Cassazione civile, sez. lavoro, 3 marzo 2008, n. 5749
Svolgimento del processo
XY adiva il Tribunale di Roma – giudice del lavoro – deducendo di aver svolto attività di assistente alla poltrona presso la ZZ nel periodo e con l’orario indicato in ricorso. Richiedeva differenze di retribuzione e deduceva di essere stata, licenziata nel periodo di gravidanza. Pertanto chiedeva la condanna della predetta società alla somma specificata (e poi ridotta in corso di causa) nonché la dichiarazione di nullità del recesso con condanna al risarcimento dei danni pari alle retribuzioni medio tempore maturate.
Si costituiva la società convenuta, chiedendo il rigetto della domanda. Il Tribunale con sentenza dell’1.7.2001 dichiarava la nullità del recesso e condannava la D. al pagamento delle retribuzioni dal 25.3.1999 al 12.1.2001, nonché al pagamento della somma di L. 1.951.314.
Avverso tale decisione proponeva appello la ZZ, chiedendo il rigetto della domanda proposta dalla XY.
Quest’ultima si costituiva, chiedendo la conferma dell’impugnata pronuncia. Con sentenza del 3 luglio 2003-2 settembre 2004, l’adita Corte d’appello di Roma, pur prendendo atto che il recesso era stato intimato in un momento in cui l’appellata, in virtù di presunzione legale, doveva ritenersi in stato di gravidanza, riteneva infondata la domanda risarcitoria proposta dalla XY, non avendo la stessa mai fatto pervenire alla datrice di lavoro alcuna certificazione del suo stato, né prima, né dopo il parto, come previsto dall’art. 4 DPR 1026/76. Pertanto, rigettava la domanda risarcitoria, confermando nel resto la sentenza impugnata. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la XY con un unico motivo, cui resiste la società con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con l’unico mezzo d’impugnazione la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 1226 c.c., nonché violazione degli art. 2 Legge n. 1026/1976 ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c, dopo avere rimarcato che la nullità del recesso comunicatole in data 25.3.1999, ossia in un periodo nel quale la stessa doveva ritenersi in stato di gravidanza, in virtù della presunzione legale stabilita dall’4 del DPR 1026/1976, era stata accertata da entrambi i Giudici di merito, deduce che, in errata applicazione del 3° comma del suddetto articolo, la Corte d’appello le aveva negato il diritto al risarcimento del danno, ritenendo che la stessa non avesse mai fatto pervenire il certificato di gravidanza al proprio datore di lavoro sia prima che dopo il parto. Al contrario, ella aveva fatto pervenire al proprio datore di lavoro il certificato di gravidanza nel momento in cui provvedeva a notificargli il ricorso introduttivo del giudizio, avendo depositato presso il Tribunale il proprio fascicolo di parte, all’interno del quale vi era l’originale del certificato predetto.
Pertanto, non prevedendo la legge (DPR 1026/1976) alcun tipo di particolare formalità diretta a regolamentare la “presentazione” della certificazione medica in questione, il deposito del ricorso con i documenti offerti in comunicazione e la seguente notifica dell’atto ben poteva integrare gli estremi della consegna materiale del certificato medico. Di conseguenza, in applicazione del 3° comma dell’art.4 del DPR 1026/1976 avrebbe avuto diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla stessa dal dì della notifica del ricorso (24.3.2000), produttivo di tutti gli effetti sostanziali della “presentazione” del certificato di gravidanza, sino al compimento dell’anno di età del bambino (12.1.2001). Il motivo è fondato.
Invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto di licenziamento di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, il licenziamento intimato nonostante il divieto – che è affetto da nullità a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991 – comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto e ancorché il datore di lavoro sia inconsapevole dello stato della lavoratrice, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione della certificazione attestante lo stato di gravidanza, ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 1026 del 1976 (Cass. 20 maggio 2000 n. 6595).
Alla luce di tale indirizzo, cui va prestata adesione, erroneamente il Tribunale ha escluso del tutto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni dovute a titolo di risarcimento del danno, richiamandosi alla disciplina codicistica che lo condizionerebbe all’elemento soggettivo del datore di lavoro, perché così facendo ha sostanzialmente disapplicato la norma speciale, ossia l’art. 2 della legge 1204 del 1971, il quale pone il divieto di licenziamento in connessione “con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio”, di talché il licenziamento è “contra legem” anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro. Né si può sostenere, come affermato dal Tribunale, che la illegittimità del licenziamento operi solo ai fini del diritto al ripristino del rapporto (da richiedere nel termine di novanta giorni, che nella specie non era stato osservato), in quanto non è possibile, scindendo gli effetti che la norma ha previsto unitariamente, affermare che il licenziamento sia per un aspetto “contra legem” e per altro aspetto non lo sia. Vi è peraltro una ulteriore norma speciale, l’art. 4 del D.P.R. 25 novembre 1976 n. 1026, ossia il regolamento per l’applicazione della legge 1204/71 (emanato secondo la previsione dell’art. 32 della stessa) la quale, contemperando le contrapposte esigenze delle parti, dispone al secondo comma che “La mancata prestazione di lavoro durante il periodo di tempo intercorrente tra la data di cessazione effettiva del rapporto e la presentazione della certificazione non dà luogo a retribuzione”.
Pertanto, ancorché il rapporto di lavoro sia “de iure” sempre pendente, e quindi il periodo sia utile ai fini dell’anzianità di servizio (cfr. l’ultima parte del citato art. 4, comma secondo), le retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto maturano solo dal momento della presentazione del certificato medico di gravidanza (Cass. 20 maggio 2000 n. 6595 cit.).
Proprio in applicazione di tali norme la Corte d’appello di Roma avrebbe dovuto riconoscere alla XY il diritto al risarcimento del danno, se non nella misura indicata dal Giudice di primo grado, in quella inferiore rapportata alle retribuzioni spettanti dal giorno della notifica del ricorso ex art. 414 c.p.c. avvenuta in data 20.3.2000 e sino al compimento di un anno di età del bambino (12.1.2001). Nel caso in esame, avendo la XY dichiarato di limitare le sue pretese con riferimento a tale periodo, la domanda va accolta nei detti termini. Pertanto, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata e, potendo la controversia decidersi nel merito ai sensi dell’art. 384, primo comma, cp.c, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la resistente ZZ va condannata al pagamento, in favore della ricorrente XY, di una somma pari all’ammontare delle retribuzioni maturate dal 24 marzo 2000 al 12 gennaio 2001 oltre accessori. Va confermata nel resto la sentenza d’appello. In considerazione dell’esito della vertenza, vanno compensate per metà le spese dei giudizi di merito nella misura determinata dalla Corte d’appello di Roma, restando ferma la distrazione delle stesse come disposta da detta Corte, mentre quelle del presente giudizio di legittimità, seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna la resistente ZZ al pagamento, in favore della ricorrente XY, di una somma pari all’ammontare delle retribuzioni maturate dal 24 marzo 2000 al 12 gennaio 2001 oltre accessori. Conferma nel resto la sentenza d’appello. Compensa per metà le spese dei giudizi di merito nella misura determinata dalla Corte d’appello di Roma, restando ferma la distrazione delle stesse come disposta da detta Corte. Condanna la nominata società ZZ alle spese del presente giudizio di Cassazione, liquidate in € 12,00 , oltre € 2.000,00 spese generali, IVA e CPA.