Corte di Cassazione – Sentenza n. 7871/2008 Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 26 marzo 2008, n. 7871
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Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’appello di Torino la D. Thermal Systems Spa proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Torino, con la quale era stata condannata al pagamento in favore di U. Angelo della somma di Euro 8.400,00 a titolo di risarcimento del danno per la dequalificazione dallo stesso subita per essere stato declassato con decorrenza dal 12/11/2001 da manutentore elettrico, con autonomia e discrezionalità esecutiva, a collaudatore; eccepiva l’omessa pronuncia sulla eccezione di improcedibilità della domanda risarcitoria ex art. 410 Cfc, per mancato espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, e l’infondatezza nel merito, perché l’assegnazione alle diverse mansioni era determinata da necessità aziendali, per calo di produzione, al fine di evitare “adempimenti di natura più grave”.
L’appellato contrastava il gravame e la Corte d’appello lo rigettava sulla base delle seguenti considerazioni: la parte aveva effettivamente sollevato l’eccezione di improcedibilità della domanda perché il tentativo di conciliazione obbligatorio era stato proposto dall’U. solo per il demansionamento e non per l’azione risarcitoria ed il giudice si era riservato di provvedere unitamente al merito, senza però pronunciare in proposito. Il motivo d’impugnazione era però infondato, in quanto, a parte la dubbia rilevabilità in appello dell’improcedibilità della domanda di risarcimento (Cass. n. 10089/00), la stessa non era totalmente autonoma rispetto a quella relativa al mutamento di mansioni, essendo questa il necessario presupposto della prima, “considerando anche che, del tutto verosimilmente, in sede di tentativo di conciliazione venne dall’U. avanzata oralmente una qualche richiesta risarcitoria”; non si poteva quindi parlare di improcedibilità della domanda di risarcimento del danno. Il primo motivo quindi doveva essere disatteso.
Nel merito, l’art. 2103 c.c. nel disciplinare lo “jus variandi” del datore di lavoro vietava l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione, come era avvenuto nella specie, e sanzionava con la nullità i patti contrari; illegittima quindi era l’attribuzione al dipendente di mansioni inferiori (Cass. 3722/04; 9734/98); l’eventuale mutamento in peius (per intervenuta inidoneità fisica del lavoratore, o per altra ragione, art. 4, 11° comma L. 223/91) poteva essere effettuato col consenso del lavoratore (Cass. 10574/01; 11806/00) che nella specie non era stato prestato.
Le esigenze aziendali addotte per giustificare la legittimità del provvedimento non avevano trovato adeguato riscontro istruttorio: il posto di manutentore già occupato dall’U. non era venuto meno e dopo qualche giorno era stato occupato dal V. , proveniente da altra società (teste P., Z., A. e F.); l’assunto che dovendo ridurre il numero del manutentori era stato scelto l’U. che aveva reso prestazioni poco brillanti era contrastato sia dal fatto che il V. era ben poco “brillante” tanto che era stato mandato in giro a fare esperienza (teste Z.), sia dalla documentazione in atti, che in contrasto con “i genericissimi riferimenti di alcuni testi a prestazioni meno brillanti (F. e F.), dimostrava che l’U. era stato più volte premiato per avere effettuato ben 23 “proposte individuali di miglioramento” e “per lo spirito di collaborazione dimostrato” ed aveva avuto un altro premio in data “20/11/2001 e cioè quando il mutamento delle mansioni dell’U. era stato già disposto”, sicché l’asserita scadente prestazione che lo stesso avrebbe reso negli ultimi tempi era stata seccamente smentita. Anche il secondo motivo doveva quindi essere disatteso.
Il risarcimento del danno poteva essere riconosciuto anche in difetto di una specifica prova, sia perché il danno poteva presumersi in base alla natura, entità e durata del demansionamento, sia perché la violazione dell’art 2103 c.c. comportava la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro ed un pregiudizio alla vita professionale e di relazione (Cass. 12553/03; 15868/02). Le mansioni, di 3° livello, notevolmente inferiori alle precedenti di 5° livello, si erano protratte per oltre un anno ed avevano comportato un danno sia per la perdita, almeno parziale, delle acquisite conoscenze professionali, sia per la vita di relazione nell’ambito lavorativo. Anche il terzo motivo era quindi infondato.
L’ultima censura sulla mancata indicazione dei criteri della liquidazione equitativa era infondata perché il giudice di primo grado aveva espressamente considerato sia il periodo di demansionamento che la retribuzione percepita; risultavano quindi sufficientemente esplicitati i criteri di liquidazione ed anche questo motivo doveva essere disatteso e l’appello rigettato.
Motivi della decisione
È domandata ora la cassazione di detta pronuncia con quattro motivi: col primo si lamenta nullità del procedimento e della sentenza e violazione degli art. 410 e 412 bis Cpc e vizio di motivazione in relazione alla denuncia di omessa pronuncia sull’eccezione di improcedibilità del ricorso in violazione dell’art 112 Cpc La domanda risarcitoria non era stata preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione e quindi doveva essere dichiarata improcedibile; la Corte d’appello riconosce che il primo giudice “nessuna pronuncia ha reso sulla eccezione sollevata dalla Dts spa” e che il tentativo di conciliazione ebbe ad oggetto soltanto “l’impugnazione cambio mansione in quanto inferiore al 5° liv. prof. riconosciuto”, ma poi contraddittoriamente non ne trae le debite conseguenze: non censura infetti l’evidente violazione dell’art. 112 Cpc, ritenendo invece infondato il ricorso sul punto, con la doppia motivazione che la domanda non sarebbe “totalmente autonoma” rispetto a quella per il cambio mansione, necessario presupposto di quella risarcitoria, e che “del tutto verosimilmente” il ricorrente avrebbe avanzato in sede di conciliazione “una qualche richiesta risarcitoria”.
Innanzi tutto è fuor di luogo l’affermazione della sentenza sulla “dubbia rilevabilità in appello dell’improcedibilità della domanda” (Cass. n. 10089/00) perché l’eccezione è stata proposta in primo grado ed il giudice ha rilevato il possibile motivo d’improcedibilità, riservandosi di decidere unitamente al merito, senza poi pronunciare sul punto, con la conseguenza che l’omessa pronuncia può essere censurata in appello. In secondo luogo, la decisione è errata, perché la domanda di risarcimento del danno è diversa da quella relativa all’impugnazione del cambio mansione e deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione, e perché si fonda su un fatto non provato e meramente ipotetico, come la richiesta verbale che “verosimilmente” sarebbe stata introdotta in sede di conciliazione.
Col secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 2103 c.c. e vizio di motivazione, per avere il giudice rigettato il secondo motivo d’appello sulla legittimità del cambio mansioni per necessità aziendali. Le eccezioni della società sono state disattese sulla considerazione ritenuta “assorbente” che l’attribuzione di mansioni inferiori sarebbe in ogni caso illegittima e sul difetto di prova delle esigenze aziendali che secondo l’assunto avrebbero giustificato il mutamento delle mansioni: la prima affermazione è apodittica ed errata perché il cambio è stato ritenuto legittimo come “soluzione alternativa al licenziamento o alla cassa integrazione guadagni” (Cass. 9386/93; 6441/88) oppure “in caso di impossibilità sopravvenuta allo svolgimento delle mansioni di assunzione” (Cass. 6515/88 10333797).; la seconda è errata, perché lo jus variandi del datore di lavoro è giustificato quando sussistano insopprimibili esigenze organizzative ed aziendali (Cass. 3623/95; 3340/96) e non è escluso dall’art. 2103 c.c., come novellato dall’art. 13 S.l.. Le deposizioni dei tesi A. , F. e F. confermano la sussistenza dei validi motivi aziendali per il cambio mansione; il giudice d’appello ha omesso di prendere in considerazione le suddette deposizioni. Una attenta valutazione delle risultanze istruttorie porta a ritenere che legittimamente è stato esercitato lo jus variandi del datore di lavoro anche nell’interesse dello stesso lavoratore, che non ha subito decisioni più drastiche e nemmeno danni in quanto non vi è stato un aggravamento della posizione lavorativa o un pregiudizio di carriera ed ha avuto il vantaggio di conservare il posto di lavoro.
Col terzo motivo si lamenta violazione degli art. 2103, 2697 e 1223 c.c. e vizio di motivazione per avere il giudice accolto la richiesta risarcitoria senza che sia stata data la prova del danno. La richiesta è stata avanzata in modo generico e nessuna prova, o elemento indiziario è stato offerto sia in relazione all’an che al quantum debeatur, in contrasto con le norme suddette e la giurisprudenza di legittimità (Cass. 10361/94; 8904/03; 6992/02; 7905/98).
Col quarto motivo si lamenta violazione dell’art. 1226 c.c. e vizio di motivazione, per avere il giudice liquidato in via equitativa il danno senza indicare i criteri valutativi e di calcolo che avrebbe utilizzato (Cass. 6071/95; 14166/99). Resiste l’intimato con controricorso.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo è inammissibile per carenza di interesse, perché anche se fosse fondato non potrebbe portare alla cassazione della sentenza impugnata per tale motivo; non si tratta infatti di inammissibilità della domanda per la quale è possibile la definizione del giudizio anche con una pronuncia di rigetto in rito, anche in grado di appello, ma di improcedibilità, in senso lato relativa, che non preclude la concessione di provvedimenti speciali d’urgenza e di quelli cautelari e che ha come unica conseguenza la sospensione del processo e la concessione di un termine perentorio ai fini dell’espletamento del tentativo di conciliazione; sospensione che può e deve essere disposta nel giudizio di primo grado ma non si giustifica in appello, neanche sotto il profilo della omessa pronuncia, come nella specie viene denunciato, essendo totalmente irragionevole l’espletamento di un tentativo di conciliazione obbligatoria volto ad evitare l’intervento giurisdizionale dopo che il giudice si è già pronunciato. In senso conforme Cass. n. 17956/04 secondo cui l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione e’ previsto dall’art. 412 bis cod. proc. civ. quale condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro; la relativa mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 cod. proc. civ., e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, purché non oltre l’udienza di cui all’art. 420 Cpc, con la conseguenza che ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio.
In ordine al secondo motivo basta rilevare che il giudice d’appello ha ampiamente spiegato le ragioni per le quali era illegittimo il demansionamento, precisando che le esigenze aziendali addotte per spiegarne il motivo non erano state provate, in quanto il posto già occupato dal lavoratore non era venuto meno ed era stato assegnato ad un lavoratore meno esperto e non sussistevano le ragioni di tale sostituzione, individuate nei risultati meno “brillanti”, che secondo l’assunto sarebbero ottenuti dall’U. negli ultimi tempi, non solo per i premi a lui riconosciuti per le “proposte individuali di miglioramento” e per lo “spirito di collaborazione dimostrato” in precedenza, ma anche per il premio concessogli dopo che il trasferimento era stato disposto. Il giudice d’appello indicando le fonti del suo convincimento ha dimostrato d’avere preso in esame tutte le deposizioni da cui, secondo il ricorrente, emergerebbero i motivi dell’assegnazione a mansioni inferiori e quindi il motivo si risolve in una diversa lettura degli atti, investendo direttamente la valutazione del giudice di merito e non la logicità e congruenza della motivazione. Anche il secondo motivo va disatteso.
Il terzo e quarto motivo vanno trattati congiuntamente perché aspetti della medesima censura. In proposito si osserva che la Corte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui il risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione.”va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 Cpc, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (Cass. S.u. n. 6572/06).
Il giudice di merito, pur dichiarando erroneamente che “in caso di demansionamento può farsi luogo al risarcimento del danno anche in mancanza di uno specifico elemento di prova” ha poi di fatto riconosciuto il diritto del lavoratore sulla base di una prova presuntiva dettagliatamente indicata con motivazione logica e coerente, sia in relazione all’an debeatur che al quantum, determinato con una valutazione equitativa esente da censure e congruamente motivata. Anche questi motivi vanno disattesi ed il ricorso rigettato. Le spese vanno poste a carico del ricorrente e liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese che liquida in Euro 21,00 oltre ad Euro 3000,00 per onorario, nonché alle spese generali Iva de Cpa.