Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 20 dicembre 2007 – 12 febbraio 2008, n. 3284
Svolgimento del Processo
1. Nel gennaio del 1996 Pasquale A. – in esito al provvedimento di tutela cautelare, innominata che ne aveva accolto parzialmente l’istanza – convenne in giudizio il comune di Reggio Calabria innanzi al locale tribunale chiedendone la condanna alla rimozione di un palo portante un lampada di illuminazione pubblica (lampione) apposto nel settembre del 1995 nell’immediata vicinanza della facciata del palazzo nel quale abitava, a distanza – affermò – talmente ravvicinata dal suo appartamento da renderne possibile l’accesso a qualunque malintenzionato, così pregiudicando il suo diritto “alla salute ed alla sicurezza della persona”, tanto più in relazione ai possibili pericoli connessi alla sua qualità di magistrato. Domandò anche la condanna del convenuto al risarcimento del “danno patito e patendo”.
Il comune convenuto resistette.
Con sentenza n. 606 del 29.6.2001 il tribunale di Reggio Calabria rigettò la domanda e compensò le spese sui rilievi che non erano ravvisabili profili di illegittimità nell’operato dell’ente convenuto; che “mancava qualsiasi allegazione di un effettivo danno biologico o, più genericamente, alla persona in tutte le sue possibili estrinsecazioni”; che era stata piuttosto addotta una mera “potenzialità di danno” ; che conclusivamente, mancava “l’illegittimità della condotta della pubblica amministrazione e persino il diritto tutelabile”.
La sentenza è stata totalmente riformata dalla corte d’appello di Reggio Calabria con sentenza n. 168/04 del 16.8.2004 che, in accoglimento dell’appello del soccombente, ha condannato il comune alla rimozione del palo ed al risarcimento del danno “esistenziale” nella misura di € 4.000,00, oltre al pagamento delle spese del doppio grado (rispettivamente liquidate in € 7.585,64 ed in € 4.127,84).
Avverso la sentenza ricorre per cassazione il comune, affidandosi a cinque motivi cui resiste con controricorso l’ A.
Motivi della decisione
Va premesso che, dei cinque motivi di ricorso del Comune ricorrente, il quarto concerne la motivazione della sentenza impugnata in punto di ravvisata pericolosità del palo o lampione, il primo attiene al capo della sentenza d’appello nella parte in cui ne ha ordinato la rimozione (già eseguita, secondo quanto affermato dal controricorrente A. ) , e gli altri tre la statuizione relativa alla condanna dell’ente territoriale al risarcimento del danno, qualificato dalla corte d’appello come “esistenziale”. Il quarto motivo – il cui esame è logicamente preliminare – è inammissibile in quanto, al di là del vizio di motivazione solo formalmente prospettato, viene in realtà censurato un apprezzamento di fatto, non reiterabile in questa sede di legittimità.
Col primo motivo il ricorrente assume che soltanto in fase di gravame l’attrice aveva chiesto la rimozione ovvero lo spostamento del palo non quale risarcimento in forma specifica della lesione subita, ma quale strumento di prevenzione al fine di scongiurare eventuali pericoli alla vita ed all’incolumità propria e della famiglia, dolendosi che la corte non abbia per questo ritenuto che la domanda di rimozione proposta in appello fosse nuova, e come tale vietata dall’art. 345 c.p.c. .
3.1. La doglianza è manifestamente infondata, com’è reso chiaro, prim’ancora che dal contenuto dell’atto di citazione in primo grado, dalla considerazione che la richiesta di eliminazione di una situazione di pericolo è, per sua natura, volta solo al futuro, essendo del tutto privo di senso logico che se ne domandi l’eliminazione stessa quale reintegrazione in forma specifica di un danno da rischio già corso. Posto, invero, che il danno lamentato si assumeva integrato dallo stress psicologico da situazione pericolosa costituita dalla presenza del palo, è palese che il danno da stress passato non avrebbe mai potuto essere eliso dalla rimozione del palo, necessariamente destinata ad incidere, escludendolo, solo sul rischio e sul conseguente turbamento psichico ancora da venire.
4. Col secondo e col terzo motivo la sentenza è censurata per non aver ritenuto che fosse nuova, e dunque inammissibile, la domanda relativa al risarcimento del danno “esistenziale”, anch’esso domandato solo in appello, essendo stato in primo grado richiesto soltanto il risarcimento del danno biologico, escluso dal tribunale.
4.1. Le censure sono fondate.
Dall’atto di citazione risulta che la presenza del palo era stata prospettata come “gravissimo e perenne attentato alla sicurezza, nel senso di vera e propria lesione dell’integrità psicofisica dell’istante e dei suoi familiari” (a pagina 1) ; che era stato invocato “il diritto costituzionalmente garantito dell’istante alla salute” (art. 32)” (a pagina 7); che si era lamentata la lesione “del diritto soggettivo, costituzionalmente garantito, alla tutela e salvaguardia della propria salute, come più volte sin qui ribadito, intesa come vera e propria sicurezza, integrità ed inviolabilità della persona” (alle pagine 11 e 12).
Non è dunque revocabile in dubbio che il diritto di cui era stata lamentata la lesione in primo grado fosse quello alla salute, o lato sensu biologico, di cui all’art. 32 della Costituzione, ontologicamente diverso dal danno da lesione di un diverso diritto costituzionalmente protetto, secondo quanto reiteratamente chiarito da questa Corte a partire dalle coeve sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003.
La corte d’appello ha, invece ritenuto che “il danno esistenziale rientra nel più ampio concetto del danno biologico, costituendo una delle sue possibili estrinsecazioni”, così incorrendo in un fuorviante errore di fondo, che l’ha portata ad affermare che il “danno esistenziale concreto e non potenziale per il dott. A. ” sussistesse “poiché il fondato timore che taluno possa introdursi nella sua abitazione crea in lui uno stress psicologico che fa venire meno la propria serenità e rappresenta un vulnus per la sua sicurezza” (così la sentenza impugnata, a pagina 11, in fine) .
Va in contrario rilevato, per un verso, che lo stress psicologico da timore è solo una conseguenza della lesione di un possibile interesse protetto, il quale va tuttavia previamente individuato perché possa anche solo venire in considerazione il danno in ipotesi derivato dalla lesione dello stesso; e, per altro verso, che né la serenità né la sicurezza costituiscono, in se stesse considerate, diritti fondamentali di rango costituzionale inerenti alla persona, la cui lesione consente il ricorso alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale. In definitiva, la corte d’appello ha omesso di individuare il diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito che ha tuttavia ritenuto leso dal comportamento del comune convenuto, erroneamente assumendo che la richiesta di risarcimento di un danno necessariamente diverso da quello alla salute fosse tuttavia in esso ricomprasse, per questo escludendo che la domanda per la per la prima volta proposta in appello fosse nuova, e dunque inammissibile ex art. 345 c. p. c..
5. Assorbito il quinto motivo, che attiene alla prova del danno intesa come conseguenza della lesione dell’interesse, la sentenza va dunque cassata nella parte in cui ha statuito su una domanda inammissibile.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto in parte qua, la causa va decisa nel merito, ex art. 3 84 c.p.c, con la declaratoria di inammissibilità della domanda di risarcimento del danno “esistenziale”, siccome proposta per la prima volta in appello.
6. Le spese del primo grado possono essere compensate. Quelle del grado di appello e del giudizio di legittimità seguono la prevalente soccombenza del resistente .
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il terzo, dichiara inammissibile il quarto ed assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile la domanda di risarcimento del danno esistenziale proposta da Pasquale A. in appello;compensa tra le parti le spese del primo grado e condanna l’A. a rimborsare al Comune di Reggio Calabria le spese del giudizio di appello, che liquida in € 4.000 per onorari, e quelle del giudizio di cassazione, che liquida in € 4.500, di cui € 4.400 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori dovuti per legge.