Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 26 novembre 2007 – 7 gennaio 2008, n. 33
Svolgimento del processo
In accoglimento della domanda proposta da Rolando B. nei confronti della Co. G. s.r.l., ai sensi dell’art. 2932 c.c., il tribunale di Monza, con sentenza del 4 febbraio 1999, trasferì all’attore la proprietà di un immobile sito in Robecchetto con Induno, sotto la condizione del pagamento del residuo prezzo.
Proposto appello dalla soccombente, il relativo giudizio venne interrotto per l’intervenuto fallimento della Co. G. . s.r.l. e successivamente riassunto dal curatore fallimentare.
Con sentenza del 27 maggio 2003, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, preso atto della volontà del curatore, manifestata in sede di precisazione delle conclusioni, di sciogliersi dal contratto stipulato dalla fallita società, dichiarò lo scioglimento del preliminare. Richiamando giurisprudenza di questa Corte, il giudice a quo considerò che legittimamente il curatore aveva esercitato la facoltà di sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi dell’art. 72 l.fall. e che ciò doveva ritenersi consentito anche in appello, costituendone unico limite processuale il passaggio in giudicato della sentenza di trasferimento coattivo. Tale evenienza non si era verificata in concreto, pur essendosi l’appellante limitato a chiedere la declaratoria di preclusione della domanda di adempimento del contratto preliminare di vendita ex art. 1453, comma secondo, cc., dacché, nel caso di impugnazione parziale, l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate si verifica soltanto quando le diverse parti siano del tutto autonome l’una dall’altra e non anche quando la parte non impugnata si ponga in nesso consequenziale con l’altra e trovi in essa il suo presupposto.
Di detta sentenza Rolando B. ha chiesto la cassazione con ricorso articolato in quattro motivi, in seguito illustrati con memoria.
Il fallimento della Co. G. s.r.l. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia “omessa, insufficiente, contraddittoria ed erronea motivazione su un punto decisivo della controversia” nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 72, quarto comma, l.fall. e dell’art. 345 c.p.c. I giudici di secondo grado hanno erroneamente considerato legittima la “scelta” di sciogliere il contratto preliminare benché il curatore non avesse esercitato tale facoltà e il di lui procuratore costituito avesse fatto semplicemente riferimento solo in sede di precisazione delle conclusioni a una comunicazione al riguardo effettuata a esso B. in data 7 giugno 2000, non prodotta in giudizio, chiedendo che fosse il giudice di appello a dichiarare lo scioglimento del contratto. In ogni caso, la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto costituisce un’eccezione in senso proprio, che, a mente della nuova formulazione dell’art. 345, comma secondo, c.p.c., non può essere proposta per la prima volta in grado di appello. Ma quand’anche fosse ammissibile come eccezione, avrebbe dovuto essere dedotta personalmente dal curatore con il primo scritto difensivo utile, ossia con la comparsa in riassunzione, e non già in sede di precisazione delle conclusioni. Contraddittoria è l’affermazione della corte milanese secondo cui non sarebbe invocabile la violazione dell’art. 345 c.p.c, trattandosi del compimento di atti costituenti esercizio di un potere avente natura sostanziale, posto che essa, in altra parte della motivazione, ha fatto riferimento alla possibilità di esercitare la facoltà in parola senza limitazioni formali, anche da parte del procuratore costituito.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia “omessa e comunque insufficiente pronuncia su un punto decisivo della controversia”, oltre a violazione e falsa applicazione degli artt. 329 e 346 c.p.c.. La Co. Ges. s.r.l. non aveva riproposto in appello la “domanda di merito”, formulata in via subordinata avanti il tribunale, volta a ottenere il rigetto della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto, accolta con apposito capo della sentenza di prime cure, essendosi limitata a riformulare l’eccezione intesa a far accertare o dichiarare la preclusione della domanda di adempimento del contratto preliminare di vendita immobiliare, a norma dell’art. 1453, comma secondo, cc., per non essere consentita la proposizione di una domanda giudiziale di esecuzione del contratto, dopo averne chiesto la risoluzione per inadempimento in altro giudizio.
L’appellante aveva, cosi, rinunciato alla “domanda di merito” che non poteva, quindi, costituire oggetto di cognizione da parte del giudice di secondo grado, ai sensi dell’art. 346 c.p.c, per essersi sul punto formato il giudicato interno, inoltre, la parte della sentenza impugnata non era connessa a quelle non impugnate e non vi trovava il proprio presupposto.
Con il terzo motivo, il ricorrente reitera le deduzioni svolte in appello per confutare l’unico motivo di gravame concernente l’applicazione al caso di specie dell’art. 1453, comma secondo, cc.
Con il quarto motivo, indicato erroneamente come quinto in ricorso, il ricorrente “si riporta, per mero scrupolo e tuziorismo difensivo” a quanto compiutamente dedotto e articolato nelle difese di primo grado circa la fondatezza dell’art. 2932 c.c.
Nella memoria illustrativa il ricorrente prospetta un nuovo motivo di cassazione (ripreso in sede di discussione orale), sostenendo che la trascrizione della domanda introduttiva del giudizio, in quanto eseguita prima della dichiarazione di fallimento, ha fatto sì che la sentenza del tribunale di Monza che l’ha accolta, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa e impedisce l’apprensione del bene da parte del curatore del contraente fallito, che non può quindi più avvalersi del potere di scioglimento accordatogli dall’art. 72 l.fall. Tale deduzione è, all’evidenza, inammissibile in quanto è (o dovrebbe essere) noto che la memoria prevista dall’art. 378 c.p.c. ha la sola funzione di chiarire le ragioni esposte a sostegno dei motivi enunciati nel ricorso e non può, quindi, contenere nuovi motivi o integrare quelli originariamente generici, e quindi inammissibili, o prospettare nuove censure (vedi, solo per citare le più recenti, Cass. nn. 11097/2006, 7237/2006, 28855/2005, 7260/2005, 14570/2004).
Il primo motivo è privo di giuridico fondamento.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, la facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita stipulato dal fallito e non ancora eseguito, ai sensi dell’art. 72, comma quarto, l. fall., può essere esercitata fino all’avvenuto trasferimento del bene, ossia fino all’esecuzione del contratto preliminare attraverso la stipula di quello definitivo o per mezzo della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., resa in difetto di adempimento del preliminare e passata in giudicato (Cass. nn. 542/2006, 16860/2004, 7070/2004, 17257/2002, 3867/2000, 1037/1999, 239/1999, emessa a Sezioni Unite, 4358/1997, 1866/1994). Pertanto, il curatore può esercitare la sua facoltà anche in sede di appello (Cass. nn. 7070/2004, 3867/2000, 10376/1999), nel giudizio promosso dal promissario acquirente ai sensi dell’art. 2932 c.c, mediante dichiarazione nella comparsa conclusionale, senza che la controparte possa opporre la violazione dell’art. 345 c.p.c, atteso che il limite per la proposizione delle eccezioni in senso proprio non assume rilevanza rispetto al compimento di atti che (come nella specie) costituiscano esercizio di un potere sostanziale (vedi, espressamente sul punto, Cass. nn. 542/2006, 17257/2002, 1037/1999, 1866/1994, cit.).
Per vero, l’art. 345 c.p.c. regola l’attività processuale della parte costituita,mentre la manifestazione di volontà del curatore volta allo scioglimento del contratto costituisce espressione di un diritto potestativo del curatore (Cass. nn. 16860/2004, 5113/2001, 14102/2000) da solo idonea a produrre l’effetto dello scioglimento dal vincolo – indipendentemente, cioè, da una pronunzia del giudice, che, se emessa (nel senso di prenderne atto), ha efficacia meramente dichiarativa e non già costitutiva – e di una sua attività discrezionale, che può essere effettuata senza che siano richiesti atti formali o manifestazioni esplicite (Cass. n. 4723/1992), anche eventualmente per facta concludentia (Cass. 16860/2004, 6732/1988, 1051/1978); tale manifestazione di volontà opera direttamente sul contratto e può essere manifestata anche in sede stragiudiziale, allorché la formulazione dell’eccezione di scioglimento del contratto non sia possibile nell’ambito del processo per ragioni di ordine generale, quale quelle attinenti, ad esempio, ai limiti propri del giudizio di legittimità (cfr. Cass. nn. 2070/2004, cit., 17257/2002 cit., 4358/1997 cit.).
L’indirizzo è sicuramente condiviso dal Collegio, con la ulteriore precisazione che l’esercizio della facoltà prevista all’art. 72 l.fall. non è una eccezione in senso proprio, quindi teoricamente soggetta alla preclusione processuale contemplata all’art. 345 c.p.c., ma esercizio di un diritto potestativo di carattere sostanziale, per il cui compimento non è concepibile alcun termine decadenziale, e la cui sussistenza ex actis è soggetta al potere-dovere di rilevazione d’ufficio ad opera del giudice che deve tenerne conto ai fini della decisione sulla domanda. Ne discende, quanto ai limiti temporali entro i quali l’organo fallimentare è legittimato ad avvalersi di detta facoltà, che questa possa esercitarsi nel giudizio di appello ed anche mediante dichiarazione formulata per la prima volta nella comparsa conclusionale.
Del tutto irrilevante è, quindi, che la dichiarazione di scioglimento del curatore, ai sensi dell’art. 72, quarto comma, l.fall., sia stata notificata in modo erroneo o non sia stata provatamente notificata all’interlocutore negoziale, dacché l’opzione diretta allo scioglimento del contratto fu manifestata (anche) nel corso del giudizio. Né può condividersi l’eccezione secondo cui l’esercizio della ridetta facoltà, essendo contenuta in un atto processuale non sottoscritto dalla parte ma dal suo difensore, non giova al fine dello scioglimento del contratto. La scelta del curatore del sopravvenuto fallimento del promittente venditore di sciogliere il contratto preliminare ai sensi dell’art. 72, quarto comma, l.fall. – scelta per la quale, come detto, non sono richiesti atti formali o manifestazioni esplicite – può essere validamente espressa nella comparsa di risposta o in altro scritto difensivo o atto processuale, pur se non sottoscritto dalla parte, atteso che l’opzione in parola si traduce nell’esercizio del potere dispositivo della parte, non riconducibile, di norma, ad esclusiva iniziativa del difensore in contrasto con la volontà del proprio rappresentato (Cass. nn. 4723/1992). E nella specie la corrispondenza dell’atto difensivo alla volontà del curatore risulta persino positivamente accertata, attraverso la comunicazione della volontà di sciogliersi dal preliminare, che, quand’anche non ricevuta, è comunque idonea a rappresentare l’intendimento del curatore, poi ribadito nel corso del giudizio attraverso l’atto del difensore.
In altri termini, l’anzidetta dichiarazione di cui all’art. 72 l.fall. può essere efficacemente fatta nel corso del giudizio dal procuratore alle liti, senza che occorra mandato speciale, perché con essa non si conclude un negozio, ma si esercita, per conto del cliente, un suo diritto potestativo, che può considerarsi atto attinente alla condotta di causa e, quindi, di spettanza del difensore. Può, in definitiva, affermarsi il principio secondo cui “In tema di fallimento, la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita stipulato dal fallito e non ancora eseguito, ai sensi dell’art. 72, quarto comma, legge fall., può essere esercitata fino all’avvenuto trasferimento del bene, ossia fino all’esecuzione del contratto preliminare attraverso la stipula di quello definitivo, ovvero fino al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva ex art. 2932 cc., resa in difetto di adempimento del preliminare; il curatore può esercitare la sua facoltà anche in sede di appello, nel giudizio promosso dal promissario acquirente ai sensi dell’art. 2932 c.c., mediante dichiarazione nella comparsa di costituzione o in qualunque altro scritto difensivo (ivi compresa la comparsa conclusionale) o atto processuale, pur se non sottoscritto dalla parte, atteso che tale opzione per lo scioglimento del preliminare si traduce nell’esercizio del potere dispositivo della parte, non riconducibile, di norma, ad esclusiva iniziativa del difensore in contrasto con la volontà del proprio rappresentato; analogamente, il limite alla proponibilità delle eccezioni in senso proprio, previsto dall’art. 345 c.p.c., non assume rilevanza rispetto al compimento dell’atto in esame, il quale costituisce non un’eccezione in senso proprio ma l’esercizio di un diritto potestativo di carattere sostanziale e manifestazione di una scelta discrezionale spettante al curatore, che opera direttamente sul contratto e può essere effettuata anche in sede stragiudiziale, senza vincoli di forma, e la cui sussistenza ex actis è rilevabile d’ufficio e quindi tale da far sorgere il potere – dovere del giudice di tenerne conto ai fini della decisione sulla domanda”.
A tale principio si è correttamente uniformata la corte meneghina.
Anche il secondo motivo è privo di giuridico fondamento.
È da premettere che, per aversi acquiescenza parziale per effetto dell’impugnazione parziale (come previsto dall’art. 329, secondo comma, c.p.c.), è necessario che dal contesto dell’atto di impugnazione si deduca in modo non equivoco la volontà dell’appellante di sottoporre solo in parte la decisione all’esame d’appello. D’altro canto, l’acquiescenza può verificarsi solo con riferimento ai capi della sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dal motivo di gravame, perché fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi l’efficacia precettiva anche se gli altri vengano meno, mentre non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove questa sia oggetto del gravame (vedi, per tutte, Cass. nn. 12062/1999, 438/1996, 9823/1992, 5641/1986). In tal caso, la mancata impugnazione di un capo comporta la formazione del giudicato sullo stesso con conseguente preclusione di riesame per il giudice dell’impugnazione. L’acquiescenza parziale esige pertanto un elemento soggettivo (costituito dalla volontà di impugnare solo una parte della sentenza) ed un elemento oggettivo (l’autonomia, nel fondamento logico e nell’efficacia giuridica, della parte impugnata e della parte non impugnata). Su questo secondo elemento, è stato affermato che l’acquiescenza non si verifica ove la parte non impugnata si ponga in nesso di consequenzialità con la parte impugnata, trovando in essa il suo presupposto, poiché in detta ipotesi gli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione si estendono ai capi dipendenti, che ne costituiscano un consequenziale sviluppo; in altre parole, qualora i diversi capi siano fra loro inscindibilmente collegati, o le affermazioni ed enunciazioni contenute nella motivazione costituiscano premessa logica necessaria della pronuncia specificata nel dispositivo, l’impugnazione di un capo è sufficiente ad escludere l’acquiescenza agli altri capi ad esso collegati (Cass. nn. 11790/2002, 8859/2001, 2062/2001, 11422/2000, 9823/1998, 6494/1988, 2747/1998).
Egualmente è a dirsi nell’ipotesi simmetrica in cui la parte impugnata della decisione sia negativo sviluppo logico della parte non impugnata, in quanto si basi sulla relativa negazione (come allorquando il giudice formuli una seconda argomentazione, quale sviluppo logico fondato sulla negazione della prima argomentazione, che egli stesso abbia precedentemente formulato). In siffatta ipotesi, l’impugnazione della seconda argomentazione presuppone la negazione della parte non impugnata (la prima argomentazione). E’ pertanto da escludersi l’acquiescenza parziale, prevista dall’art. 329, secondo comma, c.p.c, quando la parte della sentenza, che è specifico oggetto dell’impugnazione, pur costituita da distinta argomentazione nei confronti della parte non impugnata, di questa sia un necessario sviluppo logico, in quanto a questa sia logicamente connessa quale conseguenza della sua negazione.
Nel caso in esame, da un canto, è formai mente assente la volontà di limitare l’impugnazione a una parte della sentenza e di escludere la parte residua. D’altro canto, le due affermazioni del primo giudice non sono fondate su presupposti di fatto e di diritto autonomi: non sono logicamente indipendenti. Ed invero, la seconda affermazione (la fondatezza dell’azione ex art. 2932 c.c.) è ipotesi che presuppone la prima affermazione (la proponibilità dell’azione medesima). Ed il giudice di merito fonda espressamente la seconda affermazione sulla prima affermazione, che egli stesso aveva precedentemente formulato. Poiché la seconda affermazione è fondata sul presupposto della prima, il rapporto fra le due affermazioni non è di autonomia, bensì di logica interdipendenza. Pertanto, impugnando la prima affermazione (relativa alla proponibilità dell’azione), l’appellante ovviamente negava (implicitamente impugnando) la seconda affermazione (la fondatezza dell’azione). Per il nesso di interdipendenza logica fra le due argomentazioni, l’appello investiva ogni aspetto della decisione.
In diversi termini, il tribunale è pervenuto all’accoglimento della domanda principale di adempimento dal preliminare (unica pronunzia figurante nel dispositivo) dopo avere respinto l’eccezione di improponibilità della domanda medesima. Tale essendo la portata della sentenza di primo grado, deve escludersi che la impugnazione della statuizione di rigetto della – pregiudiziale e interdipendente – eccezione di improponibilità della domanda abbia comportato un effetto preclusivo rispetto alla statuizione di accoglimento nel merito della domanda. Come bene osserva la curatela, sarebbe del resto davvero aberrante una decisione che ritenesse passata in giudicato la parte di sentenza che ha disposto il trasferimento coattivo del bene oggetto del preliminare nonostante l’impugnazione della stessa sentenza fosse finalizzata a chiedere comunque il rigetto dell’azione ex art. 2932 c.c..
Il terzo motivo e il quarto motivo, con cui il ricorrente si riporta, rispettivamente, a quanto detto in appello a confutazione della eccezione di applicazione al caso in esame dell’art. 1453 cc e a quanto dedotto nelle difese di primo grado a supporto della domanda ex art. 2932 c.c., vengono travolti dal rigetto dei primi due e dalla conseguente ribadita legittimità della statuizione del giudice di appello in punto di esercizio della facoltà di scioglimento dal preliminare.
Dal rigetto del ricorso segue la condanna del suo proponente alle spese del presente giudizio di legittimità.
PQM
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.600,00, di cui Euro 4.500,00, per onorari d’avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.