Cassazione – Sezione Lavoro – sentenza 22 novembre 2007 – 7 febbraio 2008, n.2874
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 167/2003 resa in data 21-11-2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Gorizia, in parziale accoglimento dei ricorsi (riuniti) proposti da Anna K. , Aurora G. , O. Eleonora, Claudia S. , Ornella S. e S. Sandra, ed in specie delle domande di cui al punto c) dei ricorsi introduttivi, accertata la nullità del contratto di affitto d’azienda stipulato dalla G. s.r.l. e la S. s.r.l. in data 30-1-2001 e l’illegittimità del licenziamento intimato dalla G. alle ricorrenti con lettera in data 1-2-2001, condannava la G. (ora B. s.r.l.) alla reintegra delle ricorrenti nei posti di lavoro nonché al risarcimento dei danni in favore delle stesse, mediante versamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra e al versamento dei relativi contribuiti assistenziali e previdenziali, oltre rivalutazione monetaria e interessi.
Il Giudice, inoltre, respingeva le residue domande proposte dalle ricorrenti e accoglieva la domanda riconvenzionale proposta dalla S. s.r.l. e, accertata la nullità dei licenziamenti operati dalla stessa S. s.r.l. in data 27-3-2001, condannava le ricorrenti alla restituzione in favore della medesima società di tutte le somme percepite in conseguenza dei licenziamenti detti, come rispettivamente indicate, con gli interessi dalla data del pagamento al saldo.
Infine condannava la G. (ora B. ) al pagamento in favore delle ricorrenti delle spese di lite e compensava le spese stesse tra le ricorrenti, il Gruppo C. s.p.a., la S. s.r.l. e la B. Retail Italia s.r.l..
Contro tale decisione proponeva appello la S. s.r.l., la quale, innanzitutto, deduceva che la stessa era viziata da ultrapetizione per aver ritenuto che il contratto di affitto di azienda costituisse contratto in frode alla legge, male valutando le reali richieste delle attrici. Lamentava poi la S. che il primo giudice, violando il disposto dell’art. 1344 c.c., male aveva ritenuto che l’art. 18 della legge n. 300/1970, fosse una norma imperativa che potesse sorreggere il ricorso al disposto stesso. Riscontrava, infine, che il giudice di prime cure male aveva valutato i fatti di causa con riguardo alla posizione di essa S. s.r.l. nella vicenda.
A sua volta proponeva autonomo appello la B. s.r.l., subentrata alla G. s.r.l., la quale, innanzitutto lamentava anch’essa la ultrapetizione di cui sopra nonché la natura non vincolante, ai fini dell’art. 1344 c.c., del disposto dell’art. 18 citato. Evidenziava, poi, la B. che male era stato valutato, nei suoi confronti, il cd. requisito numerico di cui allo stesso art. 18 al momento dei fatti nonché il contegno delle parti C. volte nella cessione, improntato sempre a correttezza e buona fede, ponendo anch’essa in risalto il fatto che già nel corso delle trattative si era fatto cenno ad una possibile eccedenza di personale del punto di vendita di Gorizia. Riscontrava, inoltre, la B. il fatto che vi era stato da parte del giudice un ordine di esibizione generico ed indefinito che non aveva certo giovato a rendere chiara la presente, complessa vicenda ed evidenziava la natura illogica e priva di interesse del contegno della S. nel caso di specie, come esso era stato ricostruito nella appellata sentenza.
Sottolineava, infine, la B. il fatto di non avere mai licenziato le sei attrici e di avere solo comunicato il passaggio ad altra società e la propria impossibilità ad ottemperare all’ordine di reintegra in un posto di lavoro oramai gestito da un terzo, la B. Retail Italia. Si costituiva, quindi, in entrambi gli appelli la B. Retail Italia s.r.l., aderendo, in sintesi, alle difese tutte della società B. .
Le due appellanti esponevano, poi, le loro difese sui contrapposti appelli e la B. proponeva tuzioristicamente appello incidentale nei termini di cui al suo appello principale. Si costituiva, altresì, il Gruppo C. s.p.a. rilevando la correttezza, per quanto la concerneva, della decisione assunta in primo grado, nonché la avvenuta formazione del giudicato sulla sua posizione processuale. Infine si costituivano le lavorataci e, per la K. , i di lei eredi, rilevando la inconsistenza ed infondatezza dei due distinti appelli e proponendo a loro volta appello incidentale volto ad ottenere, invece della pronuncia di reintegra, il pagamento della indennità sostitutiva come da scelta effettuata dopo la pronuncia di primo grado, nonché appello incidentale condizionato all’eventuale accoglimento delle pretese delle società appellanti.
La Corte d’Appello di Trieste, riuniti i procedimenti, con sentenza pubblicata il 15-11-2005, confermava in toto la sentenza appellata, ritenendo assorbiti gli appelli incidentali condizionati, e condannava la B. e la S. , in solido, alle spese.
In sintesi la Corte territoriale innanzitutto rilevava che le originarie richieste attoree contenute nei ricorsi introduttivi nei punti A), B), D) ed E), erano state respinte dal primo giudice e tale parte della pronuncia (riguardante in particolare le posizioni del Gruppo C. e della B. Retail Italia) non era stata fatta oggetto di gravame dagli interessati, per cui era coperta dal giudicato. La Corte di merito, inoltre, respinte le doglianze riguardanti l’asserita ultrapetizione e la nullità dei ricorsi introduttivi, osservava che l’art. 18 della legge 300/1970, ben poteva “rappresentare un utile referente normativo ai sensi dell’art. 1344 c.c., qui invocato dalle attrici” e rilevava che parimenti infondata era la doglianza sul requisito numerico mossa dalla B. , risultando lo stesso requisito sussistente nella fattispecie.
Dopo aver analizzato, quindi, nel merito la vicenda ed in specie il coinvolgimento delle singole società (facenti capo al Gruppo B. o appartenenti alla rete distributiva B. ) la Corte d’Appello accertava la sussistenza di un contratto in frode alla legge nell’affitto di ramo di azienda alla S. e ravvisava un atto di licenziamento nella comunicazione di tale passaggio effettuata dalla G. alle lavoratrici.
Così respinti gli appelli della B. e della S. , la Corte territoriale, infine, respingeva altresì l’appello incidentale delle lavoratrici e degli eredi K. , concernente la indennità sostitutiva della reintegrazione, rilevando che difettavano i presupposti “in assenza di una qualche quantificazione ed indicazione al riguardo” che consentisse “alla Corte di definire detto contesto”.
Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso la B. s.r.l. con tre motivi. Anche la S. s.r.l. ha proposto autonomo ricorso con quattro motivi è si è costituita, altresì, nel procedimento sul ricorso B. , con controricorso aderendo al detto ricorso B. e proponendo “per tuziorismo”, “quali motivi di ricorso incidentale gli stessi motivi del citato ricorso autonomo. Le lavoratrici e gli eredi K. , dal canto loro, in entrambi i procedimenti, hanno resistito con controricorso di uguale tenore e, nei confronti della B. hanno proposto ricorso incidentale avverso il rigetto della richiesta di indennità sostitutiva della reintegrazione nonché ricorso incidentale condizionato con un unico motivo, mentre nei confronti della S. hanno avanzato ricorso incidentale condizionato con unico motivo e ricorso incidentale ulteriormente condizionato con due motivi.
La B. ha, poi, resistito eccependo preliminarmente la tardività ed inammissibilità del controricorso e del ricorso incidentale delle lavoratrici e degli eredi K. , mentre la S. , dal canto suo, ha resistito al ricorso incidentale condizionato proposto nei suoi confronti.
La Gruppo C. s.p.a., infine, in entrambi i procedimenti relativi ai ricorsi B. e S. ha presentato controricorso, evidenziando il giudicato che la riguardava. Da ultimo la B. ha depositato anche memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente, riuniti tutti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c., va esaminata la tempestività e ammissibilità degli stessi, alla luce dei principi consolidati in materia.
Questa Corte Suprema ha avuto più volte occasione di affermare che “atteso il principio di unità dell’impugnazione – secondo il quale l’impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell’unico processo nel quale sono destinate a confluire, sotto pena di decadenza, per essere decise simultaneamente, tutte le eventuali impugnazioni successive della stessa sentenza, le quali hanno sempre carattere incidentale -, nei procedimenti con pluralità di parti, avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per cassazione, le altre impugnazioni proposte dalle parti destinatane della notificazione devono essere considerate incidentali” (v. fra le altre Cass. sez. 1^ 9-5-2006 n. 10663, Cass. sez. 3^ 22-10-2004 n. 20593), con la conseguenza che “il ricorso proposto irritualmente in forma autonoma da chi, in forza degli artt. 333 e 371 cod. proc. civ., avrebbe potuto proporre soltanto impugnazione incidentale, per convertirsi in quest’ultima, deve averne i requisiti temporali, onde la conversione risulta ammissibile solo se la notificazione del relativo atto non ecceda il termine di quaranta giorni da quello dell’impugnazione principale. Né la decadenza conseguente alla mancata osservanza di detto termine può ritenersi superata dall’eventuale osservanza del termine “esterno” di cui agli artt. 325 o 327 cod. proc. Civ., atteso che la tardività o la tempestività, rispetto a quest’ultimo, assume rilievo ai soli fini della determinazione della sorte dell’impugnazione stessa in caso di inammissibilità di quella principale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 334 cod. proc. civ.” (v. Cass. S.U. 25-6-2002 n. 9232, Cass. S.U. 25-11-2003 n. 17981) e considerato, peraltro, che “la regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza comporta che tanto l’impugnazione che si intende proporre contro parte non impugnante, quanto quella con cui si intenda impugnare capi diversi da quelli oggetto della già proposta impugnazione, siano vincolate al canone della incidentalità di tutte le impugnazioni successive alla prima” (v. fra le altre Cass. S.U. 5-12-1990 n. 11678, Cass. sez. 1^ 19-3-1993 n. 3293).
In tale quadro questa Corte ha altresì affermato che “il ricorso incidentale per cassazione deve essere proposto, ai sensi del secondo comma dell’art. 371 cod. proc. civ., nel termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale e non dalla notifica di un primo ricorso incidentale, atteso che avverso il ricorso incidentale il quarto comma del detto art. 371 prevede solo la proponibilità del controricorso ma non anche di un ulteriore ricorso incidentale in questo contenuto, potendo da ciò derivare una serie indeterminata di ricorsi incidentali tardivi in contrasto con il principio della proponibilità dell’impugnazione incidentale solo dalle parti contro cui è stata proposta l’impugnazione principale” (v. Cass. sez. 1^ 19-7-2001 n. 9812, Cass. sez. 3^ 8-4-2003 n. 5513, Cass. sez. 3^ 29-1-2003 n. 1281, Cass. sez. 1^ 30-3-2004 n. 6282, Cass. sez. 1^ 15-7-2003 n. 11031, nonché già Cass. sez. 3^ 14-1-1994 n. 325, Cass. sez. 3^ 12-1-1996 n. 188).
Nello stesso quadro, infine, è stato anche precisato che “in virtù del principio della consumazione del diritto d’impugnazione, la parte che, dopo la proposizione di un ricorso per cassazione nei suoi confronti abbia a sua volta proposto autonomo ricorso per cassazione, da ritenersi convertito in ricorso incidentale, non può con il controricorso avverso il ricorso notificatole proporre nuova impugnazione incidentale, ancorché intenda indicare nuovi motivi o colmare la mancanza di taluno degli elementi prescritti per la valida impugnazione” (v. Cass. sez. 3^ 29-9-2005 n. 19150).
In base a tali principi, nella fattispecie, risultano tempestivi ed ammissibili soltanto il ricorso principale della B. (RG 4393/06), e quello, autonomo, da considerarsi incidentale, della S. (RG 5567/06), entrambi notificati nei termini di rito (il primo ex art. 325 c.p.c., e il secondo ex art. 371 c.p.c.).
Risultano, invece, tardivi ed inammissibili entrambi i ricorsi incidentali delle lavorataci e degli eredi K. nei confronti (rispettivamente) della B. e della S. , in quanto notificati oltre i quaranta giorni dalla notifica (agli stessi ricorrenti incidentali) del ricorso principale, avvenuta il giorno 7 febbraio 2006 (data di ricezione del plico raccomandato come da avvisi di ricevimento in atti). Infatti, venendo a scadere il 40 giorno il 19 marzo 2006 e cadendo lo stesso di domenica, il termine veniva spostato al successivo 20 marzo, laddove entrambi i ricorsi incidentali in esame (n.ri 10275/2006 e 10271/06) venivano notificati, rispettivamente alla B. e alla S. , a mezzo posta con plico raccomandato consegnato all’U.n.e.p. di Trieste soltanto in data 22-3-2006 (vedi timbro cronologico con numero e data nonché richiesta di notifica “in die”), con conseguente tardività e inammissibilità degli stessi.
Né, in base ai principi sopra richiamati, può valere in senso contrario la circostanza che tale ultima data sia compresa nei quaranta giorni dalla notifica (avvenuta il 15 febbraio 2006) del ricorso della S. (proposto autonomamente ma da considerarsi incidentale), atteso che avverso quest’ultimo il quarto comma dell’art. 371 c.p.c. prevede solo la proponibilità del controricorso non anche di un ulteriore ricorso incidentale in questo contenuto, potendo da ciò derivare una serie indeterminata di ricorsi incidentali tardivi.
Per tali ragioni, quindi, neppure potrebbe considerarsi (distintamente) tempestivo il ricorso incidentale nei confronti della S. sol perché proposto nei quaranta giorni dalla notifica del ricorso (pur sempre incidentale) proposto da quest’ultima società. In base, poi, al principio della consumazione del diritto d’impugnazione, del pari sopra richiamato, va dichiarato inammissibile il ricorso proposto in via incidentale dalla S. (RG n. 7850/2006), con il quale la detta società ha, “per tuziorismo”, interamente riproposto nel controricorso avverso il ricorso della B. il proprio ricorso (incidentale) già proposto in via autonoma.
Passando, quindi, all’esame del ricorso principale della B. e di quello incidentale della S. , rileva la Corte che entrambe le società, in sostanza, hanno proposto gli stessi tre motivi con pressoché medesime argomentazioni, mentre la S. ha aggiunto un quarto motivo. Può, pertanto, procedersi ad un esame parallelo e simultaneo dei detti primi tre motivi, con riferimento ad entrambi i ricorsi, proseguendo, poi, nell’esame del quarto motivo del ricorso incidentale della S. .
Con il primo motivo dei ricorsi B. e S. entrambe le società ricorrenti, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 e vizio di motivazione, in sostanza deducono che già in sede di gravame avevano lamentato che le attrici non avevano prospettato quella ipotesi di nullità posta dal primo giudice a fondamento della decisione appellata, avendo chiesto genericamente l’accertamento della “nullità e/o inefficacia e/o illegittimità del contratto di cessione di ramo di azienda (e di ogni altro contratto relativo alla cessione del punto vendita di Gorizia per cui è causa) tra la società G. s.r.l. e la società S. s.r.l.”, senza denunciare la sussistenza di un contratto in frode alla legge. In particolare entrambe le società lamentano che la Corte d’Appello, non considerando il reale contenuto delle relative doglianze avrebbe attribuito le argomentazioni delle lavoratrici “al rapporto G. /S. , piuttosto che a quello G. /BRI, come effettivamente era” così violando l’art. 112 c.p.c., peraltro con motivazione illogica.
Il motivo è infondato.
In particolare nei ricorsi introduttivi (pag. 12 e 13 sub C) si affermava che “il rapporto di lavoro transitato (formalmente) in capo alla società S. s.r.l. che ha, pressoché immediatamente, licenziato la ricorrente e tutti gli altri dipendenti del punto vendita di Gorizia. È dunque evidente che l’intervento della società S. s.r.l. è servito unicamente a procedere al licenziamento della ricorrente (e degli altri dipendenti) e che questa interposizione nei rapporti tra la G. s.r.l., la B. Retail Italia e la ricorrente è avvenuto in frode alla legge, per rendere più agevole (e comunque meno costosa) l’espulsione dei lavoratori (si consideri che sia la G. s.r.l. che la B. Retail s.r.l. erano soggette all’operatività della L. n. 300 del 1970, art. 18). Nei confronti della ricorrente (e degli altri dipendenti del punto vendita di Gorizia) i rapporti della società S. s.r.l. con la società G. s.r.l. e la società B. Retail Italia s.r.l relativamente al punto vendita di Gorizia .. si debbono ritenere inefficaci nei confronti della ricorrente ..”.
Sulla base di tale esplicito contenuto della domanda introduttiva (le cui argomentazioni riguardavano, principalmente, proprio il rapporto G. /S. ), senza incorrere in alcuna ultrapetizione o violazione dell’art. 112 c.p.c., legittimamente la Corte d’Appello ha rilevato che risultava “evidente e per tabulas il richiamo ad un ben definito istituto quale quello del contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.) ove il contratto denunziato è quello di affitto del ramo di azienda ed il referente normativo violato, la legge che si mirava a frodare in pratica, era il disposto degli artt. 18 e 25 l. n. 300/1970, in tema di tutela reale del posto di lavoro”.
Peraltro a tale conclusione la Corte di merito è giunta osservando anche che il riferimento, contenuto nella domanda, alla “interposizione” andava interpretato nel senso letterale di uso comune, “con riguardo all’inserirsi nella sequela negoziale di un soggetto il cui intervento spezzava la continuità negoziale proprio nel punto requisito numerico necessario per ottenere la tutela cd. reale del posto di lavoro”, e tale interpretazione non è stata censurata dalle società ricorrenti. Il richiamo, poi, fatto in particolare dalla S. al principio affermato da questa Corte con la sentenza 14-1-2003 n. 435 risulta inconferente, in quanto nel presente caso. essendo stato specificamente allegato e dedotto un negozio in frode alla leggere stato ampiamente rispettato il principio dispositivo e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, con i quali va coordinato il principio della rilevabilità d’ufficio della nullità dell’atto (in quel caso, invece, nel quale era stata dedotta la simulazione del passaggio di un lavoratore da una società alle dipendenze di un’altra, è stata confermata la sentenza d’appello che aveva riformato, perché affetta da ultrapetizione, quella di primo grado che, escludendo l’invocata simulazione, aveva ritenuto la nullità del predetto passaggio, perché in frode alla legge).
Con il secondo motivo, poi, dei rispettivi ricorsi, la B. e la S. , denunciando violazione degli artt. 18 l. n. 300/1970, 2112, 1418 e 1344 c.c., nonché vizio di motivazione, in sostanza, negando all’art. 18 l. n. 300/1970, il carattere di norma imperativa ai fini della configurabilità di un negozio in frode alla legge, deducono la inconferenza dei richiami giurisprudenziali (Cass. n. 2406/2004, 9815/1991 e 3136/1999) contenuti nell’impugnata sentenza e rilevano che il lavoratore trasferito ex art. 2112 c.c. non ha alcun diritto a veder salvaguardato, anche presso il nuovo datore di lavoro, il presupposto dimensionale che gli consente di conservare la tutela reale, la quale non può permanere là dove il datore di lavoro abbia meno di 15 dipendenti. Aggiungono, poi, la B. e la S. che, non essendo in alcun modo proibito il trasferimento o, come nella specie, l’affitto di un ramo della azienda ad un datore di lavoro con tale limitato requisito dimensionale, né essendo più rivendicabile la tutela reale, neppure sarebbe concepibile un negozio in frode alla legge.
In tale quadro, peraltro, secondo le ricorrenti, neppure si comprenderebbe quale interesse avrebbe avuto la S. all’operazione essendo stato riferito l’intento fraudolento piuttosto alla G. (poi B. ) e alla BRI.
Inoltre errata sarebbe la decisione impugnata in ordine alla sussistenza del requisito numerico in capo alla G. (poi B. ), dovendo a tal fine considerarsi i dipendenti effettivi e non quelli solo teorici, come nella fattispecie, nella quale il passaggio dei dipendenti “tra C. e G. ” sarebbe stato “solo virtuale”.
Infine, in particolare, la ricorrente principale, sempre con il secondo motivo, deduce altresì la infondatezza della tesi affermata nell’impugnata sentenza secondo cui la comunicazione del passaggio dei lavoratori da G. a S. esprimeva la volontà di G. di licenziare quei lavoratori. Anche tali censure non possono essere accolte in quanto in parte non colgono nel segno la decisione impugnata, in parte risultano infondate e in parte sono inammissibili. Innanzitutto la sentenza non ha affatto affermato né che in base alla disciplina di cui all’art. 2112 c.c., al lavoratore spetti un diritto alla conservazione della tutela reale presso il nuovo datore di lavoro né che sussista un divieto di un trasferimento (o affitto) di ramo di azienda da un datore di lavoro con più di 15 dipendenti ad un datore con meno di 15 dipendenti.
Tanto meno, poi, la Corte d’Appello ha posto in dubbio la liceità, ex se (in quanto non in contrasto con norme imperative – art. 1343 c.c.-), dell’affitto di ramo d’azienda de quo, avendo, invece, accertato che lo stesso ha costituito, nel concreto, il mezzo per eludere l’applicazione dell’art. 18 L. n. 300/1970, (art. 1344 c.c.). In sostanza la Corte di merito è partita dal presupposto che il meccanismo della frode alla legge consiste proprio nell’utilizzare un negozio in sé lecito per realizzare mediatamente un fine vietato da una norma imperativa.
Tale presupposto è conforme al disposto di cui all’art. 1344 citato, inserito nella Sezione li (“Della causa del contratto”), del Capo 2^ (“Dei requisiti del contratto”), del Titolo 2^ (“Dei contratti in generale”) del Codice civile.
Come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza 17-7-1981 n. 4414, “il contratto in frode alla legge è caratterizzato dalla consapevole divergenza tra la causa tipica del contratto prescelto e la determinazione causale delle parti indirizzata alla elusione di una norma imperativa”. In sostanza “si tratta di contratto inficiato da nullità perché caratterizzato, nel suo insieme, da causa oggettivamente illecita, che postula la necessaria comunanza dell’intenzione fraudolenta, giacché attraverso un oggettivo collegamento strutturale e funzionale, è utilizzato un contratto tipico e permesso per realizzare un risultato vietato da norme imperative”. In tale ipotesi, quindi, è la norma che espressamente dispone che “si reputa . illecita la causa”, così inserendo la frode alla legge nella “illiceità della causa” in senso lato (sulla nozione unica di “illiceità”, lato sensu, alla quale fanno riferimento gli artt. 1343, 1344 e 1345 c.c., v. anche, fra le altre, Cass. S.U. 25-10-1993 n. 10603, che, considerato che nell’ordinamento non si rinviene una norma che sancisca, di per sé, l’invalidità del contratto in frode ai terzi, ha precisato che “l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri, non è illecito” “ove non sia riconducibile ad una di dette fattispecie”).
In altre parole la frode alla legge funziona come clausola generale di tipizzazione delle condotte negoziali tenute in violazione di norme imperative, di guisa che, a seguito del combinato disposto della norma imperativa generale di cui all’art. 1344 c.c. e della norma imperativa speciale, vengono tipizzate non solo le violazioni dirette del precetto imperativo, ma anche le elusioni, gli aggiramenti e le violazioni mediate e indirette.
In tale quadro, quindi, innanzitutto non può in alcun modo disconoscersi (in astratto) la configurabilità di una frode alla legge posta in essere al fine di eludere la disciplina di cui alla L. 300 del 1970, art. 18, ricorrendo i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all’art. 1344 c.c.. Al riguardo, infatti, mentre non può certamente dubitarsi del carattere imperativo, anche in senso sostanziale, della norma di cui all’art. 18 L. n. 300/1970, senz’altro conferenti risultano i richiami fatti nell’impugnata sentenza alla giurisprudenza di legittimità che in tema di gruppi di aziende ai fini del requisito numerico riconosce la configurabilità di una frode alla legge, proprio con riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 18 e 35 L. n. 300/1970, (v. Cass. 9-6-1989 n. 2819, Cass. 20-9-1991 n. 9815, Cass. 1-4-1999 n. 3136, Cass. 1-8-2001 n. 10500, Cass. 20-11-2001 n. 14609, Cass. 6-4-2004 n. 6707, Cass. 15-5-2006 n. 3^ 07, Cass. 7-9-2007 n. 18843). Peraltro neppure potrebbe in contrario invocarsi la pronuncia di questa Corte n. 10108 del 2-5-2006, la quale ha escluso la configurabilità di una frode alla legge nel “contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro”, sulla base del rilievo che “dal sistema di garanzie apprestate dalla L. n. 223 del 1991 non è possibile enucleare un precetto che vieti, ove siano in atto situazioni che possano condurre agli esiti regolati dalla legge, di cedere l’azienda, ovvero di cederla solo a condizione che non sussistano elementi tali da rendere inevitabili quegli esiti” e che un divieto del genere neppure “è desumibile dalle altre disposizioni che regolano la cessione di azienda”. In tale ipotesi, assai diversa, la Corte ha, infatti, in sostanza, semplicemente affermato che l’ordinamento non condiziona la validità della cessione di azienda alla “prognosi favorevole alla continuazione dell’attività produttiva” e neppure “all’onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario”.
Tale principio non contrasta e neppure interferisce in alcun modo con la configurabilità di una frode alla legge (diversa) per la elusione della norma imperativa di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (ipotesi che, del resto, non incide sul diritto dell’imprenditore garantito dall’art. 41 Cost.). Parimenti infondata è poi la censura circa la pretesa insussistenza del requisito numerico in capo alla G. (poi B. ).
La tesi, infatti, del passaggio alla G. soltanto “virtuale” in vista del trasferimenti agli affittuari, risulta contraddittoria e priva di consistenza giuridica. Se la cessione fu valida ed efficace (dato non contestato) è indubbio che lo fu a tutti gli effetti e che come ha rilevato la impugnata sentenza la G. “si rese cessionaria all’epoca di diversi punti vendita con oltre sessanta addetti”.
Per quanto riguarda, poi, la censura relativa alla ascrivibilità alla G. della risoluzione del rapporto la sentenza impugnata ha interpretato la comunicazione del passaggio dei vari rapporti di lavoro alla S. come atto di licenziamento, in base agli elementi concreti della vicenda emersi ed in specie al comportamento della stessa G. , considerando altresì da un lato la “assenza di altri validi motivi di risoluzione del rapporto…qui nemmeno allegati” e dall’altro il venir meno, a seguito della nullità del contratto di affitto di azienda alla S. (effettuato in frode alla legge), di “ogni aggancio con la società che sarebbe dovuta subentrare”. Tale valutazione, di fatto, rimessa al giudizio del giudice del merito, resiste alla detta censura.
Con il terzo motivo le società ricorrenti, denunciando violazione dell’art. 1344 c.c., artt. 115 – 116, e 345 c.p.c. e art. 2118 c.c., nonché vizio di motivazione, in sostanza contestano le argomentazioni svolte dalla Corte di merito per affermare la sussistenza nella fattispecie di un contratto in frode alla legge. Sul punto, premesso che al riguardo occorre che il giudice verifichi di volta in volta se il negozio (o l’insieme dei negozi funzionalmente collegati) sia stato predisposto ed attuato al fine di eludere l’applicazione di una norma imperativa, questa Corte ha avuto occasione di precisare che “tale accertamento rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato” (v. Cass. 22-4-1974 n. 1123). In base poi, alla giurisprudenza consolidata di questa Corte “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766). In altri termini “il disposto dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata” (v., fra le altre, Cass. 20-4-2006 n. 9234, Cass. 15-4-2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933, Cass. 9-4-2001 n. 5231).
Orbene le società ricorrenti lamentano in particolare:
la mancanza nella motivazione della considerazione di quanto disposto dall’art. 47 L. 428/1990, il cui dettato normativo era stato rigorosamente rispettato dalla C. e dalla G. ; la mancata considerazione che nella comunicazione del 3-1-2001 appariva anche la S. fra i soggetti interessati a stipulare con G. singoli contratti di affitto di azienda e che la stessa S. in tale veste partecipo ai successivi incontri sindacali;
la mancata considerazione che le organizzazioni sindacali erano state ampiamente informate delle varie problematiche nonché della necessaria sospensione dell’attività e che in definitiva i licenziamenti collettivi furono il frutto di un precedente accordo sindacale e rappresentarono il passaggio obbligato per poter fare accedere tutti i dipendenti alla mobilità.
Le ricorrenti, poi, in sostanza deducono la erronea valutazione delle risultanze testimoniali e documentali sul comportamento in particolare di G. e di S. e sulla vicenda in concreto, nonché la erroneità del rilievo attribuito dai giudici del merito alla mancata esibizione delle fatture inerenti al canone di affitto e la erroneità della decisione della Corte d’Appello circa la tardività e inammissibilità della produzione documentale richiesta in sede di gravame, ribadendo, infine, la mancanza di un licenziamento nella comunicazione G. del 1-2-2001.
Orbene le censure sono in gran parte inammissibili perché in sostanza sollecitano un riesame del merito in questa sede di legittimità, ed in parte sono o irrilevanti o infondate o comunque prive di decisività.
L’accertamento fondamentale di merito sulla sussistenza del contratto in frode alla legge è stato sviluppato con motivazione senz’altro congrua e priva di vizi logici, attraverso una attenta valutazione prima analitica e poi sintetica delle risultanze istruttorie emerse, all’esito della quale la Corte d’Appello ha, in sintesi, ritenuto che: “risulta provato come nel gennaio 2001 il Gruppo C. avviò la procedura per la cessione del ramo di azienda di che trattasi alla G. la quale sarebbe subentrata nei rapporti di lavoro, la G. però, nel contempo, comunicava che avrebbe assunto una serie di punti vendita e che peraltro il personale addetto al punto di vendita di Gorizia sarebbe transitato a B. Retail Italia con contratto di affitto di azienda dal febbraio 2001. Di fatto accadde però che a B. Retail Italia ebbe a subentrare la società S. nel contratto di affitto divisato da G. ; la G. peraltro, a mezzo del sig. Dardi, continuò a seguire attivamente le problematiche anche occupazionali del punto vendita di Gorizia la cui attività rimase sospesa e riprese solo a settembre 2001, dopo una ristrutturazione dei locali il cui onere non risulta essere stato affrontato dalla società S. che pure ne era la “titolare”. Dopo la ristrutturazione dei locali G. e S. risolsero il contratto di affitto senza nessuna pretesa da parte di Spazi e B. retail Italia vi subentrò aprendo il punto vendita e riassumendo due delle addette. Pacifico e provato è infine che mentre S. aveva meno di quindici addetti, B. Retail Italia ne aveva di più di tale numero e che S. nulla ha corrisposto per canone di affitto alla G. . Di qui il rilievo che G. e B. Retail intendevano da subito ristrutturare il punto di vendita e risolvere la più parte dei rapporti di lavoro e fecero quindi intervenire la società S. nel loro disegno, la quale società aveva assai meno vincoli di esse, vantando meno di sedici addetti; detta società difatti mai gestì alcunché né pagò un canone né si fece carico dei lavori di ristrutturazione ma, solo, risolse i vari rapporti di lavoro per poi lasciare il campo, senza particolari oneri per le parti, a B. Retail Italia”.
Tale accertamento resiste senz’altro alle censure delle ricorrenti B. e S. . Della insindacabilità in questa sede della valutazione di merito delle risultanze testimoniali e documentali si è già detto. Il rispetto, poi, della procedura ex art. 47 L. 428/1990, non era in discussione e certamente non assumeva rilevanza decisiva al fine di escludere la frode alla legge in esame. La presenza, peraltro, della S. già nelle riunioni del 16 e 23-1-2001, è stata valutata dalla Corte d’Appello come partecipazione non chiara, essendo la stessa S. “C. volta invece nell’acquisizione del punto vendita di Vicenza” e sul punto la Corte ha rilevato altresì che “il reale C. volgimento della società S. traspare solo con il comunicato del 31-1-2001”, senza che nulla si sapesse “delle concrete ragioni di tale mutamento del destinatario del contratto di affitto di azienda”.
Della interpretazione, poi, come licenziamento della comunicazione del 1-2-2001 si è già detto, sotto il secondo motivo.
Infine la impugnata decisione resiste anche alla censura rivolta alla affermata tardività e inammissibilità di produzione documentale in appello (ai sensi di Cass. S.U. n. 8202 del 2005). Sul punto le società ricorrenti deducono che l’ordine di esibizione emesso dal primo giudice era del tutto generico e che l’esigenza della detta produzione sarebbe sorta, in sostanza, soltanto a seguito della sentenza di primo grado. Orbene, posto che la frode alla legge nel contratto di affitto di ramo di azienda de quo era stata prospettata ab origine dalle attrici (vedi sopra) è in primo luogo evidente che incombeva sulle società la tempestiva allegazione, prima ancora che la prova, dei fatti assunti come contrari. Sul punto, poi, la Corte d’Appello ha affermato specificamente che “quanto all’ordine di esibizione reso il 21/22-1-2003 esso faceva cenno, per tutte le società, a tutti i contratti sottoscritti per il punto vendita di Gorizia ed ai registri delle fatture e dei libri contabili obbligatori relativi al punto vendita citato” e che “nel caso di specie. oltre a tutto, vi furono diversi ordini di esibizione resi dal Giudicante all’esito dei quali i documenti che si vorrebbero produrre solo qui, in grado di appello, non lo furono”.
Peraltro la pretesa circostanza di fatto, secondo cui i canoni di affitto sarebbero stati compensati con l’indennità d’occupazione riconosciuta da G. a S. per tutto il periodo necessario all’esecuzione dei lavori, dalla stessa lettura dei ricorsi in esame risulta allegata per la prima volta in sede di appello. Così respinti i primi tre motivi sia del ricorso principale della B. sia del ricorso incidentale della S. , non resta che esaminare il quarto motivo del ricorso della S. .
Con tale motivo, denunciando violazione dell’art. 420 c.p.c., comma 5, e art. 437 c.p.c., nonché vizio di motivazione, la società lamenta, in sostanza, che la Corte d’Appello da un lato ha negato l’ingresso ai documenti che attestavano la solidità economica e patrimoniale di essa S. e dall’altra ha affermato che “a ragione poi il tribunale ha evidenziato che la società S. è una compagine dal limitato capitale sociale e si era però impegnata ad affrontare l’onere di un consistente canone di affitto di azienda così fornendo limitate garanzie”. Anche tale censura non può essere accolta. Innanzitutto la affermazione della Corte d’Appello risulta fatta semplicemente ad abundantiam (“A ragione poi “).
La censura, poi, è priva di decisività giacché comunque (senza peraltro neppure smentire la ritenuta limitatezza del capitale sociale) tende ad affermare la consistenza economica e patrimoniale della S. , circostanze tutte in ogni caso irrilevanti e per nulla decisive ai fini della accertata frode alla legge.
È fuor di dubbio, infatti, che quest’ultima, nella specifica ipotesi de qua, ben può sussistere a prescindere dalle capacità economiche e patrimoniali del datore di lavoro cessionario (o come nella specie affittuario) della azienda, essendo invece rilevante, nel quadro della elusione della norma imperativa citata, il requisito del numero dei dipendenti.
Il ricorso principale della B. (n. 4993/06) e quello incidentale della S. (5567/06) vanno così respinti.
Infine, in considerazione dell’esito reciproco del giudizio di legittimità, oltre che della complessità delle questioni, ricorrono giusti motivi per compensare le relative spese fra le parti tutte.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale n. 4993/06 e quello incidentale n. 5567/06; dichiara inammissibili gli altri ricorsi incidentali; compensa le spese tra le parti tutte.