Corte di cassazione, Sezione lavoro, Sentenza 6 ottobre 2008, n. 24652
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso 16 aprile 2002 la Banco di Napoli S.p.a. impugnò la sentenza con cui il Tribunale di Chieti aveva respinto l’opposizione proposta dalla Società avverso il decreto ingiuntivo avente per oggetto il rimborso, a favore del dipendente A.G., delle spese legali che questi aveva sostenuto nel corso d’un processo penale a suo carico.
Con sentenza del 21 gennaio 2005 la Corte d’appello di l’Aquila respinse l’impugnazione.
Dalla lettera della norma contrattuale (art. 14 del c.c.n.l. 21 ottobre 1987 per il personale direttivo delle aziende di credito), osserva il giudicante, si deduce che l’unica condizione cui il diritto è subordinato è la connessione fra il fatto addebitato e l’esercizio delle funzioni.
La lettera e lo spirito della norma conducono ad un’interpretazione che comprenda nello spazio disciplinato non solo l’esercizio legittimo, bensì l’esercizio non legittimo delle funzioni.
Di ciò sono riscontro le diverse locuzioni, che compaiono in parallele disposizioni previste in altri contratti collettivi, nelle quali si fa riferimento all’espletamento del servizio o all’adempimento dei compiti d’ufficio; e qualche norma contrattuale, intendendo fissare eventuale limite al diritto (al rimborso), lo indica espressamente (ad esempio, come inesistenza di conflitto di interessi).
E nel caso in esame, in cui il dipendente era stato condannato per truffa in danno del Ministero dell’agricoltura e foreste e della Regione Abruzzo nonché d’una privata Società di Ottona a seguito di un’anticipazione di L. 12 miliardi erogata dalla Banco di Napoli S.p.a., lo stesso datore, pur eccependo che il fatto era estraneo all’esercizio legittimo delle funzioni, aveva riconosciuto che non era estraneo all’attività lavorativa.
Per la cassazione di questa sentenza la Sanpaolo Imi S.p.a. propone ricorso, articolato in tre motivi, e coltivato con memoria; A.G. resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, denunciando per l’art 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 14 del c.c.n.l. 27 ottobre 1987, per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie e dell’Accordo sindacale di attuazione del 22 dicembre 1988 nonché omessa o contraddittoria od insufficiente motivazione, la ricorrente sostiene che:
1.a. “secondo l’espressa previsione dell’art. 14 del C.C.N.L. 27 ottobre 1987 per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie e dell’Accordo sindacale di attuazione del 22 dicembre 1988, il collegamento fra procedimento penale a carico del dipendente e svolgimento delle sue funzioni lavorative costituisce proprio il fatto costitutivo del diritto al rimborso delle spese sostenute per la difesa penale”;
1.b. colui che intenda far valere il diritto contrattuale al rimborso delle spese legali, avendo l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto, ha l’onere di provare anche il rapporto causale fra procedimento penale e funzioni lavorative;
1.c. nel caso in esame, l’ A. aveva l’onere di provare che i fatti addebitatigli in sede penale fossero riconducibili all’esercizio delle sue funzioni;
1.d. ed egli non ha fornito alcuna prova di questa connessione;
1.e. né, peraltro, egli ha dato prova della sua estraneità ai fatti contestatigli; né vi è stata alcuna pronuncia (tale non è la dichiarazione di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione) che abbia dichiarato la legittimità del suo comportamento.
2. Con il secondo motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1365, 1366 e 1369 c.c., nell’interpretazione dell’art. 14 del c.c.n.l. 27 ottobre 1987 per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie e dell’Accordo sindacale di attuazione del 22 dicembre 1988 nonché omessa o contraddittoria od insufficiente motivazione, la ricorrente sostiene che:
2.a. l’art. 14, comma 1, del c.c.n.l. 27 ottobre 1987 per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie dispone quanto segue: “Qualora nei confronti del funzionario venga notificata comunicazione giudiziaria ovvero esercitata azione penale in relazione a fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, le spese giudiziali, comprese quelle di assistenza legale, sono a carico dell’azienda, fermo restando il diritto dell’interessato a scegliersi un legale di sua fiducia”;
2.b. l’art. 14, comma 6, del predetto c.c.n.l. dispone quanto segue:
“Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano in quanto compatibili con norme inderogabili di legge che disciplinino la materia e, comunque, con eventuali disposizioni regolamentari già vigenti sulla materia stessa”;
2.c. da queste disposizioni discende che ai fini del diritto in controversia non è sufficiente il solo collegamento fra i fatti e l’attività svolta, ma è necessaria l’esistenza d’un nesso funzionale fra i fatti commessi ed il legittimo adempimento dei doveri lavorativi;
2.d. come affermato in giurisprudenza, ha carattere di prevalenza il criterio di coerenza fra atto da interpretare e valori fondamentale del diritto vivente: in particolare, il principio generale nemo auditur turpitudinem suam allegans, i principi degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché il principio costituzionale della solidarietà; e per tali principi la condotta illecita non può essere posta a base d’un diritto da far valere nei confronti della stessa parte verso cui la condotta sia stata posta in essere.
3. Con il terzo motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione degli artt. 1229, 1362, 1363, 1365, 1366 e 1369 c.c., nell’interpretazione dell’art. 14 del c.c.n.l. 27 ottobre 1987 per il personale direttivo delle aziende di credito e finanziarie e dell’Accordo sindacale di attuazione del 22 dicembre 1988 nonché omessa o contraddittoria od insufficiente motivazione, la ricorrente sostiene che in base all’art. 1229 c.c., il preventivo esonero da responsabilità per attività che costituiscano violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico è nullo; anche la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che il comportamento penalmente illecito non dà luogo alla rivalsa delle spese da parte del datore (Cass. 28 maggio 2003, n. 8467).
4. Il ricorso è fondato. Su un piano generale è da premettere quanto segue.
4.a. Nell’ambito dei criteri di interpretazione delineati dall’art. 1362 c.c., e ss, ed in particolar modo nell’interpretazione dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune, il criterio letterale, pur necessario e fondamentale, costituisce solo una preliminare presa di cognizione (di cui l’art. 1362 c.c., segnala l’insufficienza, precisando che l’interprete non deve “limitarsi al senso letterale delle parole”), che deve essere integrata attraverso gli ulteriori strumenti previsti dall’art. 1363 c.c., quali la connessione delle singole clausole ed il senso che risulta dal complesso dell’atto, atteso che la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) sono strumenti legati da un rapporto di necessità, in quanto tutti necessari al processo interpretativo (Cass. 8 marzo 2007, n. 5287).
E solo al termine del processo interpretativo il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito (Cass. 9 giugno 2005, n. 12120).
4.b. Da ciò discende che il processo interpretativo può giungere anche ad un risultato non pedissequamente conforme al mero “senso letterale delle parole” (e il cit. art. 1362 c.c., comma 1 – esigendo di “non limitarsi” – ipotizza questa eventualità).
E, come un risultato pianamente conforme alla lettera della legge rende inutile esplicitare il predetto processo, simmetricamente, la “non conformità” del risultato al senso letterale delle parole resta legittima (quale applicazione dei normativi criteri di interpretazione) solo ove sia reso esplicito l’indicato processo interpretativo (attraverso l’applicazione dei predetti criteri).
In tale quadro, il “considerare” (nell’interpretazione del contratto) precise parole (dotate di specifico significato giuridico o tecnico) alla stregua di generiche locuzioni in questa genericità “dissolvendo” quel significato, diventa procedimento interpretativo illegittimo (essendo in violazione delle norme legali di interpretazione).
4.c. Nell’ambito del processo interpretativo, poi, il principio di buona fede (art. 1366 c.c.), al quale si riconosce “particolare importanza” (Cass. 14 aprile 2008, n. 9813), essendo normativamente richiesto (“deve”), resta un passaggio necessario.
Questo principio, che secondo la Relazione ministeriale al Codice Civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore, deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23273).
4.d. Poiché, ai fini del diritto in esame (rimborso delle spese legali per procedimento penale a causa di atti commessi dal dipendente nell’esercizio delle sue funzioni) la connessione fra fatti commessi ed esercizio delle funzioni è il presupposto del diritto, colui che il diritto invochi ha l’onere di provare questo presupposto.
E, in assenza di questo presupposto, il risultato del processo penale (anche l’eventuale assoluzione) è assolutamente irrilevante (la pur marginale argomentazione che la sentenza a tal fine deduce è pertanto infondata).
5. Nel caso in esame il giudicante:
a. da un canto ritiene che “la norma in commento non richiede l’ulteriore requisito dell’esercizio legittimo delle funzioni”;
b. d’altro canto, conferisce determinante rilevanza alla circostanza che i fatti dai quali trae origine la pretesa del dipendente “sono comunque correlati all’attività bancaria svolta”, e che (comunque) “non sono estranei alla sua attività lavorativa”.
In tal modo, la sentenza da un canto ritiene che la disposizione (con cui è attribuito il diritto) comprenda anche l’ipotesi di esercizio “illegittimo” delle funzioni; d’altro canto considera rilevante la mera (“comunque”) correlazione fra i fatti dai quali la pretesa trae origine e (non l’esercizio delle funzioni, bensì) “l’attività bancaria svolta”; e giunge a dare determinante rilievo alla mera “non estraneità” dei fatti all’attività bancaria.
6. In ordine al processo interpretativo seguito dal giudicante è da osservare quanto segue.
6.a. Sul piano letterale, il giudicante, non dà specifica motivata interpretazione della locuzione “nell’esercizio delle sue funzioni”, che nella logica della disposizione contrattuale assume valore fondamentale (e ciò la stessa sentenza, pur attraverso una censurabile interpretazione, implicitamente riconosce).
In particolare, non dà alcuna motivazione dell’equiparazione, cui implicitamente giunge, fra “esercizio delle funzioni” e mera correlazione (intesa anche nel suo meno intenso significato di “non estraneità”) degli atti del dipendente all’attività bancaria.
Né, pur riferendosi all’indicata locuzione (“esercizio delle funzioni”), indica la ragione per cui le “funzioni” (quale – non mera attività bensì – attività strutturalmente e contrattualmente diretta ad attuare quanto specificamente richiesto dal datore, in quanto sua finalità istituzionale) non debbano essere considerate solo le attività alle quali il dipendente è normativamente obbligato (ed in particolare, “osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro, impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”, “usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”: art. 2104 c.c.).
Né indica la ragione per cui “l’esercizio” non costituisca attività svolta lungo le linee e seguendo le direttive normativamente previste e delle quali costituisce attuazione, bensì si possa esaurire anche nel mero generico “svolgimento di un’attività”.
In tal modo, il giudicante conferisce alla locuzione in esame un significato non conforme al “senso letterale delle parole” (conclusione che in astratto, ed entro alcuni limiti, è pur normativamente ipotizzabile: come indicato sub “4”), senza ciò giustificare attraverso il percorso d’un processo interpretativo.
Egli “tratta”, poi, precise parole della norma (“esercizio delle funzioni”), dotate di specifico significato giuridico, alla stregua di generiche locuzioni, in questa genericità immotivatamente “dissolvendo” quel significato.
Essendo in violazione dei predetti criteri normativi, il procedimento interpretativo della sentenza è illegittimo.
6.b. Nell’interpretare l’indicata norma, il giudicante ha poi omesso di accertare la comune intenzione delle parti. Ed in particolare, nell’ambito di questa comune intenzione, ha omesso di indicare quale potrebbe essere l’intenzione (e, prima ancora, l’interesse) imprenditoriale nel contratto con cui il datore si obblighi a rimborsare le spese sostenute dal dipendente per il procedimento penale avente per oggetto atti illeciti compiuti dal dipendente stesso (purché non estranei alla sua attività lavorativa), diretti ad attuare l’esclusivo illecito interesse del dipendente, e tuttavia non solo estranei all’interesse ed alle finalità aziendali, bensì di questo interesse potenzialmente lesivi.
6.c. Né il giudicante indica la ragione per cui il significato che egli conferisce alla norma contrattuale (l’imprenditore si obbligherebbe a rimborsare le spese sostenute dal dipendente per il procedimento penale avente per oggetto atti illeciti compiuti dal dipendente stesso – e non estranei alla sua attività lavorativa – diretti ad attuare l’esclusivo illecito interesse del dipendente, e tuttavia non solo estranei all’interesse ed alle finalità aziendali, bensì di questo interesse potenzialmente lesivi) sia conforme al criterio di buona fede, e pertanto richiami nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore, ed imponga a ciascuna delle parti del rapporto il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra.
7. Per mera esigenza di completezza è da osservare che, poiché ogni contratto collettivo è fondato sulla comune intenzione delle specifiche parti che lo hanno stipulato, la presenza di analoghe disposizioni in altri contratti collettivi (argomentazione della sentenza impugnata) non assume alcuna funzione interpretativa. Ciò è a dirsi anche per l’argomentazione della sentenza avente per oggetto la riserva che comparirebbe in qualche contratto (“purché non sussista conflitto d’interessi”): la riserva (come riferita in sentenza) si riferisce a specifica ipotesi (controinteresse datorile), e non è conferente alla legittimità al processo interpretativo.
8. Essendo in violazione degli indicati normativi principi di interpretazione (sub “4”), la decisione è illegittima.
9. Per esigenza di completezza è ancora da aggiungere che questa Corte ha affermato che “non ogni condotta del dirigente fa scattare la garanzia della rivalsa delle spese; c’è uno scrimine fra condotte connesse all’esercizio delle funzioni e condotte non connesse; contrasterebbe con il principio di legalità e di buona fede una clausola contrattuale che prevedesse a carico del datore di lavoro un’attribuzione patrimoniale a favore del dipendente, seppur nella forma indiretta della rivalsa delle spese di giudizio, nel caso in cui questi deliberatamente o con colpa grave violi la legge penale (Cass. 28 maggio 2003, n. 8467). Ed è stata affermata la necessità, ai fini del diritto al rimborso delle spese legali, del rapporto diretto fra atti commessi dal dipendente e funzioni attribuite (Cass. 5 maggio 1992, n. 5330; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2747); ed è stata ritenuta conforme ai legali criteri interpretativi l’affermazione del Giudice di merito per cui, anche in caso di assoluzione, il diritto al rimborso delle spese legali riguarda “solo i fatti commessi per il perseguimento delle finalità istituzionali della Banca e non quelli commessi per finalità private ed egoistiche” (Cass. 11 aprile 1996, n. 3370).
10. Il ricorso deve essere accolto. Con la cassazione della sentenza, la causa deve essere rinviata a contiguo Giudice di merito, che applicherà gli indicati principi (sub “4”), nel contempo provvedendo a regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa alla Corte d’appello di Ancona, anche per le spese del giudizio di legittimità.