Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 27 novembre 2007 – 29 gennaio 2008, n. 2005
Svolgimento del processo
1.- Il Curatore del fallimento di R. Giuseppe (Fallimento), con citazione del 18 settembre 1992, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Taranto Sebastiano U. e Olga Anna L. (di seguito, Acquirenti), chiedendo che fosse dichiarato inefficace, ai sensi dell’art. 67 L. fall., secondo comma, e del primo comma, “ove occorra”, il contratto di compravendita stipulato in data 22 novembre 1991, con atto per notaio O. , con il quale i convenuti avevano acquistato dal R. , dichiarato fallito con sentenza del 17 dicembre 1991, un villino in Ginosa Marina.
I convenuti si costituivano in giudizio deducendo di avere stipulato il preliminare di vendita con persona diversa dal R. , dichiaratasi proprietaria dell’immobile, di avere pagato integralmente il prezzo e, comunque, di ignorare lo stato di insolvenza e chiedevano il rigetto delle domande.
Il Tribunale di Taranto, con sentenza del 30 gennaio 2001, rigettava la domanda.
2.- Avverso detta sentenza proponeva appello il Fallimento, chiedendone la riforma.
Gli acquirenti si costituivano in giudizio, deducendo l’Infondatezza del gravame.
La Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 30 ottobre 2003, rigettava l’appello, condannando il Fallimento alle spese del secondo grado.
Per quanto qui interessa, la sentenza: a) affermava che l’appellante, in primo grado, aveva “precisato che la sua domanda era da intendersi formulata ai sensi dell’art. 67, comma 2 legge fallimentare”, quindi doveva ritenersi nuova, come tale inammissibile, la domanda fatta valere invocando la sproporzione delle prestazioni, perciò riferita al primo comma di detta norma; b) escludeva che il Fallimento avesse provato la scientia decoctionis degli Acquirenti, ritenendo irrilevanti l’esistenza di procedure esecutive e protesti in danno del R. , in quanto: i testimoni avevano “dimostrato che gli acquirenti non avevano mai saputo che il vero proprietario dell’immobile era il R. , avendo sempre contrattato con colui che si era dichiarato tale, Pietro Giorgio, con cui avevano stipulato il preliminare (…) e al quale ne avevano pagato l’intero prezzo”; soltanto in occasione della stipula del contratto di compravendita gli Acquirenti avevano saputo che R. era il proprietario dell’immobile; non era possibile “pretendere nei convenuti la diligenza di consultare, vivendo a Potenza, le pandette, per verificare la situazione patrimoniale, in Taranto e provincia, di Giuseppe R. ”; l’affermazione degli Acquirenti in occasione della stipula del contratto definitivo, allorché appresero chi fosse il vero proprietario della villetta, poteva essere interpretata come “sfogo preoccupato di chi, all’improvviso, apprende novità gravi sulla titolarità della proprietà di qualcosa sostanzialmente già acquistata, pagata e goduta, senza tempo per riflettere, e fondatamente timorosa di perdere il denaro (…) per effetto della rivelazione” e, quindi, non aveva “valore indiziario serio” a conforto della tesi del fallimento.
3.- Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso il Fallimento, affidato a tre motivi, illustrati con memoria; hanno resistito con controricorso gli acquirenti, che hanno altresì proposto ricorso incidentale condizionato articolato in un motivo, depositando, fuori termine, memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1.- I ricorsi, principale ed incidentale, avendo ad oggetto la stessa sentenza, devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia (art. 335 c.p.c.).
2.- Il ricorrente principale, con il primo motivo, denuncia violazione degli artt. 112 e 306 c.p.c. e “dei principi in forza dei quali la rinuncia all’azione deve essere fatta dalla parte personalmente”, nonché omessa motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.).
A suo avviso, la Corte territoriale erroneamente non ha deciso la domanda di revoca ex art. 67, comma primo n. 1, l. fall., in quanto non è possibile “fondatamente sostenere che, avanti il Tribunale, il difensore del fallimento avrebbe precisato che la domanda proposta era quella” formulata ai sensi del secondo comma di detta norma. In ogni caso, siffatta precisazione configurerebbe una rinuncia alla domanda e, se la rinuncia agli atti del giudizio deve essere effettuata dalla parte personalmente, a fortiori ciò deve ritenersi per la rinuncia all’azione.
D’altronde, nel giudizio di primo grado era stata chiesta ed assunta c.t.u. sul valore dell’immobile, evidentemente in correlazione alla domanda proposta ai sensi dell’art. 67, primo comma, l. fall. ed anche in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado tale azione era stata richiamata, sicché sarebbe “evidente la omissione di motivazione circa un punto decisivo della controversia”.
2.1.- Il motivo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi, qualora si atteggi come espressione della facoltà della parte di modificare, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., le domande e le conclusioni precedentemente formulate, rientra fra i poteri del difensore, il quale, in tal modo, esercita la discrezionalità tecnica che gli compete nell’impostazione della lite e che lo abilita a scegliere, in relazione anche agli sviluppi della causa, la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato, quindi va distinta dalla rinunzia agli atti del giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale, nelle forme previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte (Cass. n. 1439 del 2002; n. 3734 del 1998; n. 2572 del 1998).
Inoltre, qualora il difensore della parte, comparso all’udienza di precisazione delle conclusioni, abbia precisato le proprie in modo specifico, le domande e le eccezioni non riproposte, ove non si riconnettano strettamente con altre specificatamente riproposte – come accade nella specie, configurando le diverse previsioni contenute nei due commi dell’art. 67 l. fall., ipotesi differenti di revoca (Cass. n. 1079 del 2004)-, ovvero dalla condotta processuale della parte non risulti che questa abbia voluto tenerle ferme, devono presumersi abbandonate o rinunciate, ciò che, per quanto sopra precisato, rientra appunto nei poteri del difensore (Cass. n. 14964 del 2006; n. 1281 del 2003; n. 140 del 2002).
Siffatta presunzione si fonda su un’interpretazione della volontà, riservata all’apprezzamento del giudice del merito, censurabile in questa sede esclusivamente per vizio di motivazione (Cass. n. 1281 del 2003; 26 ottobre 1994 n. 8784).
Nel quadro di questi principi, che vanno qui ribaditi, non avendo il Fallimento esposto ragioni che ne giustifichino la rimeditazione, occorre premettere che la sentenza ha affermato che «va anzitutto precisato che, avendo all’udienza del 23 maggio 1994 il procuratore costituito precisato che la sua domanda era da “intendersi formulata ai sensi dell’art. 67 II legge fallimentare”», le deduzioni svolte sul punto con l’atto di appello dovevano ritenersi “domanda nuova”. Pertanto, risulta palese che la Corte territoriale ha evidentemente ritenuto che la specificità delle conclusioni rassegnate doveva essere interpretata come abbandono della domanda che, per quanto sopra puntualizzato rientrava nei poteri del difensore, con conseguente infondatezza della tesi del ricorrente.
La conclusione affermata dalla pronuncia impugnata era quindi denunciabile, come pure sopra è stato sottolineato, esclusivamente per vizio della motivazione che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, richiede che il ricorrente offra la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati dall’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza (Cass. n. 20455 del 2006; n. 7846 del 2006; n. 18134 del 2004). Resta dunque escluso che con il vizio in esame la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice del merito, non potendosi risolvere la doglianza in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate (Cass. n. 15096 del 2005; n. 996 del 2003; n 3904 del 2000), occorrendo indicare, nell’osservanza del principio dell’autosufficienza, i brani degli atti difensivi, ovvero delle deduzioni svolte nel giudizio, che permettono di accertare le carenze, ovvero le incongruenze ed incoerenze logiche della motivazione.
Il Fallimento, non osservando detti principi, si è invece limitato a prospettare che non “potevasi fondatamente sostenere, in contrario, che, avanti il tribunale, il difensore del fallimento avrebbe precisato che la domanda proposta era quella imperniata sulla disposizione dell’art. 67, comma 2, legge fallim.”, con doglianza manifestamente inammissibile, siccome risolventesi in una assertiva deduzione dell’erroneità dell’interpretazione e nella mera contrapposizione della sua esegesi rispetto a quella offerta dal giudice del merito.
3.- Il Fallimento, con il secondo motivo, denuncia violazione dell’art. 67, secondo comma, l. fall., e dei principi che governano la conoscibilità dell’insolvenza. A suo avviso, nella specie “era almeno conoscibile – e certamente conosciuto – dagli acquirenti che il villino” era di proprietà del R. , quindi, la scientia decoctionis era da ritenersi provata sulla scorta dei protesti e delle procedure esecutive a carico di questi. La conoscibilità dell’insolvenza doveva, infatti, concernere “sia il reale proprietario sia le condizioni economico – finanziarie” del medesimo.
Con il terzo motivo, è denunciata omessa ed insufficiente motivazione circa punti decisivi della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c), in quanto la Corte territoriale non ha considerato che gli acquirenti, dopo la stipula del contratto preliminare, erano stati immessi nel possesso dell’immobile, abitandovi per tre anni (dal 1988 al 1991) e che il villino confinava con altra proprietà del R. . Pertanto, “non può credersi che le odierne controparti avessero ignorato chi fosse il reale proprietario”. Inoltre, in appello gli Acquirenti avevano dichiarato di avere pagato il prezzo al R. , ma “su tale riconoscimento è stata omessa ogni motivazione” e neppure è stata presa in esame l’istanza di ammissione dell’interrogatorio che avrebbe potuto chiarire chi aveva ricevuto il pagamento del prezzo.
3.1.- I motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto logicamente e giuridicamente connessi, sono fondati entro i limiti precisati di seguito.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore, della cui dimostrazione è onerata la curatela ai sensi dell’art. 67, secondo comma, l. fall., deve essere effettiva, non potenziale, e, tuttavia, può essere provata anche attraverso indizi aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto attinenti alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purché idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva. La relativa dimostrazione può dunque anche essere indiretta, e cioè offerta mediante la logica concatenazione di circostanze che, in base al criterio di normalità, assunto a parametro di valutazione, consente appunto la prova presuntiva della scientia decoctionis (per tutte, Cass. n. 10208 del 2007; n. 26935 del 2006; 10800 del 2006; n. 19894 del 2005; n. 13646 del 2004)
Questa prova si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza e, non essendo possibile una prova diretta degli stati soggettivi, è imprescindibile fare riferimento, mediante lo strumento delle presunzioni, alla esistenza di segni esteriori dell’insolvenza ed alla loro conoscibilità da parte del convenuto in revocatoria avendo riguardo al parametro astratto del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass. n. 17214 del 2004), accompagnandosi a tale necessità, “quale portato dello strumento utilizzato, l’irrilevanza di tutte le manifestazioni di ingenuità, di sprovvedutezza, di soggettivi errori di percezione attraverso le quali il terzo volesse accreditare, contro ogni ragionevole valutazione delle circostanze e contro ogni evidenza di segno contrario, una condizione di buona fede” (Cass. n. 1719 del 2001). Peraltro, occorre qui ribadire che se, da un canto, nello schema della presunzione non esiste un presunto dovere di conoscere, dall’altro, questo schema permette di valorizzare “regole di esperienze storicamente accertate, e quindi pratiche individuali o collettive realmente seguite in determinati contesti”, consentendo di desumere la conoscenza in presenza di “concreti collegamenti” tra i sintomi di conoscenza dell’insolvenza ed il terzo (Cass. n. 26935 del 2006; n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001; n. 3524 del 2000).
Nel caso in cui siano stipulati prima un contratto preliminare di compravendita, poi il contratto definitivo, l’accertamento degli elementi e dei presupposti dell’azione revocatoria fallimentare, anche in riferimento alla conoscenza dell’insolvenza, secondo l’orientamento di questa Corte al quale va data continuità, deve essere compiuto con riguardo al secondo, quale negozio in virtù del quale si verifica il trasferimento definitivo del diritto di proprietà, non anche al contratto preliminare di vendita (Cass. n. 2967 del 1993; n. 3165 del 1994; n. 500 del 1992; n. 11798 del 1991; n. 264 del 1981).
Infatti, è con il contratto definitivo che il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia della massa dei creditori, integrando così la fattispecie normativa in esame. D’altronde, neppure può sostenersi che il contratto preliminare renda dovuta, alle condizioni in precedenza stabilite, la disposizione patrimoniale, in quanto la disciplina dell’art. 1461 c.c. è applicabile al contratto preliminare e comprende anche il pericolo di vicende ablatorie connesse al dissesto della controparte, sicché il promissario ha facoltà di non stipulare il contratto definitivo, qualora al momento della stipulazione sussista pericolo di revoca dell’acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore (Cass. n. 3165 del 1994).
Nella specie, è incontroverso che il Fallimento ha appunto chiesto la dichiarazione di inefficacia del contratto definitivo. Inoltre, con i mezzi in esame, il ricorrente ha dedotto che era “almeno conoscibile – e certamente conosciuto – dagli acquirenti che il villino oggetto del contratto fosse di proprietà del R. Giuseppe” e, quindi, “in base ai protesti ed alle esecuzioni mobiliari ed immobiliari era conoscibile” lo stato di insolvenza di “quest’ultimo, come venditore del villino” e la “conoscibilità riguardava sia il reale proprietario sia le condizioni economico finanziarie” di questi. Pertanto, poiché le doglianze in esame concernono appunto l’erronea valutazione dei presupposti della domanda in riferimento ad un soggetto, e ad un atto, diverso da quello oggetto della domanda di revoca, risulta palese, alla luce dei succitati principi, che la sentenza non è immune dalle censure svolte dal Fallimento in quanto la motivazione, in violazione dei principi sopra enunciati, è completamente incentrata nel riferire la conoscibilità dell’insolvenza alla situazione in cui versava il promittente venditore – il quale non era proprietario del bene – e, erroneamente, non ha motivato, in modo logico e coerente, in ordine alla sussistenza dei presupposti dell’azione con riferimento al contratto definitivo, stipulato con il R. .
La Corte territoriale era chiamata appunto ad accertare se fosse conoscibile da parte degli acquirenti l’insolvenza non già del promittente venditore (e ciò indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla compatibilità del convincimento avuto dai controricorrenti alla data del preliminare in ordine al reale proprietario con le regole di ordinaria diligenza, tenuto conto del sistema di pubblicità immobiliare), bensì di colui con il quale avevano stipulato il contratto definitivo (e cioè il proprietario ed alienante, Giuseppe R. ) alla data della sottoscrizione del medesimo, essendo questo l’atto da revocare. D’altronde, essi, ovviamente, avevano avuto contezza di avere stipulato il contratto di compravendita con il R. e che questi era l’alienante, sottolineando la stessa sentenza che avevano avuto uno “sfogo preoccupato”, allorché avevano appreso “novità gravi sulla titolarità della proprietà” dell’immobile. In conseguenza dell’accoglimento del profilo preliminare delle censure, resta assorbito il profilo concernente la mancata ammissione dell’interrogatorio formale.
4.- Gli Acquirenti, con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato, denunciano violazione o falsa applicazione dei principi in tema di legittimazione processuale, violazione e falsa applicazione degli artt. 1478, 1479 c.c. e 67 l. fall. (art. 360 n. 3 c.p.c.), deducendo che il promittente venditore aveva taciuto di non essere proprietario del villino. A loro avviso, “quando il promittente alienante di cosa altrui si intende col vero proprietario per fargli trasferire direttamente il suo bene al promissario, adempie alla propria obbligazione, ma ciò non instaura un rapporto contrattuale tra promissario (acquirente) e vero proprietario”, in virtù di un principio che sarebbe stato in tal senso affermato da Cass. n. 15035 del 2001, di cui riportano alcuni brani. Pertanto, nella specie non sarebbe stato stipulato alcun negozio tra il fallito e gli Acquirenti, che quindi non erano passivamente legittimati nel presente giudizio e di tanto sarebbe stato consapevole il Fallimento che, infatti, aveva dedotto che essi nulla avevano dato al R. . Sotto un diverso profilo, l’azione revocatoria sarebbe inammissibile, in quanto aveva ad oggetto un negozio mai stipulato e, comunque, essi ricorrenti sarebbero “subacquirenti”, quindi, l’atto sarebbe stato revocabile soltanto provando che avevano acquistato l’immobile in mala fede, e cioè nella consapevolezza dell’illecito intercorso tra il promittente venditore ed il proprietario dell’immobile.
4.1.- Il motivo è infondato.
Le Sezioni Unite, componendo un contrasto sorto nella giurisprudenza di questa Corte in ordine alla modalità di adempimento dell’obbligazione assunta dal promittente venditore di una cosa altrui, hanno enunciato il principio secondo il quale il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell’altra parte, può adempiere la propria obbligazione non solo acquistando il bene e ritrasferendolo al promittente acquirente, ma anche “procurando il trasferimento del bene direttamente dall’effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso” Inoltre, hanno chiarito che all’affermazione del principio non osta la circostanza che l’identità del venditore non è indifferente per il compratore, dato che questi non risulta meno tutelato, relativamente all’evizione e ai vizi, tenuto conto che “la giurisprudenza si è orientata nel senso che la conclusione del definitivo, per tali profili, non assorbe né esaurisce gli effetti del preliminare, il quale continua a regolare i rapporti tra le parti, sicché il promittente alienante resta responsabile per le garanzie di cui si tratta” (Cass. S.U. n. 11624 del 2005, richiamando sul punto Cass. n. 15035 del 2001 che, a sua volta, si rifaceva a Cass. n. 1052 del 1986, entrambe citate dai ricorrenti incidentali).
La peculiarità della fattispecie va colta quindi nella circostanza, già affermata dall’orientamento richiamato dai ricorrenti incidentali, che la scelta per questa modalità di adempimento non libera il promittente venditore di cosa altrui dalla succitata responsabilità. Tuttavia ciò non significa affatto, come sostengono gli istanti, che il vero proprietario non assuma alcun obbligo e non abbia alcun rapporto con il compratore, dato che con l’affermazione estrapolata dagli Acquirenti dalla sentenza n. 15035 del 2001, questa pronuncia ha in realtà precisato, condivisibilmente, che, qualora il proprietario non aderisca al preliminare, ovviamente, egli “non assume alcun obbligo diretto nei confronti del promittente acquirente”, non già che non sussista alcun rapporto tra questi ed il promittente acquirente, qualora sia stipulato il contratto definitivo. Pertanto, il richiamo alle modalità con le quali, nel caso di preliminare di vendita di cosa altrui, il promittente acquirente può adempiere la propria obbligazione è inconferente e, qualora sia scelta quella consistente nel trasferimento diretto del bene dal proprietario (che non era promittente venditore) al promittente acquirente, parti del contratto di compravendita sono appunto queste ultime – salva la responsabilità del promittente venditore, nei termini e nei limiti sopra precisati – ed il titolo traslativo della proprietà è costituito appunto da questo contratto, che determina il trasferimento diretto del bene dal primo al secondo. Ne consegue che è priva di pregio la deduzione di inammissibilità dell’azione revocatoria, in quanto avrebbe avuto ad oggetto un “negozio mai intercorso”, essendo vero invece che l’unico atto produttivo dell’effetto traslativo, suscettibile di revoca, era appunto quello stipulato tra Giuseppe R. ed i ricorrenti incidentali, i quali neppure avevano la veste di subacquirenti.
5.- In conclusione, il primo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno rigettati; il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale vanno accolti e l’impugnata sentenza cassata, entro i limiti e nei termini sopra indicati, e la causa rinviata alla Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto che, in diversa composizione, procederà al riesame della controversia, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese di questa fase (art. 385, terzo comma, c.p.c.).
PQM
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il primo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, accoglie i restanti due motivi del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, anche per le spese di questa fase.