Cassazione – Sezione prima penale – sentenza 31 gennaio – 12 febbraio 2008, n. 6605
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 19 febbraio 2007, resa all’esito di giudizio abbreviato instaurato nell’ambito di giudizio direttissimo, il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, assolveva, perché il fatto non costituisce reato, F. S. dal reato di cui all’art 14, comma 5 ter, d. lgs. n. 286 del 1998, ritenendo insussistente l’elemento soggettivo del reato, atteso che l’imputato, rimasto inosservante all’ordine di allontanamento emesso dal Questore di Rimini il 19 agosto 2006, era in attesa dei documenti necessari per il matrimonio, poi effettivamente avvenuto il 5 febbraio 2007.
Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Brescia, il quale lamenta violazione ed erronea applicazione della legge penale, in quanto l’esimente speciale opera soltanto in presenza di una condizione di concreta inesigibilità, non ravvisabile nel caso di specie, considerato anche il consistente lasso di tempo intercorso tra la notifica dell’ordine di allontanamento (19 agosto 2006) e la celebrazione del matrimonio, avvenuta il 5 febbraio 2007.
Osserva in diritto
Il ricorso è fondato.
1. Occorre premettere che la formula senza giustificato motivo e formule ad essa equivalenti od omologhe (senza giusta causa, senza giusto motivo, senza necessità, arbitrariamente, ecc.) compaiono con particolare frequenza nel corpo di norme incriminatici contenute sia nei codici (cfr. artt. 616, 618, 619, 620, 621, 622, 633, 652, 727, 731 cod. pen.; artt. 111, 113, 117, 123, 124, 125, 147, 148, 151, 243 cod. pen. mil. pace; artt. 63, 94, 96, 100, 101, 126, 145, 146, 151, 168, 170, 184, 185, 218, 221, 222 cod. pen. mil. guerra) che in leggi speciali (cfr., ex plurimis, art. 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110; art. 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152; art. 180 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; art. 56 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274; nonché art. 6, comma 3, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998). Esse sono descrittive di reati di natura non soltanto commissiva, ma anche omissiva, come quello in esame (cfr., ad esempio, artt. 652 e 731 cod. pen.; artt. 113, 117, 123, 125, 147, 148, 151, 243 cod. pen. mil. pace; art. 108 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361; art. 89 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570; art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 286 del 1998. Secondo l’autorevole insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza 13 gennaio 2004 n. 5), le predette clausole sono destinate, in linea di massima, a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione – l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi configgenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori. Nelle intenzioni del legislatore il carattere “elastico” della clausola si connette alla impossibilità pratica di elencare in modo analitico tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto, attesa la varietà delle contingenze di vita e la complessità delle interferenze dei sistemi normativi, con conseguente rischio di lacune dannose per il reo, posto che la clausola in parola assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo legale.
La valenza della clausola senza giustificato motivo si riempie di significato alla luce della finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta. Sotto il primo profilo, la norma incriminatrice, mirando a rendere effettivo il provvedimento di espulsione, persegue l’obiettivo di rimuovere situazioni di illiceità o di pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato, nella cornice del più generale potere – che al legislatore indubbiamente compete – di regolare la materia dell’immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 105 del 2001 e n. 5 del 2004): avendo detto provvedimento come presupposto, a mente dell’art. 13, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, nel caso di espulsione disposta dal Ministro dell’interno; ovvero, la condizione di clandestinità (ingresso nel territorio dello Stato con elusione dei controlli di frontiera), irregolarità (carenza di valido permesso di soggiorno), oppure la pericolosità sociale dello straniero (appartenenza a talune delle categorie indicate nell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o nell’art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575), nel caso di espulsione disposta dal Prefetto. A queste situazioni l’ordinamento reagisce con l’accompagnamento immediato dello straniero alla frontiera a mezzo della forza pubblica o, in subordine, con il suo trattenimento in un “centro di permanenza temporanea”; salvo ricorrere in via di eccezione al meccanismo dell’intimazione penalmente sanzionata, quando sussistano speciali ragioni impeditive, legalmente tipizzate.
Sotto il secondo profilo, l’istituto dell’espulsione si colloca in un quadro sistematico che, pur nella tendenziale indivisibilità dei diritti fondamentali, vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. “migranti economici”. Ne consegue che, mentre il pericolo di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali preclude l’espulsione o il respingimento dello straniero (art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998), analoga efficacia “paralizzante” è negata, in linea di principio, alle esigenze che caratterizzano la seconda categoria.
In tale contesto, la clausola negativa di esigibilità, se pure non può essere ritenuta evocativa delle sole cause di giustificazione in senso tecnico, ha tuttavia riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa. Secondo l’autorevole insegnamento della Consulta, quindi, il coordinamento della norma incriminatrice con le altre disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 (si pensi, per tutti, all’art. 19, in tema di divieti di espulsione e respingimento) e con gli ulteriori testi normativi riguardanti lo straniero offre puntuali agganci per attribuire preciso contenuto alla clausola considerata.
Le condizioni ostative all’esigibilità della condotta richiesta, peraltro, devono essere oggetto di puntuale e specifico accertamento nel caso concreto e non possono essere oggetto né di congetture né di presunzioni fondate sull’id quod plerqume accidit.
2. Alla luce dei principi sin qui illustrati, il provvedimento impugnato appare affetto dalla denunziata violazione di legge, avendo il Tribunale in composizione monocratica fondato la pronunzia assolutoria su un giudizio presuntivo e probabilistico, tenuto anche del significativo lasso di tempo intercorso tra la data dell’ordine di allontanamento e quella del matrimonio. Per tutte queste ragioni, quindi, s’impone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte d’appello di Brescia per il giudizio di secondo grado.
PQM
La Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio di secondo grado alla Corte d’appello di Brescia.