Cassazione – Sezione prima penale – sentenza 22 novembre 2007 – 15 gennaio 2008, n. 2113
Ritenuto in fatto
Con sentenza in data 7 marzo 2006 il Tribunale di Sciacca ha dichiarato R. Salvatore colpevole della contravvenzione all’art. 660 c.p commessa ai danni di S. Carmela, in Caltabellotta fino al 29.5.2002, e lo ha condannato alla pena di Euro 300 di ammenda, oltre che al risarcimento dei danni morali in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, liquidati in complessivi Euro 500,00.
Il Tribunale ha ritenuto provata la tesi accusatoria, per cui il R. aveva molestato la S. seguendola con la propria autovettura per motivi biasimevoli, sulla base dell’esame della persona offesa e dei testi S. Giovanni e B. Giuseppa, rispettivamente figlio e moglie separata del R. , della cui attendibilità non si poteva dubitare, posto che non avevano neppure intentato azioni giudiziarie per tale fatto. Attraverso l’esame di tali testi, non smentiti ed anzi sostanzialmente confortati dalle dichiarazioni del teste a difesa Lo C., era emerso, secondo la ricostruzione del Tribunale, che il R. aveva seguito con la macchina la ex moglie e quindi anche la cognata di costei, S. Carmela, che la accompagnava alla guida della propria autovettura, in più occasioni e fino all’episodio del 29.5.2002 nel corso del quale la persona offesa aveva avuto l’impressione che il R. volesse addirittura farla finire fuori strada.
La difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza e contro la ordinanza del Tribunale in data 14.6.2005, che aveva già rigettato le stesse eccezioni, lamentando: la citazione a giudizio era nulla in quanto l’imputato era stato informato del processo soltanto in data 24.2.2005, con la richiesta della rinnovazione della citazione a giudizio, non avendo mai ricevuto la notifica né della richiesta di proroga delle indagini in data 1.3.2003 né dell’avviso di conclusione delle indagini in data 16.10.2003; la notificazione della richiesta di citazione a giudizio era avvenuta quando era già maturato il termine triennale di prescrizione rispetto alla iniziale data di commissione del reato, contestato inizialmente fino al 21.9.2001; anche volendo considerare, peraltro, come data di commissione del reato quella del 29.5.2002, secondo la contestazione suppletiva eseguita dal P.M. all’udienza del 14.6.2005, il reato era già prescritto al momento della contestazione; la motivazione della sentenza era contraddittoria poiché i testi non avevano parlato di episodi precedenti a quello del 29.5.2002 ed anche con riferimento all’episodio del 29.5.2002 avevano riferito che l’imputato era fermo con la propria autovettura lungo la strada per cui transitava la S. .
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per la inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, con cui il ricorrente deduce la nullità della citazione a giudizio per omessa notificazione sia della richiesta di proroga delle indagini che dell’avviso di conclusioni delle indagini, il Tribunale, con la ordinanza in data 14.6.2005, ha già rilevato che le notificazioni dei suddetti atti erano ritualmente avvenute nel domicilio eletto presso il difensore, per cui la impugnazione della ordinanza che non contesta la motivazione della stessa si appalesa generica e, come tale, inammissibile. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento della impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di specificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c, all’inammissibilità (v., per tutte, Cass. 18.9.1997, Ahmetovic, rv. 210157).
Il secondo motivo è ugualmente manifestamente infondato.
A norma dell’art. 160, comma 2, c.p. il corso della prescrizione è interrotto dal decreto di citazione diretta a giudizio di cui all’art. 552 c.p.p. con decorrenza dal momento in cui l’atto è perfezionato con la sottoscrizione del Pubblico Ministero e non già dalla data della sua notificazione, come assume il ricorrente (v. Cass. Sez. Un. 16 marzo 1994, Munaro; Cass. Sez Un. 18 dicembre 1998, Boschetti). E’ infatti il momento della emissione di uno degli atti interruttivi che dimostra l’interesse dello Stato di perseguire colui che viene indicato come responsabile e non anche il momento in cui tale atto viene a conoscenza dell’interessato, che può essere anche successivo e dipendere da fattori estranei alla volontà del Pubblico Ministero di perseguire l’indagato, cosi come avviene anche per la sentenza o per il decreto di condanna in cui rileva ugualmente, ai fini interruttivi, la data di emissione dell’atto e non quella, eventualmente successiva, in cui l’atto viene portato a conoscenza dell’imputato. Ne consegue che, poiché il decreto di citazione è stato nella specie emesso il 2.11.2003, non era a quella data ancora decorso il termine triennale di prescrizione (art. 157, comma 1, n. 5, c.p, nella formulazione previgente alla modifica legislativa di cui all’art. 6 della legge 5.12.2005 n. 251, applicabile nella specie perché più favorevole all’imputato, in virtù della disposizione transitoria di cui all’art. 10 della legge citata) neppure con riguardo alla iniziale contestazione concernenti fatti commessi fino al 21.9.2001, poi estesi fino al 29.5.2002. Il termine di prescrizione non è poi decorso neppure successivamente tenuto conto dei successivi atti interruttivi e delle sospensioni del processo.
Quanto poi al lamentato vizio di motivazione della sentenza, questo, anche dopo la novella legislativa dell’ari. 606, lett. e, c.p.p. contenuta nella legge del 20 febbraio 2006 n. 46, può essere denunciato nel giudizio di legittimità o nel caso di inesistenza (cui correttamente si equipara la mera apparenza) di un apparato argomentativo a sostegno della decisione impugnata, ovvero nel caso di manifesta illogicità emergente dal testo dalla decisione stessa o con riguardo ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame (e quindi non riconducibile ad una diversa interpretazione del quadro probatorio, in chiave di logica alternativa di quello esistente).
Nessuna di tale due ipotesi ricorre nel caso in esame.
Il giudice di merito, ai fini della ricostruzione dei fatti consistenti in ripetuti ed insistenti episodi di inseguimento in macchina, fino all’ultimo del 29.5.2002 (che si era rivelato più grave dei precedenti in quanto la vittima aveva intuito che l’imputato voleva passare addirittura alle vie di fatto, buttandola fuori strada per costringerla a fermarsi), si è basato su ben tre testimonianze ritenute attendibili in quanto disinteressate e concordanti, oltre che sulla individuazione di una causale che giustificava le molestie per motivi di rivalsa che coinvolgevano la ex moglie che lo aveva lasciato e che veniva “scortata” dalla cognata e quindi su un apparato argomentativo complesso che non ha trascurato alcuna emergenza processuale. E tale conclusione non è sindacabile in sede di legittimità perché aderente ai principi di diritto ed inoltre sorretta da logica e puntuale motivazione, saldamente ancorata alle risultanze del quadro probatorio.
In ogni caso, di fronte a tale apparato argomentativo completo e sostenuto da logica ineccepibile che ha portato ad attribuire all’imputato la condotta sanzionata sulla base di univoci e convergenti elementi oggettivi, la difesa si limita a ribadire la tesi già sostenuta nel giudizio di merito in chiave di logica alternativa alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, seguendo quindi un procedimento che non è consentito nel presente giudizio.
Il ricorso deve essere pertanto respinto perché infondato sotto tutti i profili addotti, con le conseguenze di legge in punto di spese.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.