Cassazione Penale – Sentenza 10 giugno 2008 , n. 23119
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La Corte d’appello di Milano ha accolto l’istanza di equa riparazione avanzata da X per l’ingiusta detenzione subita dall’8 ottobre 1997 al 29 settembre 1998 in carcere e fino al 22 luglio 1999 agli arresti domiciliari; ed ha liquidato un indennizzo di 130.000 euro.
2. Ricorre per cassazione lo X deducendo violazione di legge e vizio della motivazione per ciò che attiene alla determinazione dell’indennizzo.
Si afferma che la Corte territoriale, pur riconoscendo l’esistenza di un danno derivante dall’ingiusta detenzione di particolare rilevanza, ha ritenuto di non potersi discostare dal parametro aritmetico dell’indennizzo individuato dalla giurisprudenza di legittimità. Tale enunciazione è erronea poiché l’indicato criterio è solo indicativo. La giurisprudenza delle Sezioni unite ha infatti precisato che l’unico parametro inderogabile è quello massimo, normativamente individuato in 516.456 euro.
3. Il ricorso è fondato.
La Corte d’appello ha ritenuto che il computo del riconosciuto indennizzo debba essere determinato sulla base del criterio aritmetico indicato dalla giurisprudenza di legittimità, che conduce ad importo giornaliero di euro 235,83, che non può essere per alcuna ragione superato. Si reputa che tale indirizzo potrebbe essere riconsiderato; ma che, allo stato, occorra attenervisi sebbene le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’ingiusta detenzione subita siano di notevole rilevanza.
In realtà l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte è diverso da quello enunciato. Si è da tempo enucleato, infatti, un canone base per la liquidazione del danno, costituito dal rapporto tra la somma massima posta a disposizione dal legislatore, la durata massima della custodia cautelare e la durata dell’ingiusta detenzione patita. La somma che deriva da tale computo (euro 235,82 per ciascun giorno di detenzione in carcere) può essere ragionevolmente dimezzata (euro 117,91) nel caso di detenzione domiciliare, attesa la sua minore afflittività. Tale aritmetico criterio di calcolo costituisce, però, solo una base utile per sottrarre la determinazione dell’indennizzo all’imponderabile soggettivismo del giudice e per conferire qualche uniformità ed oggettività al difficile giudizio di fatto. Il meccanismo in questione individua l’indennizzo in una astratta situazione standard, nella quali i diversi fattori ai danno derivanti dall’ingiusta detenzione si siano concretizzati in modo medio, ordinario. Tale valore può subire rimaneggiamenti verso l’alto o verso il basso sulla base di specifiche contingenze proprie del caso concreto, ferma restando la natura indennitaria e non risarcitoria della corresponsione di cui si parla. Occorre quindi esaminare i fattori documentati, afferenti alla personalità ed alla storia personale dell’imputato, al suo ruolo sociale professionale e sociale, alle conseguenze pregiudizievoli concretamente patite e tutti gli altri di cui sia riscontrata la rilevanza e la connessione eziologia con l’ingiusta detenzione patita. Il calcolo finale ben potrà essere il frutto della ponderazione di documentati fattori di segno contrario. Ai giudici si chiede una valutazione equitativa, discrezionale. Ma ciò non significa affatto che, come sopra accennato, ci si debba affidare ad una ponderazione intuitiva che si sottragga all’analisi ed alla valutazione delle indicate contingenze rilevanti. Al contrario, proprio quando compie valutazioni discrezionali, il giudice è tenuto ad offrire una motivazione che, magari in modo sintetico, ma comunque esaustivamente, dia conto del materiale probatorio utilizzato e della valutazioni espresse, in modo che sia possibile ripercorrere l’iter logico seguito. L’unico limite che tale ponderazione incontra è che essa non può condurre allo “sfondamento del tetto, pure normativamente fissato, dell’entità massima della liquidazione”, come testualmente enunciato dalle Sezioni unite (S.U. 9 maggio 2001, Caridi, Rv. 218975). Tale orientamento si rinviene anche nella giurisprudenza più recente. Ne discende che l’ordinanza impugnata enuncia ed applica un principio di diritto errato. Essa deve essere conseguentemente annullata con rinvio.
P. Q. M.
Annulla il provvedimento impugnato con rinvio alla Corte d’appello di Milano.