Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 1 aprile 2008, n. 8428
Presidente De Luca – Relatore Napoletano Pm Sepe – conforme – Ricorrente R. Spa – Controricorrente O.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Roma depositato in data 16/10/01 O. Valerio, premesso di essere stato in data 12/4/01 licenziato per motivi disciplinari dalla società R. D. S. alle cui dipendenze lavorava con mansioni di fonico e di aver impugnato in data 19/4/01 il licenziamento e precisato che il recesso datoriale era stato revocato con lettera del 26/4-8/5/01 e previo rinnovo della procedura disciplinare era stato nuovamente licenziato con lettera 10/18.5.01 e di aver comunicato con atto dell’8-11/5/01 di non accettare la revoca del licenziamento e di optare per la indennità sostitutiva di cui all’art. 18, comma 5°, della legge 300/70, conveniva in giudizio la predetta società della quale chiedeva la condanna, per il licenziamento dalla stessa riconosciuto illegittimo e revocato, al pagamento in suo favore di complessive lire. 102.596.670 a titolo di risarcimento dei danni ex art. 18 L. 300/70.
L’adito Tribunale ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare del 12/4/01 in quanto irrogato in violazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e comunque non giustificato per la genericità degli addebiti, accoglieva la domanda sul rilievo che la revoca del licenziamento non seguita dalla effettiva ricostituzione del rapporto, avendo il lavoratore dichiarato di non accettare la reintegra, non era sufficiente a far venir meno l’attualità dell’obbligo di reintegrazione ed ad escludere il diritto di opzione all’indennità sostitutiva.
La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 2879/04 confermava la decisione di primo grado sul rilievo fondante che il rapporto di lavoro a seguito del licenziamento del 12/4/01 era di fatto cessato e non si era ripristinato a seguito della revoca del recesso. Avverso tale sentenza la Società R. D. S. proponeva ricorso per cassazione sostenuto da due motivi di censura.
Parte intimata resisteva al gravame depositando ex art. 378 c.p.c. memoria illustrativa.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo d’impugnazione parte ricorrente deduce violazione e erronea applicazione degli artt. 1427, 1428, 1429, 1431 e 1362 e segg. cc, dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 7 della legge 300/70 nonché difetto di motivazione. Denuncia la ricorrente che la Corte di appello ha omesso ogni pronunciamento relativo alla eccezione, formulata in primo grado e riproposta in appello, secondo la quale essa società non ha posto in essere due distinti atti di licenziamento con effetti ex nunc del secondo atto, avendo semplicemente reiterato, stante l’invalidità del primo atto del 12/4/01 la stessa procedura disciplinare eliminando i relativi vizi procedimentali originariamente inficianti. Infatti, assume la società, il licenziamento del 12/4/01 essendo palesemente invalido, giacché erroneamente adottato, è stato annullato con effetto ex tunc considerato che lo stesso era affetto da errore essenziale, consistito nel aver erroneamente ritenuto che la lettera del 2/4/01 contenesse le giustificazioni della contestazione dell’addebito, rilevante e riconoscibile dalla parte destinataria dell’atto stesso. La sentenza impugnata, quindi, secondo la società è totalmente illegittima perché la Corte non ha tenuto conto che un atto endoprocedimentale viziato per erronea manifestazione del consenso tale da inficiare la regolarità del provvedimento finale adottato può essere, secondo il nostro ordinamento, legittimamente reiterato al fine di sanare l’intero procedimento.
La censura è infondata.
Invero secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 6542/04 e sez. lav. 17971/06, 4391/2007).
Nella specie la questione di cui al motivo di censura in esame non risulta trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ed il ricorrente, in violazione del richiamato principio di autosufficienza del ricorso, non ha indicato in quale atto del giudizio precedente ha dedotto la questione essendosi limitato ad allegare di aver formulato ritualmente in primo grado la relativa eccezione riproposta in grado di appello.
Peraltro, va rimarcato che nessuna specifica censura parte ricorrente muove in punto di accertata cessazione di fatto del rapporto di lavoro a seguito del licenziamento intimato in data 12/4/01 e tanto impedisce di considerare il rapporto di lavoro come mai risolto con conseguente necessità, affinché il licenziamento disciplinare possa intendersi revocato ed il rapporto di lavoro ricostituito, di un accordo tra le parti, che presuppone corrispondenza tra proposta ed accettazione (Cass. 11664/06), accordo che nella specie, come accertato dalla Corte territoriale, non è mai intervento non avendo il lavoratore accettato la revoca del primo licenziamento.
Il motivo in discussione è, quindi, infondato.
Con il secondo motivo di gravame la società allega violazione ed erronea applicazione degli artt. 7 e 18 della legge 300/70 e dell’art. 1218 cc, omessa pronuncia e motivazione circa un punto decisivo della controversia. Prospetta in proposito che il rifiuto del lavoratore di riprendere servizio manifestato con l’atto dell’8/5/01 prima ancora che si fosse portato a termine il procedimento disciplinare che si è concluso con il licenziamento intimato con lettera del 10/5/01 andava considerato come volontà di dimissioni in quanto autonomo e distinto dal licenziamento che ancora non era stato adottato e conseguente a precedente atto annullato dalla società perché viziato da errore e conseguentemente l’O. non aveva alcun diritto di vedersi riconosciuto il risarcimento del danno delle cinque mensilità di retribuzione e delle 15 mensilità di cui al comma 5° dell’art. 18 legge 300/70.
Tale motivo in quanto si fonda sull’assunto, di cui alla prima censura, dell’irrilevanza del primo atto di recesso per essere la volontà ivi manifestata viziata da errore, rimane assorbito.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente in favore del difensore di parte resistente dichiaratosi distrattario delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.020,00 di cui Euro 2.000,00 per onorario oltre spese generali IVA CPA.