Cassazione Civile, Sez. I, 08-02-2008, n. 2750
Svolgimento del processo
1. – Con decreto in data 6 aprile 2006, il Tribunale per i minorenni di Torino dichiarava lo stato di adottabilità del minore G. A., nato a (OMISSIS) il (OMISSIS), disponendo l’interruzione dei contatti tra la madre, B.G., ed il figlio.
Avverso tale decreto proponeva opposizione la B..
Il Tribunale per i minorenni, con sentenza depositata il 13 dicembre 2006, respingeva l’opposizione, ritenendo sussistente la grave inadeguatezza genitoriale della madre, avente natura abbandonica, non superabile in tempi compatibili con le esigenze psicoevolutive, non più rinviabili, del figlio, rimasto nel frattempo orfano del padre.
2. – La Corte d’appello di Torino, nella specializzata composizione per i minorenni, con sentenza depositata il 12 marzo 2007, ha respinto l’appello della B., segnatamente assumendo: (a) che la madre del bambino è un soggetto fragile, disturbato, portatore di gravi problematiche personali, sfociate in una lunga storia di dipendenza da droga e da alcool, tanto che i primi due figli sono stati, l’uno, dichiarato adottabile, l’altro, dato in affidamento eterofamiliare; (b) che, nonostante il rientro in famiglia del piccolo A. sia stato sostenuto e controllato dai Servizi sociali, la madre ha dato inizio ad un veloce ed imprevedibile declino in termini complessivi di scelte di vita e di disturbi di personalità, rendendo vano, anche per la sua incontrollata aggressività, qualsiasi progetto di collaborazione; (c) che il piccolo A. è descritto dallo psicologo come un bambino devastato, travolto e stravolto da una serie di eventi traumatici e drammatici che hanno bloccato il suo naturale sviluppo evolutivo in senso psicologico, sociale e cognitivo; (d) che tale situazione non è attribuibile casualmente a responsabilità omissive dei Servizi sociali, ma dipende dai gravi limiti e dalle problematiche destabilizzanti del nucleo d’origine del minore; (e) che, in particolare, il bambino reagisce all’atteggiamento aggressivo e distruttivo della madre con atteggiamenti regressivi, arrivando alla lallazione come un bambino di pochi mesi, a problemi alimentari e a forme di disagio comportamentale e psicologico generalizzato; (f) che la madre – assolutamente priva della capacità di autocritica, di mettersi in discussione e di riconoscere gli errori commessi, come pure di avere un autentico spazio mentale che le consenta di porsi dalla parte del figlio e di capire il danno arrecatogli – non è in grado di fornire al figlio quel minimo in termini di cure materiali, calore affettivo ed aiuto psicologico, indispensabile per garantire al minore la normalità sotto l’aspetto dello sviluppo e della formazione della sua personalità. 3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la B. ha proposto ricorso, con atto notificato il 12 maggio 2007, deducendo due motivi di censura.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo, la ricorrente – dopo aver sollecitato a riconsiderare il dubbio di legittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, nella parte in cui, nel testo attualmente vigente, limita il ricorso per cassazione alla sola ipotesi del vizio di violazione e falsa applicazione legge, senza dare alcuno spazio a censure concernenti il difetto di motivazione – denuncia violazione e falsa applicazione della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 8, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Ad avviso della ricorrente, dalle risultanze istruttorie non sarebbe emerso alcun abbandono a carattere non transitorio. Richiamata una serie di atti istruttori, si sostiene che le relazioni e l’osservazione del minore fino al mese di aprile 2005 sono concordi nel ritenere che A. è stato allevato con cura ed attenzione adeguate alle sue necessità morali e materiali e che, quindi, il comportamento della B. non ha mai integrato gli estremi richiesti per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Ad avviso della ricorrente, il provvedimento emesso dal Tribunale per i minorenni nel marzo 2005 non ha determinato il ritorno a casa di A., ma l’inizio del suo “calvario”, culminato con la dichiarazione dello stato di adottabilità. Parallelamente, è iniziata la parabola discendente della B., segnata dalla perdita del compagno, dalla difficoltà di far comprendere la morte del padre al figlio, dal fatto che il suo lavoro non le permetteva di realizzare il progetto di definitivo rientro a casa del figlio, anche perchè, proprio in quei giorni, ella aveva ricevuto lo sfratto per morosità. Nel ricorso si sostiene che l’aiuto dei Servizi sociali sarebbe stato assolutamente indispensabile, mentre gli operatori dei Servizi avrebbero dimostrato una maggior propensione verso la funzione di controllo, sicuramente più semplice, che non verso quella di sostegno. Proprio tale atteggiamento innescava un meccanismo di difesa e, poi, di opposizione da parte della ricorrente, che portava alla più completa incomunicabilità con tutti gli operatori interessati alla tutela di A.. Secondo la ricorrente, ogni giudizio sullo stato di abbandono sarebbe stato formulato in assenza di una sperimentazione concreta, non essendosi mai provato a costruire per A. un’ipotesi di vita che gli consentisse il mantenimento fattivo dei legami familiari. Lo stato di sofferenza del minore non può essere ascritto unicamente al comportamento della madre, ma deve essere necessariamente posto in relazione con i gravi avvenimenti che hanno colpito il bambino: la separazione dal nucleo familiare, il grave lutto subito per la morte del padre, la delusione per il mancato, promesso rientro a casa. L’intervento dei Servizi sociali – si sostiene – è stato assolutamente lacunoso. Il Tribunale per i minorenni, una volta riconosciute tali carenze nel sussidio che gli enti preposti avrebbero dovuto fornire, avrebbe dovuto offrire al bambino un’ulteriore opportunità, garantendogli il diritto prioritario di conservare il proprio rapporto con la famiglia di origine, accogliendo la proposta formulata dalla ricorrente di disporre l’inserimento, con gli adeguati supporti psicologici, della madre e del minore in comunità. Non sarebbe condivisibile “l’impostazione del Tribunale per i minorenni ed in pratica ribadita dalla Corte d’appello che, in assenza di una accertata psicologia psichiatrica, hanno ritenuto di dichiarare lo stato di abbandono di un minore, pur trovandosi in presenza di una madre su cui non è stata formulata una diagnosi di recupero psichico univoca e certa e le cui capacità genitoriali sono state ritenute ancora presenti”.
Il secondo motivo prospetta violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1. La separazione del minore dalla famiglia di origine deve costituire una extrema ratio, essendo assolutamente preminente l’esigenza del bambino di crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia naturale. La dichiarazione dello stato di adottabilità non è consentita quando sia possibile ovviare alla situazione di abbandono con misure di sostegno offerte dai Servizi locali / salvo che queste risultino in concreto inattuabili, ovvero debbano raggiungere un livello qualitativo e quantitativo tale da configurare completa estromissione dai compiti genitoriali. L’utilizzabilità di dette misure di sostegno non pud essere negata solo perchè le stesse debbano essere di tipo continuativo o richiedano una vigilanza costante nel tempo. Alla luce di questi principi, ad avviso della ricorrente, A. deve veder tutelato il proprio diritto a crescere ed essere educato nella propria famiglia d’origine.
2. – Occorre premettere che, poiché la sentenza impugnata è stata pubblicata il 12 marzo 2007, il ricorso per cassazione è assoggettato alla nuova disciplina dettata dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e, in particolare, alla previsione dell’art. 366 bis c.p.c., novellato dal cit. D.Lgs. art. 6, ai cui sensi, per un verso, “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”, e, per l’altro verso, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Va innanzi tutto chiarito che, indipendentemente dalla denominazione recata nelle relative rubriche (“violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 8, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3”; “violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1 “), i motivi di ricorso come sopra sintetizzati – i quali, ove realmente intendessero prospettare i vizi formalmente denunciati, sarebbero inammissibili, in quanto non si concludono con la espressa formulazione del corrispondente quesito di diritto – si sostanziano, avuto riguardo al loro effettivo contenuto, in censure di vizi della motivazione, in quanto diretti a far valere asserite carenze motivazionali nel percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata nel confermare lo stato di adottabilità del minore.
Come questa Corte ha già avuto occasione di precisare in un recente arresto (Sez. 1^, 9 ottobre 2007, n. 21093), tali vizi sono ora suscettibili di venire dedotti con il ricorso per cassazione, avendo la nuova normativa processuale introdotta dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 16, sostitutivo del testo originario della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, esteso l’ambito dei motivi di ricorso per cassazione avverso le sentenze sullo stato di adottabilità pronunciate dalla sezione per i minorenni della corte d’appello, comprendendovi, appunto, anche il vizio di motivazione di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, senza che, del resto, dopo lo spirare dell’ultimo termine fissato al 30 giugno 2007 (della L. 12 luglio 2006, n. 228, art. 1, comma 2, di conversione, con modificazioni, del D.L. 12 maggio 2006, n. 173), sia stata ulteriormente prorogata la sospensione dell’entrata in vigore della nuova normativa processuale, che imponeva di applicare la disciplina contenuta nel testo originario del già menzionato della L. n. 184 del 1983, art. 17, e, quindi, di ammettere il ricorso per cassazione, nella materia in argomento, esclusivamente per violazione di legge. Posto, quindi, che, come sopra accennato, non viene in considerazione, nella specie, il disposto del primo periodo del già citato art. 366 bis c.p.c., e che, del resto, dovendo trovare applicazione il disposto del secondo periodo del medesimo art. 366 bis c.p.c., non pare dubitabile, sulla base dell’illustrazione che precede dei motivi di impugnazione, che questi ultimi, di per se stessi, rechino l’indicazione del fatto controverso e le ragioni della dedotta inidoneità della motivazione a giustificare la decisione, resta da apprezzare se i denunciati vizi della motivazione debbano o meno essere riconosciuti come effettivamente esistenti.
3. – I vizi di motivazione denunciati nei due motivi di ricorso – i quali, stante la loro intima connessione, possono essere esaminati congiuntamente – non sussistono. Ed invero la Corte d’appello, con argomentazioni logiche e coerenti, ha adeguatamente illustrato le ragioni che inducono a ritenere la sussistenza dello stato di abbandono del piccolo A..
In particolare, detta Corte ha osservato che la B. è un soggetto con grave anomalia della personalità, disturbato, portatore di gravi problematiche personali, sfociate in una lunga storia di dipendenze da droga e da alcool; e che, proprio quando, nel marzo2005, il Tribunale per i minorenni ha deciso il rientro in famiglia del minore con il sostegno dei Servizi sociali, la donna ha dato inizio ad un veloce ed imprevedibile declino in termini complessivi di scelte di vita e di disturbi di personalità, rendendo vano qualsiasi progetto di collaborazione. La Corte d’appello, recependo le motivate conclusioni espresse dagli operatori dei Servizi sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio, ha rilevato che la madre – assolutamente priva della volontà di avviare un percorso di recupero e di rielaborare i propri vissuti in modo serio, convinto e consapevole, come pure della capacità di avere un autentico spazio mentale che le consenta di porsi dalla parte del figlio e di capire il danno arrecatogli – non è in grado di fornire al figlio quel minimo in termini di cure materiali, calore affettivo ed aiuto psicologico, indispensabile per garantire al minore la normalità sotto l’aspetto dello sviluppo e della formazione della sua personalità. La Corte territoriale ha inoltre dato atto che il bambino è stato travolto da una serie di eventi traumatici e drammatici che hanno bloccato il suo naturale sviluppo evolutivo in senso psicologico, sociale e cognitivo. Riferendosi alle risultanze in atti, il giudice del merito ha rilevato che il piccolo A. ha mostrato di avere condizioni di malessere psicologico dopo gli incontri con la madre: “era regredito in modo preoccupante, era malinconico, inappetente, capriccioso; i suoi giochi erano caratterizzati da scene di violenza e di sangue; mostrava fobia per il sangue ed esprimeva sensi di colpa per la morte del padre; all’idea di tornare a casa con la madre talvolta esprimeva paura; descriveva la casa come un luogo nel quale andavano ambulanze e carabinieri”.
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, nella sua composizione specializzata, rende evidente che la sentenza impugnata non ha affatto ravvisato lo stato di abbandono del minore quale diretta conseguenza delle difficoltà della madre, come assume la ricorrente, ma ha accertato, con il necessario rigore, in conformità ai principi più volte espressi nella giurisprudenza di questa Corte che sottolineano il carattere di extrama ratio del rimedio dell’adozione (Sez. 1^, 12 aprile 2006, n. 8527; Sez. 1^, 28 giugno 2006, n. 15011; Sez. 1^, 10 agosto 2006, n. 18113), che, in ragione della grave anomalia della personalità, la B. era assolutamente incapace di allevare ed educare il figlio, orfano di padre, e che da ciò era derivato un grave ed irreversibile pregiudizio allo sviluppo psicofisico del minore.
Le lacune motivazionali denunciate dalla ricorrente non sussistono.
In primo luogo, non è esatto che la Corte d’appello abbia omesso di tenere conto delle relazioni dei Servizi sociali (in particolare dell’elaborato della Signora V., della relazione dello psicologo dott. S. e delle relazioni degli educatori) . Tali risultanze, infatti, si riferiscono in particolare agli anni 2003 e 2004, ossia ad un periodo precedente a quello in cui si è manifestata in modo grave la crisi del rapporto genitoriale. La Corte d’appello da atto che “effettivamente le relazioni del Servizio di neuropsichiatria infantile descrivono i primi anni di vita del piccolo A. come sereni; pareva che il minore crescesse in modo adeguato; era un bambino intelligente”. Ha, successivamente al (OMISSIS), A. ha cominciato a mostrare, in modo preoccupante, atteggiamenti sempre più regressivi: “il ritmo sonno – veglia era alterato, era insofferente alle urla, mostrava attaccamento indifferenziato agli adulti; la madre durante gli incontri lo trattava come un neonato; al termine degli incontri con la madre il figlio stava male e presentava problemi alimentari (non mangiava, ruminava, vomitava)”. Da allora la madre ha iniziato un percorso a ritroso, “assolutamente inconciliabile con l’iniziale progetto di riavere il figlio con se: la donna non riusciva neppure più a badare a se stessa e continuava l’abuso abituale di alcool con tutto quello che ciò comportava; nel contempo il disagio del minore andava sempre più accentuandosi, aggravato dai ritardi della madre, dagli appuntamenti mancati, dalla sua aggressività”; inoltre, “la donna moltiplicava i suoi atteggiamenti aggressivi verso tutti gli operatori, anche alla presenza del figlio che peraltro trattava come un bambino più piccolo o trascurandolo (gli faceva sentire musica con la cuffia anzichè parlargli ed intrattenerlo)”. Nè è esatto che i Servizi sociali non abbiano tentato di costruire, con gli opportuni strumenti di aiuto e di sostegno, un recupero della famiglia di origine.
Risulta dalla sentenza impugnata che, grazie all’intervento dei Servizi sociali, la B. ha avuto l’assegnazione di una casa popolare e un lavoro tale da permetterle di mantenersi, ma si è subito mostrata “incapace di adeguarsi alle regole del lavoro, aggressiva e difficilmente contenibile nella sua aggressività”. Quanto, poi, al sostegno psicologico, tutti i progetti di collaborazione, offerti dai Servizi quando è stato emesso il decreto che prevedeva il rientro del minore in famiglia, sono naufragati, addirittura con aggressioni e minacce gravi agli operatori da parte della B.. Le ulteriori censure della ricorrente tendono a sollecitare una revisione del ragionamento decisorio della Corte d’appello e quindi sono, come tali, inammissibili.
4. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
Non vi è luogo ad alcuna statuizione sulle spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso. Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2008