accoglieva per quanto di ragione il gravame ed in parziale riforma della sentenza impugnata, che confermava nel resto, “assolveva” la società appellante dalla domanda di risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre C.S. con tre motivi.
Resiste Telecom Italia S.p.A con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale con un unico motivo, cui resiste il C. con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Va, ancora, in via prioritaria rirmarcato che l’impugnata decisione ha ritenuto, con motivazione congrua e senza incorrere in violazioni di legge, che le mansioni di 5^ livello spettassero al C. perchè previste per contratto. A sostegno di tale assunto ha osservato che il contratto di assunzione, in data 1.3.1994 presso la IRITEL (per passaggio diretto dall’Azienda di Stato A.S.S.T.), aveva riconosciuto al C. le mansioni di “assistente ad attività specialistiche” corrispondenti, appunto, all’inquadramento nel 5^ livello C.C.N.L. SIP del 30.6.1992.
Ha, poi, aggiunto che numerosi dati documentali dimostravano l’inquadramento del C. nel 5^ livello del C.C.N.L. vigente all’epoca del passaggio dalla IRITEL, per fusione ed incorporazione, alla TELECOM, evidenziando, in particolare, che con nota del 25 luglio 1994, quest’ultima, adibì il C. (con effetto retroattivo dall’ 1.7.1994) alle mansioni di “addetto ad attività specialistiche di tecniche numeriche restando la sua appartenenza al livello retributivo 5”.
Ha, quindi, soggiunto che era da condividersi l’assunto del lavoratore secondo cui con tale locuzione si intendeva mantenergli il livello retributivo maturato nonostante l’adibizione a mansioni inferiori, e che la valutazione comparativa, volta a provare la dequalificazione, non poteva che consistere nell’ individuazione del contenuto delle mansioni corrispondenti alle figure di “assistente ad attività specialistiche di 5^ livello” e di “addetto ad attività specialistiche di tecniche numeriche di 4^ livello”, valutazione correttamente effettuata dal primo Giudice. Questo, oltretutto, aveva visto rafforzato il proprio convincimento dalle deposizioni testimoniali dalle quali era risultato che i tecnici operavano come supporto professionale degli assistenti e che il C. aveva finito per svolgere mansioni inferiori di 4^ livello essendo sottoposto, gerarchicamente, alla figura contrattuale che egli stesso avrebbe dovuto ricoprire, sicché ogni questione concernente l’assenza di demansionamento doveva ritenersi infondata, mentre l’assunto della società, secondo cui il demansionamento era giustificato dall’attuazione di un processo di riorganizzazione aziendale, era da ritenersi inammissibile perchè in violazione dell’art. 345 c.p.c., non essendo stata tale prospettazione neppure adombrata nel primo grado del giudizio.
Tenuto conto di tale motivazione non riesce di agevole comprensione il primo motivo di ricorso principale, avendo il Giudice d’appello adottato una soluzione alla sollevata questione del demansionamento, favorevole al ricorrente C. Con tale motivo, infatti, quest’ultimo mostra del tutto ingiustificatamente di considerare un unicum inscindibile la domanda relativa alla sussistenza della dequalificazione e la domanda di risarcimento del danno e, per tale ragione, ne evince che la dichiarazione di inammissibilità e/o di infondatezza della prima domanda vada a travolgere la statuizione giudiziale sulla domanda di risarcimento del danno.
In sintesi, la Corte di appello sarebbe caduta in contraddizione per aver dichiarato il primo motivo inammissibile (e comunque infondato) e per aver accolto il secondo motivo di ricorso, disponendo per il rigetto delle pretese risarcitone del C.
Tale impostazione non appare corretta.
Occorre, infatti, precisare che le domande spiegate dal C. costituiscono due autonome e distinte pretese volte ad ottenere da una parte, l’accertamento del diritto alle mansioni superiori e relativa reintegra nelle mansioni e dall’altra parte, il risarcimento del danno per perdita di professionalità. Le stesse conclusioni riportate nel ricorso ex 414 c.p.c., e riprodotte fedelmente dalla difesa della società nel proposto controricorso, confermano quanto sopra, risolvendosi esse nella richiesta di accertamento dell’avvenuto demansionamento con conseguente ordine di reintegra nelle originarie mansioni (o in altre equivalenti) ed in quella ulteriore diretta a far discendere dalla adibizione alle mansioni inferiori un danno conseguente alla perdita di professionalità e alla menomazione morale, con condanna della Telecom S.p.A. al risarcimento del danno.
Con la prima domanda il bene della vita richiesto ha come scopo l’accertamento del diritto e la reintegra nelle mansioni mentre con la seconda viene chiesto il risarcimento del danno (domanda rigettata dalla corte di secondo grado). Orbene, il C. – come osservato dalla difesa della Telecom – mostra di non distinguere i profili risarcitori dalla domanda di accertamento del diritto (demansionamento) che di per sé non implica conseguenze risarcitone, fondandosi su presupposti operativi nettamente distinti; sicché, stante l’autonomia del petitum richiesto, la censura del C., che vorrebbe l’assorbimento della domanda risarcitoria nella statuizione sulle mansioni svolte, risulta palesemente inammissibile.
E’, invece, infondato il ricorso incidentale, con cui la società, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 345, 342 112 c.p.c., e artt. 2103 e 2697 c.c., nonché vizio di motivazione censura la sentenza per aver ritenuto inammissibile e, comunque, infondato il motivo d’appello in punto di accertamento della dequalificazione professionale del C.. Invero, come sopra chiarito, il Giudice a quo – e prescindendo dalla pur ritenuta inammissibilità della linea difensiva della società per violazione dell’art. 345 c.p.c., ha, come sopra chiarito, adeguatamente motivato le ragioni poste a fondamento della decisione sull’argomento sulla base della acquisita documentazione e della espletata istruttoria testimoniale.
L’errore metodologico del ricorrente principale sopra evidenziato, che si concretizza in un (indebita) commistione tra l’accertamento del diritto alle mansioni ed i profili risarcitoli, determina la palese infondatezza anche del secondo motivo di censura. Più in particolare, il ricorrente impugna la sentenza ritenendola contraddittoria per aver ritenuto l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del motivo di appello in ordine alle contestazioni sulla dequalificazione e per aver, tuttavia, rigettato (e riformato sul punto la prima sentenza) la domanda di risarcimento del danno per carenza probatoria.
Si ribadisce nuovamente che l’eventuale accertamento della dequalificazione professionale, non attribuisce ex se l’automatico ristoro senza il rispetto degli oneri allegatori e probatori prescritti dalla legge per l’attivazione della tutela risarcitoria, mentre nessuna rilevanza può attribuirsi alla circostanza, richiamata nel motivo in esame, dell’avvenuto infortunio lavorativo subito dal C. durante l’espletamento delle mansioni inferiori assegnategli, mancando ogni dimostrazione – così come affermato dal Giudice d’appello – del nesso causale tra detto infortunio e la lamentata perdita di professionalità e menomazione morale determinata dalla dequalificazione, posta a base della richiesta risarcitoria.
Fondato è invece il terzo motivo con il quale il C., denunciando violazione degli artt. 1, 2, 3, 35 e 41 Cost., in relazione all’art. 2103 c.c., lamenta che la Corte d’appello abbia negato il proprio diritto al risarcimento del danno, sul presupposto del mancato assolvimento, da parte sua, del relativo onere probatorio, senza considerare che l’esistenza del danno professionale può essere accertata anche tramite la prova presuntiva dal Giudice, che non può sottrarsi a una sua determinazione anche in via equitativa.
Il motivo, considerato nella sua sostanza, piuttosto che nei suoi termini formali, appare fondato.
Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita – lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso – deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimentro, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr. ex plurimis: Cass. 8 novembre 2003 n. 16792; Cass. 4 giugno 2003 n. 8904; Cass. 14 maggio 2002 n. 6992; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199). A tale riguardo è stato evidenziato che il danno derivante da dequalificazione può assumere diversa natura, potendosi tradurre in un impoverimento della capacità lavorativa acquisita dal lavoratore e dal mancato raggiungimento di una più elevata capacità, o nel pregiudizio derivante da perdita di chance (cioè possibilità di maggiori guadagni), o ancora nella lesione della propria integrità psico – fisica, o, più in generale, in una lesione alla salute ovvero alla vita di relazione, cui è riconducibile la fattispecie del danno esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro (artt. 1, 2 Cost.).
Orbene, la molteplicità degli indicati possibili pregiudizi, sulla cui configurabilità è doveroso il riferimento alle note decisioni dei Giudici della legge (Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184; Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372), spiega la necessità che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti (cfr. al riguardo Cass. 4 giugno 2003 n. 8904 cit.); prova, che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione.
Corollario di quanto ora affermato è che grava, come detto, sul lavoratore l’onere di fornire, in primo luogo, l’indicazione del tipo di danno subito, restando in ogni caso affidato al Giudice di merito – le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità – il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l’individuazione, appunto, della specie, e determinandone l’ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (cfr. tra le altre: Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 cit.).
Alla luce di quanto sinora detto la sentenza impugnata merita la censura che le è stata mossa.
Il C., infatti, con il motivo in esame, da collegare anche con talune precisazioni contenute nei due precedenti, si duole che la Corte territoriale, nell’escludere il lamentato danno, non abbia considerato la presenza nella vicenda in controversia di elementi probatori presuntivi quali la durata del demansionamento (nella specie, protrattosi sin dal luglio 1994) e la netta differenziazione delle mansioni corrispondenti alle figure di “assistente ad attività specialistiche” e “addetto ad attività specialistiche di tecniche numeriche” sia dal punto di vista della professionalità che dell’autonomia, responsabilità e posizione gerarchica all’interno dell’azienda. E non vi è dubbio, alla luce del principi elaborati da questa Corte in materia, che l’indagine del Giudice di merito andava portata anche e soprattutto su questo versante. Viceversa, la sentenza impugnata omette qualsiasi giudizio sulla idoneità degli elementi di fatto acquisiti alla causa ai fini di una valutazione per presunzione.
Sotto questo profilo, pertanto, il ricorso merita accoglimento, con conseguente annullamento della sentenza impugnata e rinvio per il riesame ad altro Giudice d’appello, designato in dispositivo, che provvedere anche alla regolamentazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie per quanto di ragione il ricorso principale e rigetta l’incidentale. Cassa l’impugnata sentenza in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari. Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2008