Cassazione – Sezione sesta – sentenza – 22 maggio 2008, n. 20663
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 9 giugno 1999 il G.u.p. presso il Tribunale di Lodi, in sede di giudizio abbreviato, dichiarava la responsabilità penale di Sante C. e Eduard A. per avere, in concorso tra loro, illegalmente detenuto e trasportato dall’Albania sostanza stupefacente di tipo marijuana, dai tre ai dieci chilogrammi per volta, fino ad un approvvigionamento massimo di trenta chilogrammi al mese, quantitativi successivamente ceduti al dettaglio a terze persone, tra cui alcuni minori di diciotto anni (capo A); C. , inoltre, veniva ritenuto responsabile anche dell’illecita detenzione e cessione ad Andrea G. e Nicola C. di stupefacenti di tipo L.S.D., cocaina e ecstasy (capo D), nonché di avere ceduto quantitativi di hashish e marijuana a Roberto A. (capo E).
La Corte d’appello di Milano, adita dagli imputati, riformava parzialmente la sentenza, assolvendo C. da alcuni episodi di acquisto di marijuana per non aver commesso il fatto e rideterminava la pena; per il resto confermava la decisione impugnata. Si apprende dalla sentenza d’appello che il procedimento è iniziato sulla base delle dichiarazioni rese spontaneamente dai minori Andrea G. e Nicola C., che hanno riferito ai Carabinieri particolari relativi ad un vasto traffico di droga dall’Albania all’Italia, gestito anche dai due imputati e nel quale anche essi erano stati coinvolti. I giudici hanno ritenuto attendibili le accuse dei due chiamanti in correità, riscontrate con alcune parziali ammissioni del C. e, soprattutto, con i risultati delle intercettazioni sulle utenze utilizzate dagli imputati, da cui sarebbe emerso il ruolo dell’A. , fornitore del C.
2. Nell’interesse di C. ha presentato ricorso per cassazione il suo difensore di fiducia e ha dedotto il vizio di motivazione della sentenza sotto differenti profili.
2.1. In ordine alla asserita valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie si contesta il rilievo che i giudici hanno dato alle chiamate in correità dei due minorenni, sostenendo che non siano stati individuati i necessari riscontri e che sia stato dato un giudizio di attendibilità generale alle dette dichiarazioni, giustificandolo prevalentemente con il fatto che i due si sarebbero recati spontaneamente dai Carabinieri, senza procedere ad una valutazione caso per caso della responsabilità dell’imputato in ordine ai diversi episodi contestatigli. In particolare, si evidenzia come i giudici non abbiano tenuto conto che dall’incidente probatorio, in cui sono stati assunti G. e C., sono emerse una serie di incongruenze e incertezze delle loro dichiarazioni, tra cui anche la ritrattazione di una pluralità di accuse, che avrebbero dovuto portare ad escludere radicalmente la loro stessa attendibilità intrinseca, ancor prima di procedere all’individuazione dei riscontri esterni. In ogni caso, stante l’obiettiva presenza di errori, contraddizioni e incoerenze nel narrato accusatorio dei due minorenni, i giudici di secondo grado avrebbero dovuto prestare un maggiore rigore valutativo nell’individuazione dei riscontri.
2.2. In ordine alla erronea valutazione dei riscontri a sostegno dell’attendibilità della chiamata di correo, il ricorrente evidenzia alcuni dei contenuti delle dichiarazioni rese dal G. nell’incidente probatorio, tra cui il debito contratto nei confronti del C. , il ruolo di contabile svolto dallo stesso G. nel rapporto con l’imputato, l’incertezza e le carenze con cui ha indicato altre persone coinvolte nel traffico, in relazione alle quali lo stesso pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione, nonché il riferimento a quanto sarebbe accaduto nella caserma dei Carabinieri, da cui emergerebbe l’inattendibilità dei propalanti, che avrebbero accusato ingiustamente una pluralità di persone.
2.3. Inoltre, si sottolinea che molte delle accuse sarebbero state apprese direttamente dal C. , altre da voci correnti nel paese; si rileva che i giudici non avrebbero dovuto procedere ad un riscontro reciproco delle dichiarazioni rese dai due chiamanti, tenendo conto che dall’incidente probatorio è emerso che si sarebbero preventivamente accordati al fine di avallare reciprocamente le loro dichiarazioni.
2.4. Il ricorrente ha poi esaminato i vari episodi per i quali l’imputato è stato condannato. In relazione all’acquisto di otto chili di marijuana da soggetti non identificati, viene contestato che le dichiarazioni rese da Gianluca e Sante P. operino come riscontro alle accuse di G.; per quanto concerne l’acquisto di due chili di marijuana, poi affidata al G. per il trasporto da S. Donato Milanese a Santo Stefano Lodigiano, si assume che la testimonianza resa dal tassista G. non dimostri affatto l’avvenuto trasporto della droga; riguardo all’altro acquisto di marijuana (4 chili) affidata al G. e al C. per il trasporto, viene ribadita l’insufficienza della motivazione che fonda la condanna sul reciproco riscontro delle dichiarazioni rese dai due minorenni.
2.5. Infine, a sostegno della totale inattendibilità del G., il ricorrente porta ad esempio le versioni contraddittorie che il G. avrebbe offerto sulla vicenda della pizzeria Piccola Parigi. 2.6. Per quanto concerne i fatti contestati ai capi D) ed E), il ricorrente rileva che i giudici avrebbero dovuto applicare l’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/1990, trattandosi di quantitativi modesti.
3. Eduard A. ha presentato personalmente ricorso per cassazione.
3.1. Con un primo motivo ha dedotto la violazione dell’art. 110 c.p. In relazione agli artt. 192, 195 e 62 c.p.p. Si assume che la responsabilità dell’imputato sia fondata sulla sola chiamata in correità di Andrea G., senza alcun riscontro, non potendo essere utilizzata la dichiarazione de relato resa da Nicola C., che ha riferito cose apprese dal coimputato C. , con conseguente divieto posto dall’art. 62 c.p.p., e dovendo escludersi che gli ulteriori elementi indicati dai giudici di merito a sostegno della tesi accusatoria possano essere considerati riscontri. Inoltre, si rileva che non risulta dimostrato alcun concorso nella cessione della droga.
3.2. Con altro motivo viene dedotta la violazione degli artt. 110 e 59 c.p. in relazione all’art. 80 comma 1 lett. a) d.P.R. 309/1990. Si contesta l’applicazione dell’aggravante citata, in quanto risulta provata solo la cessione dello stupefacente dall’A. al C. , mentre la sentenza non ha dimostrato la prevedibilità, in capo al ricorrente, che parte della droga sarebbe stata ceduta a minorenni; inoltre, si rileva che la motivazione con cui i giudici attribuiscono l’aggravante all’imputato, in relazione al fatto che non poteva “non sapere” la destinazione finale dello stupefacente dati “gli stretti vincoli di collaborazione con il C. “, poggia su elementi incerti, presuntivi ed illogici, laddove secondo la previsione dell’art. 59 c.p. le circostanze devono ritenersi sussistenti solo se conosciute ovvero ignorate per colpa.
Motivi della decisione
4. I motivi contenuti nel ricorso del C. sono tutti infondati.
4.1. Per quanto riguarda le censure mosse alla sentenza impugnata per avere ritenuto l’attendibilità intrinseca dei due dichiaranti, deve rilevarsi che si tratta di critiche a cui i giudici di merito hanno già offerto adeguate ed appaganti risposte nella misura in cui hanno dimostrato, con motivazione immune da vizi logici e fondata su un attento esame degli elementi di prova acquisiti, che G. e C., presentatisi spontaneamente ai Carabinieri, non avevano motivazioni di personale avversione o di malanimo nei confronti dei loro coimputati e che, oltre a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi, si sono autoaccusati di una serie di reati ancor prima di essere coinvolti nelle indagini, fatti che i giudici hanno ritenuto sintomatici della piena credibilità dei chiamanti in correità. Il giudizio di attendibilità intrinseca rappresenta un momento preliminare alla comparazione con i riscontri, quasi una fase preparatoria alla verifica richiesta dall’art. 192 comma 3 c.p.p. ed infatti la Corte d’appello dapprima ha sciolto il problema della credibilità dei dichiaranti in relazione alla loro personalità, al loro passato, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima delle loro risoluzioni alla confessione e all’accusa dei complici; in secondo luogo, ha verificato l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni alla luce di criteri come quello della precisione, coerenza, costanza, spontaneità; infine, ha esaminato i riscontri esterni. In questo modo, i giudici d’appello hanno correttamente valutato le chiamate in correità, sia dal punto di vista soggettivo, che oggettivo, secondo i criteri evidenziati in più occasioni da questa Corte (v., Sez. II, 12 dicembre 2002, p.g. in proc. Contrada).
4.2. Il ricorrente assume che nella specie la Corte d’appello avrebbe operato una impropria valutazione frazionata delle dichiarazioni, senza tenere conto dei singoli episodi contestati, procedendo, cioè, in modo automatico a considerare l’attendibilità dei dichiaranti per l’intera narrazione. A questo proposito deve premettersi, sulla base di un orientamento giurisprudenziale ormai pacifico, che la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie del chiamante in correità è ammissibile, a condizione che non esista un’interferenza fattuale e logica tra la parte della narrazione ritenuta falsa o non confermata e le restanti parti che siano intrinsecamente attendibili e che reggano alla verifica dei riscontri (tra le tante v., Sez. I, 17 marzo 2006, n. 24466, Morfò; Sez. VI, 20 aprile 2005, n. 6221, Aglieri; Sez. I, 21 aprile 1997, n. 4495, Di Corrado; Sez. VI, 22 gennaio 1997, n. 5649, Dominante). La stessa giurisprudenza ha precisato che l’interferenza, che pregiudicherebbe il ricorso alla valutazione c.d. frazionata, si verifica solo quando tra una parte e le altre esiste un rapporto di causalità necessaria o quando l’una sia imprescindibile antecedente logico dell’altra e sempre che l’inattendibilità di alcune parti della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante (Sez. IV, 10 dicembre 2004, n. 5821, Alfieri; Sez. I, 18 dicembre 2000, n. 468, Orofino).
Ebbene, deve riconoscersi che anche in questo caso i giudici d’appello abbiano fatto corretto uso di tali principi e ritenuto l’attendibilità dei due chiamanti, sebbene denegata per alcune parti del loro racconto, escludendo che tale circostanza abbia provocato un negativo coinvolgimento delle accuse nel confronti di C. e A. , per le quali sussistono idonei riscontri. Nella sentenza si rileva che il fatto che alcuni soggetti indicati da G. e C. come spacciatori organicamente dipendenti dal C. siano stati scagionati per mancanza di obiettivi riscontri, non può condurre in maniera automatica a ritenere inattendibili le chiamate in correità a carico dello stesso C. che, invece, i necessari riscontri hanno ricevuto. Per queste ragioni le circostanziate deduzioni contenute nel ricorso sono da ritenere del tutto prive di pregio. Invero, nel ricorso si cerca di svalutare l’analitica individuazione dei riscontri esterni operata nella sentenza, sostenendo che la intrinseca inattendibilità dei chiamanti in correità avrebbe dovuto addirittura impedire di passare alla fase della valutazione dei riscontri: ma si tratta di un ragionamento viziato, che di fatto tende a disapplicare i principi che la giurisprudenza ha dettato in materia di valutazione frazionata delle dichiarazioni, in quanto finisce per dare esclusiva rilevanza solo a quelle parti delle dichiarazioni accusatorie che non hanno ricevuto adeguati riscontri. Al contrario, la ricerca e la valorizzazione dei riscontri è funzionale proprio per giustificare l’utilizzabilità delle dichiarazioni c.d. frazionate. Peraltro la sentenza impugnata ha puntualmente individuato i riscontri alle chiamate in correità del C. .
4.3. Proprio sul piano dei riscontri, il ricorrente critica la sentenza là dove ha ritenuto reciprocamente riscontrabili le dichiarazioni di G. e di C.. A questo proposito si osserva che la giurisprudenza ritiene che i riscontri possano essere di qualsiasi tipo o natura, purché siano estrinseci alla chiamata di correo (Sez. un., 3 febbraio 1990, Belli). Ed infatti sono state ricomprese nell’ambito dei riscontri richiesti dall’art. 192 comma 3 c.p.p., oltre alle prove indiziarie o alle prove documentali, anche le dichiarazioni provenienti da altri coimputati (Sez. II, 30 aprile 1999, p.m. in proc. Cataldo; Sez. I, 31 marzo 1998, D’Amora; Sez. VI, 6 febbraio 1997, Picarella; Sez. I, 23 giugno 1992, Bono). Naturalmente una chiamata di correo, che trovi riscontro unicamente in un’altra chiamata di correo, può rappresentare un rischio per la decisione del giudice, il quale si trova a fondare un’eventuale condanna su elementi di prova rispetto a cui l’imputato potrebbe anche non aver esercitato alcuna verifica in contraddittorio ed è per questo che si ammette il riscontro c.d. incrociato in presenza di ulteriori cautele, tese ad escludere che la concordanza tra le dichiarazioni derivi da un preventivo accordo tra i dichiaranti. In particolare, si richiede che per l’efficacia di questo tipo di riscontro il giudice debba ragionevolmente escludere “una coincidenza soltanto fittizia derivante da fattori accidentali o, peggio ancora, manipolatori ovvero che la convergenza si riveli come la risultante di collusioni o di reciproche influenze o dell’allineamento di dettagli in origine divergenti in ognuna delle dichiarazioni” (Sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi; Sez. I, 31 marzo 1998. D’Amora; Sez. VI, 12 dicembre 1995, Gentile; Sez. II, l ottobre 1996, Pagano; Sez. V, 4 settembre 1993, Dell’Anna).
È evidente da quanto precede come la giurisprudenza non richieda che il riscontro incrociato delle chiamate in correità sia doppiato da un ulteriore riscontro effettuato con un elemento esterno ed oggettivo rispetto alle stesse, così come sostenuto nel ricorso, in quanto in presenza di determinate condizioni è sufficiente la reciproca verifica delle due narrazioni accusatorie rese dai coimputati o dagli imputati in procedimento connesso o collegato. Qualunque prova, a prescindere dalla sua natura, è astrattamente idonea a confermare la dichiarazione accusatoria resa dal correo e nel caso di riscontri incrociati la giurisprudenza, come si è visto, tende ad una valutazione unitaria della chiamata in correità, insistendo non solo sul giudizio inerente l’attendibilità intrinseca del coimputato in ragione della sua personalità o del concreto modo di atteggiarsi delle sue affermazioni, ma richiedendo una verifica circa la genesi della dichiarazione, al fine di escludere ogni ipotesi di accordo tra i narranti.
4.4. In ordine ai vari episodi contestati nell’ambito del capo A) dell’imputazione le censure proposte dal ricorrente e relative alla presunta mancanza di riscontri si infrangono sulle solide motivazioni della sentenza impugnata. La responsabilità del C. per l’acquisto degli otto chili di marijuana con la mediazione di A. e di M. è affermata in base alle accuse di G., che riferisce l’episodio de visu ed de auditu, riscontrate dalle dichiarazioni di Gianluca Poliedri e dei suoi genitori (peraltro, la sentenza precisa come le dedotte inesattezze sull’esposizione debitoria del G. possano essere frutto di confusione, circostanza comunque irrilevante ai fini della sua credibilità). Per quanto concerne l’episodio dell’acquisto di due chili di marijuana poi affidata al G. per il trasporto a Santo Stefano Lodigiano, le prove del pieno coinvolgimento dell’imputato sono costituite dalle accuse dello stesso coimputato chiamante in correità, riscontrate dalla testimonianza del tassista (G.) che effettuò il trasportò del G.. In questo caso, il ricorrente ha riproposto le medesime censure presentate in appello, senza prendere in alcuna considerazione le motivazioni che sul punto hanno dato i giudici, rappresentando che le dichiarazioni del tassista costituiscono riscontro alle chiamata in correità, per cui non devono avere la consistenza di una prova autonoma, ma possono limitarsi a confermare, anche indirettamente, le accuse.
Riguardo all’episodio dell’acquisto di quattro chili di marijuana poi consegnati al G. e al C. per il trasporto a Santo Stefano Lodigiano, le accuse sono rappresentate dalle convergenti dichiarazioni dei due stessi coimputati. In questo caso il ricorrente ha dedotto una carenza motivazionale, in quanto la sentenza avrebbe “ignorato che i propalanti hanno dichiarato in sede di incidente probatorio di essersi preventivamente accordati tra di loro, al fine di avallare vicendevolmente le reciproche dichiarazioni”: tuttavia, si tratta di una circostanza che non trova alcun riscontro nelle sentenze di merito, anzi in quella d’appello viene affermato esplicitamente che le dichiarazioni accusatorie sono state rinnovate anche nel corso dell’incidente probatorio. D’altra parte, anche volendo considerare che il ricorrente abbia voluto dedurre una sorta di travisamento della prova, secondo la nuova disciplina contenuta nell’art. 606 lett. e) c.p.p., deve ritenersi l’inammissibilità del motivo, in quanto questa Corte ha, in diverse occasioni, affermato che il nuovo testo della disposizione citata nel far riferimento ad “altri atti del processo”, che devono essere specificamente indicati dal ricorrente, ha dettato una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) c.p.p., secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, con l’effetto di porre a carico del ricorrente un peculiare onere di inequivoca individuazione e di specifica rappresentazione degli atti processuali che intende far valere, nelle forme di volta in volta più adeguate, compresa l’allegazione degli stessi atti (Sez. VI, 15 marzo 2006, n. 10951, Casula; Sez. VI, 26 aprile 2006, n. 22257, Maggio). Nella specie, il ricorrente non ha assolto a tale onere di allegazione, per cui questa Corte non può verificare l’esistenza del vizio di motivazione dedotto, non essendo tenuta a ricercare e ad acquisire tale atto.
4.6. Infondato è anche l’ultimo motivo con cui il ricorrente, con riferimento agli episodi contestati ai capi D) ed E), relativi a cessioni di quantitativi di sostanze stupefacenti a minorenni, lamenta la mancata applicazione dell’attenuante prevista dal comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/1990. Deve ritenersi che tra la circostanza aggravante della cessione a minori di sostanza stupefacente e l’ipotesi attenuata del fatto di lieve entità sussista una evidente incompatibilità, in quanto il fatto stesso della cessione a minori, per la sua maggiore intrinseca pericolosità, rende più grave l’azione delittuosa ed esclude l’applicazione dell’ipotesi attenuata, anche in costanza di altri elementi sintomatici, in astratto, della lieve entità del fatto (Sez. IV, 11 luglio 1991, n. 10793, P.M. in proc. Spanazzi; Sez. IV, 29 aprile 1992, n. 6672, P.G. in proc. Fares).
4.7. In conclusione, alla rilevata infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
5. Infondato è anche il primo motivo contenuto nel ricorso presentato da Eduard A. , con cui si censura la sentenza che ha riconosciuto la responsabilità dell’imputato per l’intermediazione nell’acquisto degli otto chili di marijuana: si assume infatti che non vi siano riscontri alla chiamata in correità del G., in quanto tale non può ritenersi la dichiarazione accusatoria del C., che avrebbe riferito fatti appresi de relato, dallo stesso C. . Nel caso in esame i giudici d’appello, oltre a evidenziare la piena attendibilità di G. e di C., per avere comunque riferito di essere a conoscenza del ruolo di fornitore ricoperto da A. , trattandosi di notizia nota nell’ambiente, hanno individuato elementi di riscontro alla chiamata in correità sia nel contributo dichiarativo dei Poliedri, presso la cui abitazione è stata depositata la valigia con lo stupefacente, sia nel risultato di alcune intercettazioni da cui è emersa la frequenza dei contatti dell’A. con il C. .
Pertanto, la motivazione con cui la sentenza impugnata ha giustificato la responsabilità dell’imputato nell’episodio contestatogli non merita le critiche mosse nel ricorso.
6. Diverso è invece il discorso in ordine all’altro motivo, con cui si è dedotta l’erronea applicazione della circostanza aggravante della consegna dello stupefacente a minori. Sul punto, oggetto di uno specifico motivo d’appello, la sentenza ha motivato riconoscendo la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80 comma 1 letto a) d.P.R. 309/1990 sulla base degli “stretti vincoli di collaborazione” che legavano A. con il C. , tali da rendere “ragionevolmente ipotizzabile” che l’imputato fosse a conoscenza della destinazione finale dello stupefacente dallo stesso procacciato, come pure della minore età dei collaboratori del C. .
Nel caso di specie, trova applicazione il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti previsto dall’art. 59 comma 2 c.p., come modificato dall’art. 11 della legge 7 febbraio 1990, n. 3. Il legislatore con questa riforma ha compiuto una scelta fondamentale, che porta ad escludere che per la operatività delle circostanze sia sufficiente la loro obiettiva esistenza, ritenendo invece necessaria l’esistenza di un coefficiente psicologico di imputazione all’autore, seppure richiedendo un legame meno intenso rispetto a quello necessario per gli elementi essenziali del reato. Ne consegue che per attribuire l’evento aggravato al soggetto agente debba necessariamente postularsi la sua “colpevolezza” anche in relazione alla circostanza contestata, che per essere accollata all’agente deve ancorarsi a un coefficiente di prevedibilità concreta.
La sentenza si è resa conto che per poter affermare la sussistenza della circostanza aggravante di cui al citato art. 80 d.P.R. 309/1990 doveva individuare una forma di “colpevolezza” dell’imputato, dimostrando che la circostanza della cessione dello stupefacente ai minori fosse conosciuta (ovvero ignorata per colpa o ritenuta insistente per errore dovuto a colpa) e ha ritenuto che l’elemento psicologico richiesto dal comma 2 dell’art. 59 c.p. potesse essere ragionevolmente desunto dagli “stretti vincoli di collaborazione” intercorrenti tra i due coimputati. Invero, si tratta di una spiegazione carente e insoddisfacente, perché l’esistenza del dato, obiettivamente accertato, di una intensa collaborazione nel traffico di sostanze stupefacenti tra gli attuali ricorrenti non equivale a provare la conoscenza circa la destinazione della droga fornita al C. e tanto meno la consapevolezza delle condizioni soggettive dei destinatari. Peraltro, la stessa sentenza riconosce all’A. un ruolo preciso nelle vicende dei traffici illeciti oggetto del procedimento, ossia quello di fornitore del C. , per cui può apparire altrettanto ragionevole ipotizzare che il rapporto tra i due non contemplasse anche la conoscenza da parte dell’A. dei collaboratori del C. e dei destinatari della droga di volta in volta fornita.
Ne consegue che sul punto la sentenza deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d’appello perché, applicando i principi sopra indicati, riconsideri, in piena libertà di giudizio, la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 80 comma 1 lett. a) d.P.R. 309/1990.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di Sante C. , che condanna al pagamento delle spese processuali.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Eduard A. limitatamente alla contestata circostanza aggravante di cui all’art. 80 comma 1 lett. a) d.P.R. 309/1990 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso di Eduard A. .