Cassazione Civile, sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024
La violazione di norme imperative, considerata dall’art. 1418, comma 1, c.c. quale causa di nullità del contratto, postula che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, comma 2, c.c.)
Va esclusa la nullità del contratto quando contrari a norme imperative siano comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione dello stesso, salvo che il legislatore la preveda espressamente.
Non determina nullità del contratto per difetto di accordo, in forza del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2 e 1325, n. 1, c.c., la mancanza di informazioni che non riguardino direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma solo elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione.
La responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative, o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio informativi) riconducibili a quel dovere, non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido o inefficace; bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto.
…Omissis….
Motivi della decisione
4 – Con i quattro motivi di ricorso, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, il ricorrente – denunziando vizio di motivazione, nonché violazione e falsa applicazione: a) dell’art. 6, lett. a, b, c, d, f, h, legge 2 gennaio 1991, n. 1, in relazione, rispettivamente agli artt. 1325 e 1418 c.c. e agli artt. 1337, 1338, 1375 e 1418 c.c.; b) del citato art. 6, lett. g, in relazione alla lett. c, stesso art. 6, nonché agli artt. 1325, 1326, 1343, 1350 n. 13, 1418, 1439 e 1440 – censura la sentenza impugnata per aver escluso la nullità dei contratti impugnati, senza considerare:
– che la stipulazione del contratto “quadro” non escludeva la natura negoziale delle singole operazioni d’investimento successivamente poste in essere e il loro assoggettamento ai principi generali in tema di invalidità dei contratti;
– che la mancata osservanza, da parte della banca, dei doveri di correttezza e degli obblighi d’informazione sanciti dalle lettere “a” – “f” dell’art. 6, l. 1/91, aveva fatto venir meno le condizioni per la manifestazione, da parte di esso esponente, di un consenso “libero e consapevole” e, quindi, l’esistenza di un requisito (l’accordo delle parti), la cui mancanza determina la nullità del contratto;
– che nel caso di specie il contratto era stato “concluso” in violazione di norme imperative e non poteva essere, quindi, chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto del principio di buona fede nel corso delle trattative, in quanto la c.d. responsabilità precontrattuale tutela il solo interesse “negativo”;
– che, non avendo dato la banca comunicazione “scritta” del proprio interesse conflittuale nelle singole operazioni poste in essere dopo la conclusione del contratto “quadro” e non essendo stata, conseguentemente, tale situazione accettata preventivamente “per iscritto” da essa esponente, come stabilito dalla lettera “g” dell’art. 6, doveva escludersi che i relativi contratti fossero stati stipulati “per iscritto”, così come stabilito dall’art. 6, lett. “c”.
5 – La censura di vizio della motivazione (sotto il profilo della sua contraddittorietà) è inammissibile. Essa attiene infatti, come si ricava chiaramente dalla lettura della sentenza impugnata, alla motivazione “in diritto”. La pretesa contraddittorietà è, invero, riferita agli argomenti posti dalla Corte territoriale a fondamento della tesi, secondo cui le prescrizioni dettate dall’art. 6, lett. a – b, c – f, l. 1/91 sarebbero relative alla fase delle “trattative precontrattuali” ovvero a quella “esecutiva” e, pertanto, la loro inosservanza sarebbe priva di incidenza sulla validità del contratto: non vi è dubbio, quindi, che tale doglianza non possa trovare ingresso in questa sede, essendo pacifico che il vizio prefigurato dall’art. 360, n. 5 c.p.c. concerne solo la motivazione “in fatto”. (Cass. 11 aprile 2000, n. 4593; 18 aprile 2002, n. 5582; 6 agosto 2003, n. 11883).
6 – Le altre censure sopra puntualizzate al Par. 4 sono ammissibili, ma infondate. L’addebito che con esse viene mosso, sotto diversi profili, alla Corte territoriale è quello di aver escluso l’incidenza della mancata osservanza, da parte della Banca, delle regole di comportamento sopra descritte nel Par. 2.1 sulla validità dei contratti di acquisto e di vendita “a termine” di valuta estera.
6.1 – L’assunto su cui si fonda la sentenza impugnata è che tali regole attengono alla fase delle trattative precontrattuali e che, pertanto, la loro inosservanza non può determinare la nullità del contratto, pur non essendo revocabile in dubbio che esse abbiano carattere imperativo (retro, Par. 3).
L’affermazione è corretta. La “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c. quale “causa di nullità” del contratto, postula, infatti, che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, comma 2, c.c.) i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto (Cass. 9 gennaio 2004, n. 111; 25 settembre 2003, n. 14234); a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore (ad es., art. 1469 ter, comma 4, c.c., in relazione all’art. 1469, quinquies, comma 1, stesso codice).
Né potrebbe sostenersi che l’inosservanza degli obblighi informativi sanciti dal citato art. 6, impedendo al cliente di esprimere un consenso “libero e consapevole” avrebbe reso il contratto nullo sotto altro profilo, per la mancanza di uno dei requisiti “essenziali” (anzi di quello fondamentale) previsti dall’art. 1325 c.c.. Invero, le informazioni che debbono essere preventivamente fomite dall’intermediario, a norma del citato art. 6, non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso.
6.2 – Del resto, contrariamente a quel che mostra di ritenere il ricorrente, non è affatto vero che, in caso di violazione delle norme che impongono alle parti comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del contratto, la parte danneggiata, quando il contratto sia stato validamente concluso, non avrebbe alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Tale tesi, un tempo non priva di riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 9 ottobre 1956, n. 3414; 12 ottobre 1970, n. 1948; 11 settembre 1989, n. 3922), poggia sull’assunto che l’ambito di rilevanza della responsabilità contrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato
la conclusione di una contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace. Di qui la conclusione che, dopo la stipulazione del contratto, ogni questione
relativa all’osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative sarebbe preclusa, in quanto la tutela del contraente sarebbe affidata, a partire da quel momento, solo alle norme in tema di invalidità e di inefficacia del contratto, la cui applicazione, pur essendo in alcuni casi ricollegata a comportamenti certamente non conformi a “buona fede”, è tuttavia subordinata alla ricorrenza di presupposti ulteriori (artt. 1434 –
1437, 1439, 1447 – 1448).
Si è però ormai chiarito che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti
e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto.
L’esame delle norme positivamente dettate dal legislatore pone in evidenza che la violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (artt. 1338, 1398 c.c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.).
6.3 – Si afferma comunemente che il risarcimento, in caso di responsabilità precontrattuale, è limitato al c.d. “interesse negativo” e deve, pertanto, essere commisurato alle spese sostenute per le trattative rivelatesi poi inutili e alle perdite subite per non aver usufruito di occasioni alternative di affari, non coltivate per l’affidamento nella positiva conclusione del contratto per il quale le trattative erano state avviate (in tal senso, tra le altre: Cass. 30 luglio 2004, n. 14539; 14 febbraio 2000, n. 1632; 30 agosto 1995, n. 9157; 26 ottobre 1994, n. 8778; 12 marzo 1993, n. 2973).
È tuttavia evidente che, quando, come nell’ipotesi prefigurata dall’art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace ma “sconveniente”, il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto posto in essere (il c.d. interesse positivo), non può neppure essere determinato, come nelle ipotesi appena considerate, avendo riguardo all’interesse della parte vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative, per la decisiva ragione che, in questo caso, il
contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l’interferenza del comportamento scorretto.
Il risarcimento, in detta ipotesi, deve essere ragguagliato al “minor vantaggio o al maggiore aggravio economico” determinato dal contegno sleale di una delle parti (Cass. 11 luglio 1976, n. 2840; 16 agosto 1990, n. 8318), salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento “da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto” (Cass. 29 marzo 1999, n. 2956).
Non vi è quindi motivo di ritenere che la conclusione di un contratto valido ed efficace sia di ostacolo alla proposizione di un’azione risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall’art. 1337 c.c. o di obblighi più specifici riconducibili a detta disposizione, sempre che, s’intende, il danno trovi il suo fondamento (non già nell’inadempimento un’obbligazione derivante dal contratto, ma) nella violazione di obblighi relativi alla condotta delle parti nel corso delle trattative e prima della conclusione del contratto.
7 – Resta l’ultimo rilievo, fondato sulla (asserita) violazione dell’art. 6, lett. g), l. 1/91, in relazione alla lett. c) dello stesso art. 6 e agli artt. 1325, 1326, 1343, 1350, n. 13, 1418, 1439, 1440 c.c.
La lett. g) del citato art. 6 poneva alle società di intermediazione il divieto di “effettuare operazioni con o per conto della propria clientela” se avessero “direttamente o indirettamente” un interesse conflittuale nell’operazione, a meno che non avessero “comunicato per iscritto al cliente la natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e il cliente non avesse preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto” alla sua effettuazione.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che queste prescrizioni (mantenute dalla disciplina vigente: art. 21, primo comma, lett. c, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, così come integrato dall’art. 27, secondo comma, Reg. Consob, 1° luglio 1998, n. 11522) erano state violate dalla banca, che aveva effettuato le operazioni richieste “in proprio”, invece che come intermediario, senza preavvertirlo in alcun modo (e tanto meno per iscritto) e senza acquisire preventivamente il suo consenso scritto. Di qui l’assunto che i contratti così posti in essere sarebbero nulli, perché privi del requisito di forma inderogabilmente stabilito dalla lettera “c” dello stesso art. 6.
È però agevole replicare che la forma scritta richiesta dalla lettera “g” per la segnalazione, da parte dell’intermediario, della situazione di conflitto di interessi e per l’autorizzazione, da parte del cliente, al compimento dell’operazione riguarda atti che, per espressa previsione legislativa, debbono essere posti in essere “preventivamente” e, quindi, prima della conclusione del contratto e non ricadono, pertanto, nell’ambito di applicazione della lettera “c” che prescrive la forma scritta per il contratto destinati regolati i rapporti l’intermediario e il cliente. È allora evidente, l’inosservanza della forma scritta per il compimento di tali atti non poteva determinare la nullità dei contratti successivamente stipulati, anche a voler ritenere il requisito di forma prescritto dalla lettera “c” riguardasse, già nel vigore della legge 1/91, non il (solo) contratto “quadro”, ma anche tutti i singoli contratti posti in essere tra l’intermediario e il cliente per regolare le singole operazioni poste in essere, come è stato successivamente chiarito in modo in equivoco dal legislatore (art. 18, comma 1, d.lgs., n. 415/96; art. 23, d.lgs. 58/98).
Il che, naturalmente, non esclude che l’inosservanza degli adempimenti prescritti dalla lettera “g” del citato art. 6 possa assumere rilievo, sotto altro profilo, alla stregua dei principi stabiliti dagli artt. 1394 e 1395 c.c., la cui applicabilità è rimasta peraltro estranea all’oggetto del presente giudizio e non può quindi venire in considerazione in questa sede.
…Omissis….