Cassazione penale, sez. unite, 26 febbraio 2008, n. 8413
La Corte osserva:
I) La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza 20 aprile 2006, ha respinto l’appello proposto da C. A.contro la sentenza 4 dicembre 2003 che l’aveva condannata alla pena di mesi tre di reclusione ed euro 150,00 di multa per il delitto di cui all’art. 570 commi 1° e 2° cod. pen. per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli E. M., E. A. e E. F. S. (questi ultimi due minori di età) omettendo di corrispondere al marito separato E. A. quanto stabilito dal giudice in sede di separazione (lire 250.000 complessive).
La Corte di merito – dopo aver precisato che l’imputazione doveva ritenersi riferita soltanto al secondo comma n. 2 dell’art. 570 cod. pen. – ha confermato la valutazione del primo giudice sottolineando che era stato accertato che l’imputata disponeva, almeno in parte, delle risorse necessarie per adempiere all’obbligo nei confronti dei figli che erano stati affidati al padre e che era irrilevante che all’obbligo di mantenimento avesse adempiuto un terzo (il marito separato).
Infine la Corte ha ritenuto adeguata la pena inflitta dal primo giudice.
II) C. A.ha proposto ricorso contro la sentenza del giudice di appello e ha dedotto i seguenti motivi d’impugnazione:
– l’inosservanza degli artt. 516, 521 comma 2° e 522 c.p.p., nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione; la ricorrente sottolinea di essere stata rinviata a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 570 commi 1° e 2° cod. pen. mentre poi è stata condannata soltanto per l’ipotesi prevista dal secondo comma della norma indicata; ciò avrebbe generato indeterminatezza dell’accusa, il pubblico ministero non vi avrebbe ovviato con la modificazione dell’imputazione e il giudice avrebbe omesso di adottare le necessarie iniziative trattandosi di fatto diverso da quello contestato;
– l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 570 cod. pen. nonché la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione: la Corte di merito avrebbe infatti correttamente premesso che il mancato versamento dell’assegno fissato dal giudice civile non comporta necessariamente la violazione della norma indicata – dovendosi verificare se l’avente diritto sia rimasto privo dei mezzi di sussistenza – ma non avrebbe tratto le necessarie conseguenze da questa premessa sia non tenendo conto della circostanza che i figli non si trovavano affatto in stato di bisogno (erano infatti alloggiati in accademie militari che sostenevano le spese di vitto e alloggio e corrispondevano loro una paga giornaliera); inoltre la sentenza impugnata non avrebbe preso in considerazione l’oggettiva impossibilità, da parte della ricorrente, di corrispondere l’assegno in questione dovendo far fronte, con il suo stipendio, al mutuo contratto per l’acquisto della casa e ai frequenti viaggi a Trieste per visitare i figli; la ricorrente evidenzia inoltre, producendo la relativa dichiarazione, che il marito ha revocato la costituzione di parte civile;
– l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 81 e 570 cod. pen.; erroneamente, secondo la ricorrente, i giudici di merito avrebbero ritenuto l’esistenza del concorso formale per l’esistenza di più aventi diritto ai mezzi di sussistenza dovendosi ritenere, al contrario, l’unicità del reato;
– il vizio di motivazione con riferimento ai criteri di valutazione della testimonianza della persona offesa per non avere, la sentenza impugnata, indicato alcun elemento a sostegno della veridicità delle dichiarazioni della persona offesa;
– il medesimo vizio con riferimento al trattamento sanzionatorio per non avere, i giudici di merito, tenuto conto della non particolare gravità del fatto applicando la pena nel minimo di legge.
III) La ricorrente depositava motivi nuovi con i quali si ribadivano, in particolare, la censura che si riferisce alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza; quella che si riferisce alla violazione dell’art. 570 cod. pen. non avendo, i giudici di merito, accertato né lo stato di bisogno degli aventi diritto né la possibilità per la ricorrente di far fronte all’obbligo su di lei gravante; l’inapplicabilità dell’istituto del concorso formale nel caso di più aventi diritto ai mezzi di sussistenza e la censura attinente alla valutazione della persona offesa.
Con ordinanza 3 ottobre 2007 la sesta sezione di questa Corte trasmetteva gli atti a queste sezioni unite avendo rilevato un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla possibilità di ipotizzare il concorso formale nel caso di violazione dell’art. 570 cod. pen. in presenza di più aventi diritto alla corresponsione dei mezzi di sussistenza.
IV) Osservano le sezioni unite che la più parte dei motivi proposti con il ricorso e con i motivi aggiunti è inammissibile.
Manifestamente infondato è innanzitutto il primo motivo che si riferisce alla violazione del principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza di condanna difettando proprio il presupposto per potersi affermare l’esistenza di questo scostamento.
La ricorrente la ricava dalla circostanza che, nell’imputazione originaria, è stato indicato anche il primo comma dell’art. 570 cod. pen. mentre la condanna è avvenuta per l’ipotesi prevista dal comma 2° n. 2 della medesima norma ma è sufficiente rilevare, in contrario, che nel capo d’imputazione è indicato anche il secondo comma della norma e che la condotta descritta nel capo d’imputazione corrisponde esattamente a quella per cui è intervenuta condanna per rendersi conto della palese pretestuosità della censura. E’ infatti ovvio che non è violato il ricordato principio di corrispondenza qualora solo una parte dei fatti contestati venga ritenuta esistente; tanto più se – come nel caso in esame – il dappiù sia costituito dalla sola enunciazione normativa senza che vi corrisponda la descrizione di una condotta.
V) Inammissibili sono anche i motivi secondo (per una parte) e quarto del proposto ricorso.
Quanto al secondo motivo deve rilevarsene la manifesta infondatezza per quanto riguarda l’asserita erronea applicazione dell’art. 570 cod.pen. Non corrisponde infatti al vero che i giudici di merito abbiano preso ad esclusivo riferimento – per ritenere realizzato il fatto tipico di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli – l’importo dell’assegno fissato in sede di separazione dal giudice civile. Al contrario i primi giudici, con analitica motivazione condivisa dalla Corte d’Appello, hanno preso in considerazione il reddito di cui l’imputata godeva per sottolineare come, indipendentemente dall’importo dell’assegno, alcun contributo, nell’ambito delle disponibilità economiche dell’imputata, fosse stato dato dalla medesima per il mantenimento dei figli.
Inammissibile – perché manifestamente infondato e concernente una censura che si risolve in una richiesta di rivalutazione dei fatti accertati nei precedenti gradi di giudizio – è parimenti il secondo motivo per quanto riguarda l’esistenza dello stato di bisogno degli aventi diritto avendo, i giudici di merito, incensurabilmente accertato l’esistenza di tale stato rilevando come tutti i costi del mantenimento dei figli, le rette per la frequentazione delle scuole e degli istituti militari e tutte le altre necessità fossero state sostenute dal padre correttamente sottolineando come l’adempimento da parte di un terzo non elida la rilevanza penale della condotta accertata (v. Cass., sez. VI, 9 gennaio 2004 n. 17692, Bencivenga, rv. 228491; 21 marzo 1996 n. 5525, Pulga, rv. 204875).
Manifestamente infondato è infine il quarto motivo, per quanto attiene alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa risolvendosi, anche questa censura, nella richiesta di rivalutazione dell’accertamento logicamente condotto dai giudici di merito. Va peraltro sottolineato che il motivo si caratterizza anche per la mancanza di decisività essendo incontroversa la mancata corresponsione di alcuna somma da parte della ricorrente fino al luglio 2002 ed avendo il primo giudice (la cui sentenza è richiamata da quella d’appello) fondato essenzialmente la sua decisione sulle allegazioni difensive della ricorrente e sulle dichiarazioni testimoniali diverse da quelle del marito.
VI) Infondata è invece la parte del secondo motivo che si riferisce all’accertamento della possibilità di adempiere i propri obblighi da parte dell’imputata.
Su questo punto la motivazione contenuta nella sentenza impugnata è effettivamente da ritenere insufficiente perché si limita ad affermare che la possibilità di adempiere, almeno parzialmente, agli obblighi di assistenza emerge dalla circostanza che, da un certo momento (luglio 2002) in avanti, C. A.iniziò ad inviare piccole somme per il mantenimento dei figli, sia pure inferiori all’assegno di separazione.
Non v’è, nella sentenza impugnata, una disamina precisa sul dedotto stato di bisogno in cui si sarebbe trovata la ricorrente prima dell’epoca indicata ma la motivazione può ritenersi integrata da quella della sentenza di primo grado – espressamente richiamata da quella d’appello sia pure in termini generali – che ha effettuato un calcolo analitico delle disponibilità dell’imputata nel periodo in questione pervenendo alla conclusione della possibilità per la medesima di adempiere, sia pure parzialmente, ai suoi obblighi di solidarietà familiare.
E poiché l’insufficienza della motivazione non può costituire motivo di annullamento della sentenza impugnata e la motivazione della sentenza di appello può ritenersi integrata da quella di primo grado che, nella sostanza, aveva fornito una risposta alle censure contenute nell’appello il motivo di ricorso deve essere respinto perché infondato.
VII) Passando all’esame del terzo motivo di ricorso, ribadito nel terzo motivo nuovo, va premesso che occorre preliminarmente esaminarne l’ammissibilità ai sensi dell’art. 606 comma 3° del codice di rito perché la violazione di legge dedotta con questa censura non era stata proposta con i motivi di appello.
Ritiene la Corte che la questione proposta con il motivo in esame, non essendo il ricorso da dichiarare inammissibile per tutti i motivi, sia rilevabile d’ufficio e che possa dunque essere esaminata (v. in questo senso, tra le altre, Cass., sez. V, 9 luglio 2004 n. 36293, Raimo, rv. 230636).
Ma la doglianza deve ritenersi ammissibile anche sotto un diverso profilo; una censura rivolta all’affermazione dell’unicità del reato, piuttosto che del concorso formale o della continuazione, comporta l’affermazione che l’imputato deve essere ritenuto responsabile per un solo reato e non per più reati. Può dunque legittimamente affermarsi che la richiesta è rivolta all’applicazione dell’art. 129 comma 1° del c.p.p. perché vi si contesta la sussistenza, verificabile d’ufficio, dei reati ulteriori di cui è stata affermata l’esistenza, e senza che questa verifica comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con i limiti del giudizio di legittimità.
Ne consegue che, sotto il duplice profilo indicato, è consentito l’esame del motivo proposto per la prima volta con il ricorso in cassazione.
VIII) Il motivo è peraltro da ritenere infondato.
Il contrasto creatosi all’interno della sesta sezione di questa Corte trova la sua origine in una diversa visione del bene tutelato dalla norma incriminatrice; fermo restando che i due orientamenti non disconoscono l’ordine familiare come bene protetto dalla norma, essi si differenziano però quanto alla tutela dei singoli aventi diritto che, per l’orientamento maggioritario, costituirebbe soltanto una conseguenza naturale e riflessa della tutela primaria.
Secondo Cass., sez. VI, 14 gennaio 2004 n. 1251, Cipriani, rv. 228226 – che costituisce il più recente ed argomentato precedente che si rifà a questa linea di tendenza – “la norma penale indica come oggetto di repressione una condotta indifferenziata rispetto al numero ed alla qualità dei soggetti lesi, sicchè in sostanza il legislatore, non considerando singolarmente le posizioni degli individui, difende il complesso di obblighi che fa capo alla famiglia come entità distinta dai suoi componenti”.
Il diverso orientamento, minoritario, ritiene invece che i singoli aventi diritto sarebbero soggetti direttamente tutelati dalla norma e fonda questo convincimento sulle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato, nella seconda metà del secolo scorso, l’istituzione familiare “con uno spostamento di attenzione del legislatore dal gruppo in sé ai suoi componenti all’interno della formazione sociale famiglia che questi contribuisce a formare, con una valorizzazione dei singoli rapporti che in essa traggono origine e si sviluppano” (così Cass., sez. VI, 19 giugno 2002 n. 36070, Armeli, rv. 222666).
IX) Ritengono le sezioni unite che la soluzione corretta del problema sia quella proposta dal secondo orientamento riferito anche se il percorso argomentativo di queste decisioni non appare del tutto condivisibile.
Va premesso che, come correttamente si afferma in alcune delle sentenze adesive all’orientamento maggioritario, la natura plurioffensiva del reato in esame non vale a risolvere il problema dandosi casi di reati certamente plurioffensivi (per es. la strage, il falso in bilancio ecc.) che restano ipotesi di reato unico anche se le persone offese sono più d’una. Parimenti non sembra che il problema possa essere risolto in base alla formulazione letterale dell’art. 570 cod. pen. cpv. n. 2 sul rilievo che la norma non considererebbe singolarmente le posizioni degli individui; argomento ambivalente perché la formulazione letterale della norma potrebbe giustificare anche l’opposta soluzione fondata sulla circostanza che la norma individua gli aventi diritto ai mezzi di sussistenza – la cui mancata somministrazione è penalmente sanzionata – ma non fa riferimento, a differenza del comma 1°, a condotte contrarie “all’ordine e alla morale delle famiglie”.
E’ condivisibile invece la ricostruzione del percorso storico giuridico riguardante la famiglia con la considerazione che l’impianto originario, ma tuttora vigente, del codice penale – che inserisce il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nel titolo XI (delitti contro la famiglia) – era forse idoneo a legittimare una considerazione globale dell’ordine familiare tale da giustificare una tutela unitaria e indifferenziata senza che venissero in considerazione le specificità delle situazioni individuali dei singoli componenti.
Già in questa costruzione era difficile individuare una concezione della famiglia come formazione sociale esclusiva che in qualche modo ricomprende in sé anche i diritti dei suoi componenti. Tanto più, come è stato affermato nella sentenza 19 giugno 2002 n. 36070, Armeli, rv. 222666, che “il concetto di famiglia nel diritto penale non è esattamente delineato essendo controverso se in esso sia adottata una propria ed autonoma nozione ovvero se si debba far riferimento a quella recepita nel diritto civile, anch’essa peraltro non compiutamente formulata e quindi tale da richiedere di volta in volta le necessarie specificazioni per stabilire a quale nozione di famiglia ci si intenda riferire (legittima o illegittima, naturale o civilmente riconosciuta, etc.)”. Ma le norme della Costituzione (artt. 2, 29, 30 e 31) e le riforme legislative successivamente intervenute in tema di diritto di famiglia hanno sicuramente rafforzato anche la tutela dei singoli componenti.
Non sembra però corretta la premessa metodologica dalla quale prendono le mosse entrambi i contrastanti orientamenti che sembrano prender le mosse dal presupposto che la norma incriminatrice (l’intero art. 570) preveda condotte assimilabili in categorie omogenee. In realtà si tratta di una norma che fa riferimento ad un ventaglio di condotte di natura diversa che, fermo restando il fine di tutela della famiglia e dei rapporti di assistenza nell’ambito familiare, prende in considerazione condotte ed eventi di diversa natura per i quali ben possono individuarsi beni non omogenei ma parimenti tutelati. E per ciascuna di queste ipotesi ben possono darsi soluzioni diverse quanto al tema dell’unicità o pluralità di reati.
Per esemplificare: l’abbandono del domicilio domestico previsto dal 1° comma dell’art. 570 in esame costituisce un reato unico perché diretto a tutelare esclusivamente la convivenza familiare e non essendo ipotizzabile una tutela differenziata dei vari componenti della famiglia (non si può abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti di uno dei componenti della famiglia). Chi abbandona la famiglia sottraendosi agli obblighi di assistenza non la abbandona in relazione alle singole posizioni individuali; per questa ipotesi sarebbe dunque impossibile affermare una lesione per così dire “frazionata” dell’interesse protetto. E così chi si sottrae ai medesimi obblighi, serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, analogamente compromette quest’ordine indipendentemente da quanti e quali sono i componenti della famiglia.
In questi casi è dunque legittimo affermare che il bene protetto dei singoli si identifica con quello della famiglia intesa nella sua unità e che quindi il reato deve essere considerato unico indipendentemente da quanti siano i componenti del nucleo familiare. Del resto, come si fa ad abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti di taluni di coloro che vi abitano ?
X) Ben diverso è il contesto in cui si collocano le ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 570 cod. pen. dirette a tutelare non un’astratta unità familiare o un ordine o una morale familiare dai contorni indistinti ma ben precisi interessi economici quali la tutela del patrimonio del soggetto “debole” (n. 1) e la vera e propria sopravvivenza economica di questi soggetti (n. 2).
Non è possibile parlare di tutela indifferenziata per l’interesse patrimoniale o economico di singoli soggetti i quali, oltre tutto, possono trovarsi nelle più diverse situazioni. Questa tutela patrimoniale ed economica del singolo componente della famiglia ben poteva essere distinta da quella generica della famiglia già nell’impianto originario della norma; e non è possibile affermarla oggi che addirittura alcune posizioni (quelle del più debole, il minore) sono state distinte dalle altre che sono divenute perseguibili a querela.
In realtà v’è una considerazione dirimente che vale a risolvere ogni dubbio che possa legittimamente perdurare su questo problema. Come – nel caso previsto dal n. 1 del comma 2° dell’art. 570 cod. pen. – è possibile che l’agente malversi o dilapidi i beni di uno dei soggetti protetti e non degli altri così, nel caso previsto dal n. 2, è possibile che l’adempimento degli obblighi di assistenza economica avvenga per uno o più degli aventi diritto e non per l’altro o per gli altri e questa considerazione vale, da sola, ad escludere l’unicità del reato.
Se si pone mente alla formulazione della norma nella logica del reato unico quando vi siano più aventi diritto sarebbe addirittura esclusa – nel caso di adempimento solo a favore di taluno degli aventi diritto – la tipicità della condotta perché l’adempimento soggettivamente frazionato non è descritto nella condotta prevista dalla norma incriminatrice. E va precisato che, in adesione al principio affermato, ove più siano le omissioni (per es. nel caso in cui l’agente fosse tenuto a separati versamenti) deve ritenersi, sia pure con identiche conseguenze sul trattamento sanzionatorio, l’esistenza del reato continuato di cui al primo cpv. dell’art. 81 in esame e non il concorso formale.
E’ dunque corretta la soluzione dei giudici di merito che hanno ritenuto l’esistenza del concorso formale perché l’agente, con un’unica omissione, ha commesso più violazioni della medesima disposizione di legge (art. 81 comma 1° cod. pen.).
Questa soluzione non differisce peraltro da quella che la giurisprudenza di legittimità ha accolto in altri casi, in particolare per l’ipotesi analoga relativa al reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. nel caso di più soggetti passivi della condotta (v. Cass., sez. VI, 21 gennaio 2003 n. 7781, Simonella, rv. 224048).
Deve dunque affermarsi che “configura una pluralità di reati l’omessa somministrazione di mezzi di sussistenza nell’ipotesi in cui la condotta sia posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare”.
XI) Inammissibile è invece l’ultimo motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio, con il quale la ricorrente si duole che non sia stata, dal giudice d’appello, ridotta la pena inflitta dal primo giudice in considerazione della scarsa gravità del fatto contestato.
E’ infatti da considerare che la determinazione della pena da infliggere in concreto rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito che, per l’art. 132 cod. pen., l’applica discrezionalmente indicando i motivi che giustificano l’uso di tale potere discrezionale. In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento e salvo che il caso concreto non consenta anche una motivazione implicita (per es. quando la pena viene applicata nel minimo di legge).
Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego di riduzione della pena, alle circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen., e ha ritenuto adeguata quella inflitta del primo giudice ritenendo, incensurabilmente in questa sede, che il primo giudice (che peraltro aveva applicato una pena non lontana dal minimo) avesse tenuto conto, oltre che dell’incensuratezza, della condotta dell’imputata che non aveva comunque fatto mancare ai figli il sostegno morale.
Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
la Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.