Cassazione Civile, Sez. I, 11-02-2008, n. 3186
Svolgimento del processo
1 C.M., con citazione notificata il 4 aprile 2003 a P.M.D., esponeva di avere contratto matrimonio concordatario con la convenuta e di avere successivamente chiesto al tribunale ecclesiastico del Lazio di pronunciarne la nullità, dichiarata con sentenza 12 dicembre 2000, confermata con decreto 26 giugno 2002 del tribunale ecclesiastico di appello, resa esecutiva con decreto 3 gennaio 2003 del Supremo tribunale della Segnatura Apostolica.
Chiedeva che la sentenza fosse dichiarata efficace nello Stato italiano.
La P. si costituiva dinanzi alla Corte di appello di Roma opponendosi alla delibazione della sentenza e chiedendo in subordine, in via riconvenzionale, la pronuncia dei provvedimenti temporanei di natura economica previsti dalla L. n. 121 del 1985, art. 8. La Corte di appello, con sentenza depositata il 19 dicembre 2003, dichiarava l’efficacia della sentenza ecclesiastica nella Repubblica italiana e determinava, in via provvisoria, il contributo per il mantenimento della P. in Euro 413,17.
Avverso la sentenza la P. proponeva ricorso a questa Corte, con atto notificato al C. in data 27 gennaio 2005, formulando due motivi. Il C. resiste con controricorso notificato il 7 marzo 2005, contenente ricorso incidentale ed ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione
1 Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 8, n. 2, lett. b) dell’accordo di revisione del concordato con la Santa Sede, del 1984, reso esecutivo con L. 28 marzo 1985, n. 121, a norma del quale per potersi delibare la sentenza ecclesiastica deve essere accertato che “nel procedimento dinanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano”.
Si deduce al riguardo che nel procedimento di primo grado dinanzi al giudice ecclesiastico era stato leso il principio fondamentale dell’ordinamento processuale italiano della immodificabilità della domanda, se non in conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni della parte convenuta.
Infatti il C. aveva dedotto la nullità del matrimonio “a norma del canone 1101, paragrafo 2, per esclusione della prole a parte sua” ed il “dubbio” sulla nullità del matrimonio era stato inizialmente concordato “an constet de nullitate matrimonii in casu ex capite defectus matrimonialis consensus ob exclusum bonum prolis ex parte viri” ed essa ricorrente aveva contestato la veridicità di tale fatto.
Successivamente, secondo quanto risulta dalla sentenza ecclesiastica, il “dubbio” – poi risolto con la declaratoria di nullità del matrimonio – era stato stabilito d’ufficio, dopo l’interrogatorio delle parti, l’audizione di alcuni testimoni e due consulenze psichiatriche di parte attrice, diversamente, e cioè “an constet de matrimonii nullitate in casu ob viri incapacitatem adsumendi obligationes matrimonii essentiales”.
Secondo la ricorrente la modificazione della domanda, così avvenuta, si porrebbe in contrasto con i principi dell’ordinamento italiano in quanto, fallita la prova relativa alla esclusione della prole da parte del marito, la nullità del matrimonio era stata dichiarata per incapacità psichica del marito ad emettere un valido consenso, con la violazione del diritto di difesa della convenuta, che si era difesa in relazione alla domanda originaria, fornendo elementi poi utilizzati contro di lei per l’accoglimento del dubbio successivamente formulato. Ne risulterebbero lesi principi fondamentali dell’ordinamento italiano, che non consente all’attore di mutare la domanda, mentre non sarebbe fondato l’assunto della sentenza impugnata secondo il quale la difesa della parte convenuta aveva avuto tutte le opportunità per contestare il mutamento del “dubbio”, come consente l’ordinamento processuale canonico, e quindi non vi era stata alcuna violazione del contraddittorio e dei diritti fondamentali della difesa. Infatti la ricorrente, prima del mutamento del “dubbio”, aveva fornito elementi che poi l’hanno pregiudicata.
Il motivo è infondato.
La L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, n. 2, lett. b), statuisce che le sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte di appello in presenza di alcune condizioni, fra le quali “che nel procedimento dinanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano”.
Tale disposizione va interpretata nel senso che una violazione, nel corso del procedimento dinanzi al tribunale ecclesiastico, del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio, quale circostanza ostativa alla delibazione, è riscontrabile soltanto in presenza di una compressione della difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordinamento dello Stato, mentre restano irrilevanti le diversità della normativa processuale ecclesiastica che non incida sul nucleo essenziale ed ineliminabile del diritto di difesa, quale garantito nell’ordinamento dello Stato, senza lo svuotamento e la compromissione dello stesso.
La su detta violazione del diritto di difesa non sussiste nel caso di specie, non costituendo il principio della immodificabilità della domanda un principio dell’ordinamendo processuale dello Stato coessenziale al diritto di difesa, inderogabilmente garantito dagli artt. 24 e 11 Cost., risultando il diritto di difesa assicurato ove alla modificabilità della domanda si raccordi, in concreto, la garanzia del contraddittorio in relazione alla domanda modificata, come la Corte di appello ha accertato essere avvenuto nel caso di specie.
Né ha pregio l’argomento della ricorrente secondo il quale una lesione del diritto di difesa le sarebbe derivata dall’avere essa fatto ammissioni che non l’avrebbero pregiudicata in relazione alla causa petendi originaria, mentre l’hanno pregiudicata a seguito del mutamento di essa. Infatti le parti, nei giudizi dinanzi ai tribunali ecclesiastici, sono sin dall’inizio a conoscenza della mutabilità, nel corso di essi, della causa petendi, cosicché sono in grado di difendersi, sin dall’inizio del procedimento, secondo una linea difensiva che tenga conto della su detta possibilità e delle sue conseguenze.
2 Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, n. 2, lett. c) del su detto accordo, reso esecutivo con L. n. 121 del 1985, come integrato dalla L. n. 218 del 1995., art. 64, lett. f).
Si deduce che, ai sensi del disposto di detta normativa la sentenza ecclesiastica non può essere delibata, avendo l’odierna ricorrente eccepito che, prima del passaggio in giudicato della sentenza canonica, con ricorso al tribunale di Viterbo depositato nella cancelleria in data 7 novembre 2002, aveva chiesto la declaratoria della cessazione degli effetti civili del matrimonio, e cioè aveva proposto un giudizio con il medesimo oggetto.
Al riguardo va premesso che, a norma della L. n. 121 del 1985, art. 8, n. 2, le sentenze di nullità dei matrimoni pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono delibabili ove ricorrano – oltre alle condizioni di cui al sopra indicato disposto della lett. b) – anche la condizione prevista dalle lett. a) e c). Cioè che sussistesse, relativamente alla sentenza, la competenza del giudice ecclesiastico a conoscere della causa, in quanto relativa a matrimonio concordatario celebrato in conformità delle prescrizioni del primo comma dello stesso articolo (lett. a) e che ricorressero, inoltre (lett. e) “le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”.
Va inoltre precisato che tale rinvio, avendo natura di rinvio materiale e non formale (Cass. 10 maggio 2006, n. 10796), va riferito al testo dell’art. 797 c.p.c., vigente all’epoca dell’entrata in vigore della L. n. 121 del 1985, e non alla L. n. 218 del 1995, art. 64, successivamente entrato in vigore. Infatti, come è stato già affermato da questa Corte (Cass. 8 giugno 2005, n. 12010; 25 maggio 2005, n. 11020; 30 maggio 2003, n. 8764), l’abrogazione dell’art. 797 c.p.c., sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 73, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, non è idonea, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985, n. 121, disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso riferimento all’applicazione degli artt. 796 e 797 c.p.c., (così l’art. 4 del protocollo addizionale, in relazione all’art. 8 dell’Accordo). Ne consegue che il Giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda avente ad oggetto la predetta dichiarazione di efficacia, deve continuare ad applicare i menzionati articoli del codice di procedura civile, i quali risultano perciò connotati – relativamente a tale specifica materia ed in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost., (comportante la resistenza all’abrogazione delle norme pattizie, le quali sono suscettibili di essere modificate, in mancanza di accordo delle parti contraenti, soltanto attraverso leggi costituzionali) – da una vera e propria ultrattività.
Pertanto, in conformità con quanto sostanzialmente dedotto con il motivo (ancorché sia richiamato anche la L. n. 218 del 1995, art. 64), va verificato se, al momento della proposizione della richiesta di delibazione, fosse “pendente davanti ad un giudice italiano un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza” da delibare (art. 797 c.p.c., n. 6).
Ciò premesso, anche il secondo motivo deve essere ritenuto infondato.
La domanda di divorzio, cosi come quella di separazione (Cass. 6 marzo 2003, n. 3339), ha infatti un oggetto diverso dalla domanda relativa alla declaratoria di nullità del matrimonio, sia che questa sia stata proposta dinanzi ai tribunali ecclesiastici, sia che sia stata proposta dinanzi al Giudice statuale.
Questa Corte, a sezioni unite, con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824, ha affermato il principio (riaffermato da Cass. 18 aprile 1997, n. 3345; 16 novembre 1999, n. 12671; 19 novembre 1999, n. 12867) secondo il quale, a seguito dell’accordo di revisione del Concordato reso esecutivo con la L. n. 121 del 1985, è stata abolita la riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, con la conseguente concorrenza, riguardo a tali cause, della giurisdizione dei Giudici italiani.
Peraltro Questa Corte, con la sentenza n. 4402 del 2001 (alla quale si è successivamente conformata Cass. 4 marzo 2005, n. 4795) ha espressamente affermato che la domanda di divorzio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio, e che ove nel giudizio di divorzio le parti non introducano esplicitamente questioni relative all’esistenza e alla validità del vincolo – che darebbero luogo a questioni incidenti sullo status delle persone, e quindi da decidere necessariamente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., con efficacia di giudicato – l’esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della pronuncia di divorzio, ma non formano oggetto di specifico accertamento suscettibile di determinare la formazione di un giudicato.
Per questa ragione la proposizione di una domanda di divorzio, investendo il matrimonio – rapporto e non il matrimonio atto, non costituisce ostacolo alla delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, costituendolo solo la dimostrata proposizione, nel giudizio di divorzio, di una espressa domanda di nullità del matrimonio, avente carattere pregiudiziale rispetto a quella di divorzio e, per quanto sopra, detto, destinata ad essere decisa con efficacia di giudicato. Non essendo stato dedotta con il motivo la proposizione nel giudizio di divorzio di tale domanda, il motivo deve essere ritenuto infondato.
3 Con il controricorso è stato proposto ricorso incidentale deducendosi, a proposito dell’assegno provvisionale concesso dalla sentenza della Corte di appello, la violazione dell’art. 129 bis c.c., in quanto la declaratoria di nullità del matrimonioconcordatario per incapacità psichica sarebbe incompatibile con la consapevolezza da parte dell’incapace dell’esistenza del vizio richiesta dalla norma per la concessione della provvisionale.
Il motivo è inammissibile.
Va precisato che il provvedimento, la cui legittimità si contesta, risulta adottato sulla base dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, di revisione del Concordato lateranense (reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985, n. 121), il quale riconosce alla Corte d’Appello, in sede di delibazione di sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di matrimonio religioso, il potere di disporre, in via provvisoria, una congrua indennità e la corresponsione di alimenti al coniuge in buona fede.
In proposito questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. 19 novembre 2003, n. 17535; 17 marzo 1998, n. 2852) che il provvedimento con il quale la Corte d’appello, chiamata a delibare la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, disponga, a norma dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo sopra citato, di revisione del Concordato lateranense, misure economiche provvisorie a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rientra tra i provvedimenti aventi funzione strumentale e natura anticipatoria (in quanto diretti ad assicurare preventivamente la “fruttuosità pratica” della decisione definitiva), ed è subordinato all’accertamento, in via di delibazione sommaria, del diritto del richiedente al conseguimento dell’indennità e degli alimenti (“fumus boni iurla”), nonchè del pericolo del pregiudizio alla sua attuazione durante il tempo occorrente per farlo valere davanti al giudice competente per la decisione sulla materia. Conseguentemente, avverso detto provvedimento interinale, per sua natura inidoneo a conseguire efficacia di giudicato (sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista sostanziale), non è esperibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., ammissibile soltanto nei confronti di provvedimenti giurisdizionali che siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, ossia attitudine ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale.
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Stante la reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione;
Rigetta il ricorso e compensa fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2008