Cassazione penale, sez. II, 7 novembre 2007, n. 45992
Fatto e Diritto
Con sentenza del 25.10.2005 il Tribunale di Palermo condannava C.C., ritenuto il vincolo della continuazione fra i diversi reati e concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa avendolo ritenuto responsabile dei reati di cui all’art. 380 c.p. (capo A della rubrica) ed all’art. 646 c.p. e art. 61 c.p., n. 11 (capo B della rubrica); ordinava la sospensione condizionale della pena inflitta e condannava il predetto al risarcimento del danno, da liquidarsi dinanzi al giudice civile competente, in favore della parte civile costituita M.A., anche nella qualità di legale rappresentante della Enoservice s.a.s..
Con sentenza del 22.1.2007 la Corte di Appello di Palermo confermava la decisione impugnata.
Avverso tale sentenza l’imputato C.C. propone, per mezzo del difensore, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.
Col primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato.
In particolare rileva la difesa la nullità insanabile della sentenza impugnata per omessa citazione dell’imputato e conseguente violazione del diritto dello stesso alla partecipazione, assistenza e rappresentanza nell’ambito del processo penale. Ed invero in data 25.2.2002 il C. aveva espressamente eletto domicilio presso l’abitazione sita in (OMISSIS); in data 31.10.2002 l’ufficiale giudiziario, recatosi sul luogo, non aveva effettuato la notifica avendo accertato che lo stesso risultava “sloggiato”; a questo punto le notifiche successive erano state effettuate ai sensi dell’art. 161 c.p.p. presso il difensore. Rileva tuttavia la difesa che nel fascicolo del dibattimento, siccome eccepito con l’atto di appello, si rinveniva un certificato dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Palermo dal quale emergeva il luogo di effettiva residenza dell’odierno ricorrente (via (OMISSIS)); e dalla stessa deposizione testimoniale assunta all’udienza del 24.10.2004 era emerso che la P.G. era ben a conoscenza che l’interessato si trovava in altro luogo, a (OMISSIS), dove la suddetta P.G. era riuscito ad individuarlo. Ciò implicava che le notifiche avrebbero dovuto essere effettuate presso il luogo di effettiva dimora dello stesso, e non presso l’avvocato difensore ai sensi del quarto comma dell’art. 161 c.p.p., aggiungendo che siffatta doglianza era stata proposta dinanzi alla Corte di appello la quale non si era espressa sul punto. Inoltre rileva la difesa che anche per gli atti successivi alla notifica del decreto di citazione andava accertata la reale impossibilità di notificare tali atti presso il domicilio dichiarato anzichè procedere automaticamente alla notifica ai sensi del predetto art. 161 c.p.p., comma 4, aggiungendo che tale eccezione era stata sollevata nei motivi di appello ma non era stata presa in esame dai giudici della Corte territoriale.
Il motivo non è fondato.
Osserva in proposito il Collegio che la disposizione dell’art. 161 c.p.p., comma 4, che consente la notifica degli atti mediante consegna al difensore nel caso in cui risulti l’impossibilità della notificazione all’imputato presso il domicilio dichiarato o eletto richiede, quale condizione necessaria e sufficiente, l’accertamento da parte dell’ufficiale addetto alle notifiche dell’avvenuto trasferimento dell’interessato, o comunque l’attestazione che la notifica, per trasferimento o altra causa, sia divenuta impossibile nel luogo indicato. Orbene, nel caso di specie l’annotazione da parte dell’ufficiale giudiziario secondo cui l’interessato risultava “sloggiato, come da informazioni ivi assunte” dall’abitazione dove aveva dichiarato domicilio rende senz’altro legittimo il ricorso alla procedura di cui al quarto comma dell’art. 161 c.p.p., risultando dalla suddetta relata di notifica non già una momentanea assenza, che non comportava impossibilità della notifica, bensì un avvenuto trasferimento dell’interessato che rendeva definitivamente impossibile la notificazione nel luogo indicato.
E pertanto la Corte territoriale, nell’evidenziare tale circostanza, ha ritenuto legittimamente effettuata la notifica ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4.
Per quel che riguarda il rilievo secondo cui dalla documentazione esistente all’interno del fascicolo del dibattimento emergeva che l’imputato aveva la propria effettiva residenza in Palermo alla via (OMISSIS), e dalla stessa dichiarazione dibattimentale del Maresciallo B. della P.G. raccolta all’udienza del 26.10.2004 era emerso che l’imputato era stato individuato a (OMISSIS), osserva innanzi tutto il Collegio che il gravame, sul punto, non consente di conoscere se l’autorità procedente ebbe, sin dal momento in cui effettuò la notifica ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, precisa notizia del luogo (via (OMISSIS)) in cui il destinatario si era trasferito e presso cui andava pertanto disposta la nuova notificazione mentre, per quel che riguarda l’avvenuto trasferimento dell’imputato a (OMISSIS), non è dubbio che i giudici di merito ne vennero a conoscenza solo alla predetta udienza del 24.10.2004.
Ma nel caso di specie va altresì evidenziato, per quel che riguarda l’asserita nullità per tale ragione della notifica e del procedimento per omessa instaurazione del contraddittorio e violazione del diritto della difesa, che la giurisprudenza di questa Corte a SS.UU. è nel senso che, in tema di notificazione della citazione all’imputato, la nullità assoluta ed insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p. ricorre solo nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o, quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva da parte dell’imputato, mentre non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue l’applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p. (SS.UU. 7.1.2005 n. 119).
La notificazione della citazione all’imputato con forme diverse da quelle previste non integra infatti, necessariamente, un’ipotesi di omissione della notificazione, ma da luogo ad una nullità di ordine generale, soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184 c.p.p., comma 1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183 c.p.p. ed alle regole di deducibilità di cui all’art. 182 c.p.p., oltre che ai termini di rilevabilità di cui di cui all’art. 180 c.p.p., semprechè non appaia in astratto o non risulti in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario. Inoltre la parte che deduce la nullità assoluta della notificazione non può limitarsi a denunciare l’inosservanza della norma processuale, ma deve rappresentare di non avere avuto conoscenza dell’atto ed indicare gli elementi che consentano le verifica di quanto affermato.
Orbene, nel caso in esame, non è dedotto e neppure è lecito presumere che il ricorrente non abbia avuto effettiva conoscenza dell’atto. In sostanza non si verte in ipotesi di “omessa” notifica, bensì di (eventuale) irritualità della notifica, essendo essa idonea in concreto a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, considerato il rapporto di fiducia che lega l’imputato al difensore, presso il quale l’atto fu notificato.
Da ciò consegue che la dedotta nullità della notificazione della citazione (ma tale rilievo si estende anche agli atti successivi relativi al predetto giudizio di primo grado, peraltro non meglio specificamente indicati, per i quali si assume che andava accertata la reale impossibilità di effettuare la notifica presso il domicilio eletto), non essendo assoluta, ma generale e di natura intermedia, avrebbe dovuto essere dedotta, ex art. 180 c.p.p., prima della deliberazione della sentenza di primo grado.
E pertanto l’eccezione proposta non può trovare accoglimento.
Col secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione all’art. 380 c.p..
In particolare rileva la difesa che il delitto di patrocinio infedele ha come presupposto la pendenza di un procedimento davanti all’autorità giudiziaria per cui, in mancanza della pendenza di siffatto procedimento, deve ritenersi l’insussistenza del reato in parola in omaggio al principio della tipicità del precetto penale. E nel caso di specie il ricorrente avrebbe assunto nei confronti della Enoservice s.p.a. un impegno professionale avente ad oggetto l’adempimento di una transazione, a seguito dell’intervenuto giudicato sfavorevole al proprio assistito, ossia un impegno di natura extraprocessule che non poteva ritenersi inserito in un procedimento davanti all’autorità giudiziaria.
Il motivo non è fondato.
Ed invero sul punto ha correttamente rilevato la Corte territoriale che nel caso di specie era già pendente un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria, avendo già la Enoservice s.a.s. proposto appello avverso la sentenza che la aveva vista soccombente in primo grado, evidenziando che tale impugnazione non era stata quindi coltivata proprio perchè si era preferito percorrere la via dell’accordo stragiudiziario. Or non è dubbio che l’incarico di tentare il suddetto accordo, che avrebbe portato alla transazione della lite, si inserisce chiaramente nel procedimento in corso, come estrinsecazione del rapporto processuale esistente fra l’odierno ricorrente e la Enoservice s.a.s..
In proposito osserva il Collegio che questa Corte, con la pronuncia n. 41370 del 9.11.2006 (sezione sesta), ha rilevato, per un verso, che la fattispecie criminosa di cui all’art. 380 c.p. configura un reato proprio, nel senso che soggetto attivo deve essere il “patrocinatore”, qualità inscindibile dallo svolgimento di attività processuali, sicchè, ai fini dell’integrazione del reato, non è sufficiente che un avvocato non adempia ai doveri scaturenti dall’accettazione di un qualsiasi incarico di natura legale, essendo necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento nell’ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, poichè l’attività del patrono infedele è assunta, per scelta del legislatore, come lesiva dell’interesse tutelato solo nel momento dell’esercizio effettivo della giurisdizione; ma ha rilevato altresì, per altro verso, che tutto ciò non significa, peraltro, che la condotta infedele del patrocinatore debba concretarsi necessariamente attraverso “atti o comportamenti processuali”, perchè ciò non è richiesto dalla lettera della norma, che si riferisce solo al fatto del patrocinatore che si “rende infedele ai suoi doveri professionali”, e quindi a una condotta libera, eventualmente anche estrinsecantesi al di fuori del processo.
In tal modo confermando quella precedente giurisprudenza che aveva evidenziato come l’esercizio della difesa, rappresentanza ed assistenza davanti all’autorità giudiziaria dovesse essere intesa come estrinsecazione del rapporto di partecipazione professionale e non come esercizio effettivo di attività processuale, per cui ad integrare l’elemento oggettivo del delitto era sufficiente che l’esercente la professione forense si rendesse infedele ai doveri connessi alla accettazione dell’incarico di difendere taluno dinanzi all’autorità giudiziaria, (Cass. sez. 6^, 14.12.2004 n. 856; in senso conforme, Cass. sez. 6^, 19.11.1998, dep. 3.2.1999, n. 1410,).
Alla stregua di quanto sopra il ricorso anche sul punto si appalesa infondato, avendo la Corte territoriale, con motivazione corretta e del tutto coerente alle emergenze probatorie, che pertanto si sottrae alle censure in punto di fatto mosse dal ricorrente, evidenziato la dolosa inosservanza da parte di quest’ultimo dei propri doveri professionali finalizzati alla tutela del cliente, e quindi la configurabilità e la sussistenza del reato contestato.
E tale conclusione si pone assolutamente in linea con la precedente pronuncia di questa Sezione (Cass. sez. 2^, 16.3.2005 dep. 12.4.2005, n. 13489) laddove era stato posto in evidenza che il testo della norma di cui all’art. 380 c.p. escludeva dalla portata della relativa previsione le attività poste in essere dal professionista prima della instaurazione del procedimento e ad esso prodromiche.
Col terzo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione all’art. 646 c.p..
In particolare rileva la difesa che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto pacifico che il ricorrente si fosse impossessato dell’assegno affidatogli dal M. per fini diversi dall’impiego nell’accordo transattivo che avrebbe dovuto bloccare la procedura esecutiva da parte della ditta avversaria, risultando per contro dalle emergenze processuali che nessuna transazione era in corso tra le parti.
Il motivo non è fondato.
In proposito rileva il Collegio che il suddetto motivo di ricorso, sotto il profilo della violazione della legge processuale e del vizio di motivazione, tenta di sottoporre a questa Corte un giudizio di merito, non consentito neppure alla luce della L. n. 46 del 2006.
Va premesso che la modifica normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di Cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. E’ perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione.
Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice.
Alla stregua di quanto sopra il proposto gravame sul punto va ritenuto manifestamente infondato, atteso che il controllo di legittimità operato da questa Corte non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ma è finalizzato a verificare, laddove il ricorrente proponga una diversa ricostruzione di tali fatti, se le argomentazioni poste dal giudice di merito a fondamento della propria decisione siano compatibili con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Ed invero il compito della Corte di Cassazione non è quello di sovrapporre una propria valutazione delle risultanze processuali a quella già compiuta dai giudici di merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano fornito una corretta interpretazione degli elementi di fatto a loro disposizione ed abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinato conclusioni a preferenza di altre. E tale verifica dell’apparato argomentativo deve ritenersi nel caso di specie senz’altro positiva, essendo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito del tutto coerente con le acquisizioni probatorie esistenti in atti, di talchè nessuna censura, e tanto meno nessuna diversa ricostruzione, può essere in questa sede di legittimità prospettata.
Applicando siffatti principi alla fattispecie in esame non può dubitarsi che la Corte territoriale, con motivazione assolutamente logica che si sottrae pertanto alle censure mosse con il proposto gravame, ha rilevato che nella lettera recapitata dalla Enoservice s.a.s. all’imputato in data 28.9.2000 si precisava che il titolo veniva consegnato “per pagamento fattura AZ Meccanografica”, argomento che assume un valore decisivo ed assolutamente tranciante in ordine alla destinazione dell’assegno in questione, in quanto smentisce l’assunto di parte ricorrente secondo cui non vi sarebbe la prova certa che l’assegno fosse destinato alla AZ Meccanografica quale mezzo estintivo della controversia, e rende superflua, perchè non decisiva, la richiesta di rinnovazione probatoria al fine di verificare l’effettivo contenuto della dichiarazione dell’avvocato di controparte, assumendosi da parte del ricorrente un travisamento del fatto risultante dall’erronea lettura del contenuto della deposizione testimoniale del predetto.
Col quarto motivo di gravame il ricorrente lamenta, sotto un diverso profilo, violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 646 c.p..
In particolare osserva la difesa che nel caso di specie mancava del tutto la prova della volontà, in capo all’odierno ricorrente, di appropriarsi della somma indicata nell’assegno in questione; ciò in quanto la parte offesa non aveva validamente chiesto la restituzione di tale somma, atteso che le richieste ed i solleciti erano stati inviati allo studio di Palermo, mentre il C. si era trasferito a (OMISSIS), con la conseguenza che non era mai stato posto in condizioni di conoscere tali richieste.
Anche con tale motivo il ricorrente prospetta degli elementi in punto di fatto che non sono in questa sede valutabili. Ma comunque l’assunto di parte ricorrente circa l’assenza di prova della interversio possessionis si appalesa infondato, ove si osservi che il ricorrente, a fronte della specifica indicazione circa la destinazione dell’assegno al pagamento della fattura della AZ Meccanografica, ebbe in realtà, per come risulta dall’impugnata sentenza, a porre detto assegno all’incasso omettendo di destinare la somma alla finalità prestabilita. E pertanto non può dubitarsi che tale condotta evidenzi in maniera non equivoca la volontà di affermazione del dominio su detta somma, di talchè correttamente i giudici di merito hanno ritenuto integrati gli elementi costitutivi, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, del delitto in questione.
Col quinto motivo di gravame il ricorrente lamenta ulteriormente violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione all’art. 646 c.p..
In particolare osserva la difesa che il M. si era più volte reso inadempiente, sotto il profilo economico, nei confronti del C., il quale vantava notevoli crediti nei confronti del predetto per le prestazioni professionali svolte. Da ciò conseguiva che la condotta del ricorrente, quand’anche posta in essere, non costituiva reato, mancando l’elemento della ingiustizia del profitto dovendosi ritenere che l’agente avesse operato per soddisfare un credito vantato nei confronti del proprietario del danaro.
Il motivo non è fondato.
Ed invero l’esercizio del diritto di ritenzione non vale a scriminare l’agente in ordine al reato di appropriazione indebita. Infatti, quando il credito che si vuole tutelare attraverso l’esercizio dello ius retinendi non è nè liquido nè esigibile, l’appropriazione della cosa altrui integra il reato di cui all’art. 646 c.p. dovendosi ritenere ingiusto il profitto che l’agente intende realizzare in virtù di una pretesa che avrebbe dovuto far valere, in quanto non compiutamente definita nelle specifiche necessarie connotazioni di determinatezza, liquidità ed esigibilità, soltanto con i mezzi leciti e legali postigli a disposizione dall’ordinamento giuridico.
Ne consegue che l’odierno ricorrente, al fine di correttamente eccepire il diritto di ritenzione, avrebbe dovuto fornire la prova dell’esistenza del credito, ma anche della sua esigibilità e del suo preciso ammontare. In assenza di tali elementi va ritenuta l’illegittimità dello ius retinendi e quindi l’infondatezza del presente motivo di gravame.
Col sesto motivo di gravame il ricorrente lamenta ulteriormente violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione all’art. 15 c.p., art. 61 c.p., n. 11 e art. 380 c.p..
In particolare osserva la difesa che la fattispecie di patrocinio infedele si pone in rapporto di specialità con la ritenuta aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, avendo il legislatore inteso sanzionare un caso particolare di abuso di prestazione d’opera; donde la insussistenza di tale aggravante con la conseguente necessità di annullamento della sentenza e rinvio ad altra sezione della Corte di appello per il riesame del trattamento sanzionatorio, in termini più favorevoli per l’imputato stante la insussistenza della suddetta aggravante, e stante la conseguente improcedibilità del reato di appropriazione indebita, perseguibile a querela, laddove questa non era stata proposta tempestivamente.
Il motivo non è fondato.
Risulta invero dalla intestazione della impugnata sentenza che il C. era imputato dal reato di cui all’art. 380 c.p. (capo A della rubrica), e del reato di cui all’art. 646 c.p. e art. 61 c.p., n. 11 (capo B della rubrica). Risulta pertanto per tabulas che l’aggravante in parola è stata contestata con riferimento al solo reato di appropriazione indebita e non già con riferimento anche al reato di patrocinio infedele.
In relazione a quanto sopra, il rilievo sollevato dalla difesa si appalesa pertanto chiaramente infondato per quel che riguarda l’imputazione di cui al capo A, non risultando l’aggravante in questione contestata con riferimento al detto reato; e si appalesa del pari chiaramente infondato per quel che riguarda l’imputazione di cui al capo B, stante la assoluta genericità e carenza di argomentazioni a sostegno di tale motivo con riferimento allo specifico reato di appropriazione indebita.
Col settimo motivo di gravame il ricorrente lamenta ulteriormente violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione all’art. 15 c.p., art. 61 c.p., n. 11 e art. 185 c.p..
In particolare rileva la difesa che la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere sussistente anche la responsabilità dell’imputato ai sensi dell’art. 185 c.p. e nel ritenere configurato il danno invocato dalla parte civile. Ciò in considerazione del fatto che il mancato pagamento delle prestazioni professionali svolte dal C. elideva comunque il danno asseritamene subito dalla parte offesa, e che le somme dovute alla controparte AZ Meccanografica sarebbero state egualmente corrisposte essendo la ditta Enoservice s.a.s. risultata soccombente in entrambi i gradi del giudizio dinanzi al giudice civile.
Il motivo non è fondato. Ed invero sul punto la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che il mancato pagamento delle prestazioni professionali svolte dall’imputato non incide sulla illiceità, e connessa dannosità, di una appropriazione di denaro dipendente da un titolo del tutto diverso; mentre, per quel che riguarda l’ulteriore rilievo concernente l’obbligo di corrispondere tali somme alla controparte essendo la Enoservice s.a.s. risultata soccombente in entrambi i gradi del giudizio civile, osserva il Collegio che tale circostanza non rileva in alcun modo ai fini dell’esistenza del danno atteso che una eventuale transazione avrebbe portato ad una estinzione della controversia attraverso un bilanciamento delle opposte pretese e dei contrapposti interessi.
Col l’ottavo motivo di gravame il ricorrente lamenta ulteriormente violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) ed e), in relazione agli artt. 69 e 62 bis c.p..
In particolare lamenta la difesa che il giudice non aveva in alcun modo motivato sulle ragioni per le quali non aveva ritenuto le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, e parimenti non aveva motivato sui criteri di determinazione della pena e sull’aumento ex art. 81 cpv. c.p..
Anche tale motivo è infondato.
Ed invero, per quel che riguarda il giudizio di comparazione ex art. 69 c.p., la Corte territoriale ha compiutamente e correttamente evidenziato le ragioni, correlate all’importo della somma di cui l’imputato si era appropriato ed al disvalore della condotta posta in essere tradendo la fiducia del cliente, che non consentivano un più favorevole giudizio di comparazione.
Per quel che riguarda i criteri di determinazione della pena e l’aumento della stessa ai sensi del capoverso dell’art. 81 c.p., devesi rilevare una evidente inammissibilità del suddetto motivo di gravame per carenza di interesse atteso che, siccome evidenziato dalla Corte territoriale, la pena irrogata risulta inferiore al minimo edittale previsto per il più grave reato di cui all’art. 380 c.p., di talchè non è ravvisabile alcuna lesione della posizione giuridica dell’odierno ricorrente.
Giova evidenziare che sul punto le Sezioni Unite di questa Corte (Sent. 10372 del 27.9.1995 dep. il 18.10.1995 Rv. 202269) hanno rilevato che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso. Ne consegue che la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto”.
Alla stregua di quanto sopra il ricorso non può trovare accoglimento.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 7 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2007